Avevano detto che sarebbe stata una vera festa, e così effettivamente è stato. In un Alcatraz dove la foga del pubblico faceva pensare ad un overbooking è andata in scena la nuova versione della festa del Circo Zen. Pochissime parole rispetto al solito, tantissima musica. Senza paura di mostrarsi in versione Greatest Hits, Appino, Ufo, Karim, Maestro Pellegrini e il Geometra Pagni hanno pensato che valesse la pena di farsi una bela cantata coi tremila del club di Via Valtellina.
Pochi colpi, come i battiti di un cuore, cinque figure zompettano sul palco, Sol maggiore schitarrato sull’acustica: è La terza guerra mondiale che apre le danze, e ogni volta ha un sapore diverso, più amaro e incredibilmente mai retorico. L’infilata iniziale è da manuale. Seguono Catene e Non voglio ballare, le linee sono ancora intatte, per ora si canta e basta, a squarciagola. Con Vent’anni il disordine inizia ad aleggiare, ma Il fuoco in una stanza riaccende questa prima parte di concerto per la chiusa dell’Overture, gli accendini si alzano senza indugi. Ed è ora che Ufo chiede al pubblico milanese di farsi riconoscere.
Ora che il pubblico è caldo si può di dare la prima sferzata. Appino annuncia una canzone che pensava fosse attuale al momento della sua stesura, tredici anni fa. In realtà è attuale nel presente, e ancora di più nel futuro, per il suo messaggio universale: Andate tutti affanculo. E per quella dote che hanno gli Zen Circus e poche altre band di creare il panico anche coi pezzi dai ritmi non particolarmente incalzanti, iniziano gli stage diving alternati, si poga senza pietà. Si pogano le parole che il pubblico del circo Zen ha cucite addosso, chi da sempre, chi da poco tempo. Poco importa. E quando il riff di Ilenia rimbalza sul soffitto dell’Alcatraz il parterre è ufficialmente una bolgia, qualche lacrima scende ripensando al pre-covid.
Siamo quasi a metà concerto, e arriva un grande annuncio: è pronto un album. “Lo abbiamo fatto con alcuni cari amici, alcuni li conoscete, invece per altri ci direte ‘Ma perché avete suonato con questo qua?’” dice Appino, con la sua inconfondibile verve polemico-ironica. Ed è il momento del singolo che anticipa il nuovo album, 118. L’ospite d’onore Claudio Santamaria non sale sul palco, ma il pezzo ha una resa live notevole. Così come Il mondo come lo vorrei, con nuovi inserti di piano, che scatenano una sorta di valzer atipico.
Dopo Pisa merda e un gioco divertentissimo dove ad esser merda è tutto, le luci tornano basse. Tocca ad Appesi alla luna, dove le armonizzazioni del Maestro Pellