La tigre e il riverberone

C’è una band che pare aver preso le reminiscenze grunge dei Nirvana e le ha affogate nello shoegaze. Non vengono da Seattle, ma da Foligno. Ecco perché i Tiger! Shit! Tiger! Tiger! – che tornano con il disco “Bloom” – dovrebbero piacere a tutti quanto a Stephen King (gli piacciono per davvero)

I Tiger! Shit! Tiger! Tiger!
I Tiger! Shit! Tiger! Tiger!

A ricordarlo oggi, che ogni microscopico sottogenere musicale viene individuato, preso, studiato, etichettato e (quasi sempre) nobilitato, che ogni microscopico sottogenere musicale ha la sua festa a tema, il suo biopic e documentario a tema e la sua fanbase a tema a sottolineare come non ci sia un genere (si trattasse pure del porno-grind) migliore, fa veramente strano. Ma vi posso giurare che c'è stato un tempo in cui i giornalisti per descrivere un gruppo sputtanatissimo come sono (adesso, per dire) i Nirvana non aveva la parola “grunge” a disposizione, e si dovevano ingegnare per spiegarseli in primo luogo loro e poi spiegarli agli altri.

Ricordo citare la “propensione ad auto-distruggersi di Hendrix e Morrison”, “la riscossa dell'attitudine musicale della periferia nei confronti delle capitali tradizionali musicali”, l'accostamento alla “melodia acida dei primi REM”, in un graduale capillare avvicinamento a quello che poi la parola “grunge” smarmellò sulla gente come le luci di Duccio Patanè. A farmi ricordare tutto questo è stato Bloom (To Lose La Track / Coypu Records, 2024), il nuovo album in uscita proprio in questi giorni a nome Tiger! Shit! Tiger! Tiger! da Foligno. E già per questo si meriterebbero un grazie, per il bel trip in un periodo di cui sono stato per fortuna sia spettatore che fruitore, in cui le cose non erano a portata di mano come oggi ma forse erano più vissute e - come dire? - poco studiate ma sanguigne.

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Il disco, curato in analogico ai VDSS Studio da Filippo Passamonti (“Perché ha questa sua capacità incredibile di trovare sempre soluzioni ideali, pure stravolgendo ciò che avevi in mente!”), mentore di Bartolini e in ambito strettamente emo del culto Leute ma in passato in studio anche con Kurt Vile, è a tutti gli effetti un'inattesa sorpresa di questo ultimo mese antecedente alla primavera, perché erano tipo cinque anni, dall'uscita del terzo album, Corners (To Lose La Track, 2017) che non ne sentivamo parlare e anche perché nient'affatto anticipato dal battage pubblicitario strombazzante e in genere garantito a molti come-back dopo tanti anni. Alla Slowdive, per capirci - chapeau. “Nell frattempo abbiamo scartato un disco intero ricominciando da capo e poi ci siamo concessi un lungo viaggio interiore che ha portato ognuno di noi a un pezzo di Bloom", mi raccontano. "Ne abbiamo approfittato per fare una riflessione più ampia su dove siamo adesso e anche su quello che non ci piace, che scava nel cervello e non ti lascia più. È stato un periodo che ci ha fatto capire quanto siamo importanti l’uno per l’altro, al di là della musica”.

Fin dal primissimo play mi ha sbalordito il suo plumbeo concentrato di sonorità e sensazioni profonde, oscure, talmente così efficace nel rapporto musica-testi da far apparire persino solari al confronto certi aspetti di molti dei compagni di etichetta, dai Riviera ai Gazebo Penguins, in origine termini di paragone più ricorrenti, specie quando si è alle prese con l'analisi del post (hardcore? adolescenza?) di deriva melodica in salsa umanista. “Abbiamo scelto di rallentare i brani per capire se questa fosse la formula più adatta e per trovare un punto di incontro tra la melodia e la potenza. L’approccio è uscito molto più heavy e in un certo senso liberatorio. Volevamo essere più lisergici e pesanti. Quasi in segno di sfida a noi stessi”.

Registrato in presa diretta (“La presa diretta resta da sempre l’unica via percorribile!”) anche l'immagine di copertina è illuminante: un plein-air bucolico e acido che rimarca la veste del secondo disco, Forever Young (To Lose La Track, 2013), in chiave Unknown Pleasures, e illustra in modo esemplare sia la rinascita floreale data anche dal titolo (Bloom = fioritura) che le strane coordinate musicali perseguite dal Tiger! Shit! Tiger! Tiger!, un senso di oppressione e poi di rinascita palpabile che solo le innate valenze melodiche riescono a redimere, rendendo fruibile in un modo sorprendente Bloom in tutta la sua interezza. “Sicuramente Bloom è la rinascita di qualcosa di indefinito e di bello che cresce però dal catrame, dalla nausea maleodorante delle etichette, dei generi, dei marketers, dei life coach, dei ritiri mindfulness , della perenne spinta al consumo travestito da pensiero alternativo. Quindi Bloom è una specie di concept. Una lunga cavalcata verso paesaggi acidi e schizzati”.

I Tiger! Shit! Tiger! Tiger!
I Tiger! Shit! Tiger! Tiger!

Desertico e stellare, lo descriverei così, se fossi costretto a usare solo due parole. Perché Diego, Giovanna e Nicola sono in grado di riportare alla mente sia l'etichetta grunge, ma anche certo gaze (la copertine è di Keeley Laurens, già direttore artistico per Ride e My Bloody Valentine), ma pure di spingerla oltre, verso lo stoner di quando lo stoner erano i Kyuss o gli Sleep, esercitando così il loro fascino irregolare su strati eterogenei di pubblico: ossia in potenza e anche in sostanza le folle del rock alternativo, del post-punk, del quiet-metal, del emo, del nu-grunge, del post-hardcore e persino di certo krautrok, potrebbero rispondere al loro richiamo.

E noi ci auguriamo che questa trasversalità che li ha portati cinque o sei volte (ho perso il conto) ad esibirsi al celebrato SXSW in Texas possa sedurre e attecchire persino nel feroce pubblico italiano, noto per la sua intransigenza quando non direttamente per la sua miopia: sarebbe veramente bello se una volta tanto andasse oltre la critica di questo sfoggio di segnali contrastanti, ritenuto da che ho memoria “sconsigliabile” in ogni scena, per concentrarsi sull'eccitante e intensa combinazione di un gruppo in perenne crescita artistica come loro. “In attesa della programmazione in Italia, sapere di poter tornare a Austin è sempre una grande scarica di adrenalina. È un posto che amiamo per davvero, abbiamo ricordi indelebili legati a questa città oltre ad amicizie che durano da dieci anni. Bloom doveva per forza di cose atterrare anche li!”.

Dieci brani per Diego Masciotti in condizione smagliante e per Giovanna e Nicola Vedovadi, sezione ritmica impeccabile nel guidare i vecchi e i giovani ascoltatori in un tragitto meditato, forte di ispirazioni multiformi e sfrenatamente riarso, lisergico e onirico. Forte del trittico dei primi singoli usciti, Stones, Endless ed Empty Pool, brani inarcati e saettanti come la coda dello scorpione visto nei loro trip da Mickey e Mallory Knox in Natural Born Killers, risplendono e bruciano d'energia solare che avvince per uso del timbro vocale e torrenziale arazzo di ondulazioni soniche che ripercorrono il meglio dei 90's ma con nuova prestanza fisica e mentale. Presentazione con i fiocchi.

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L'iniziale Memory, allora, cresce e divampa nella sua apertura scabra come la mano lignea di un idolo fluviale dall'enorme agilità si adornerebbe progressivamente di guanti di mota rossiccia: Diego è ipnotico. Dark Thoughts, Blanket e l'aerea In Between, episodi invidiabili nel contesto odierno per le loro essenze ricercate, fondendo sinuosi moduli armonici appassionati al frasario austero delle distorsioni iperromantiche e caustici giri di basso pulsante che timbrano i fondali dei brani con costanti panoramiche dal respiro iridescente. Dopo Hands Down e Afterwards, c'è Melting Forest, brano supremo, affascina già dal titolo e trova conferma nell'intro plettrato che si incanala in correnti elettriche protratte su basi marziali avvinte come sguardi.

I Tiger! Shit! Tiger! Tiger! si ripresentano dopo anni come nulla fosse così, come un gruppo semplicemente grandioso, fatto di luce e oscurità. C'è un documentario sul black metal in cui Fenriz dei Darkthrone sentenzia davanti la foto di un disco: “Big sunglasses! Very Important! Big sunglasses, cool band!”. Ecco, i Tiger! Shit! Tiger! Tiger! di Bloom non solo hanno dei grandi occhiali da sole ma hanno grandi accordi che si riversano in grandi feedback, grandi linee di basso per una una grande voce e un grande riverbero. Proseguendo nel creare sentimenti giganteschi. Comunque vada, per la vita.

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L'articolo La tigre e il riverberone di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2024-03-03 13:05:00

Tag: album

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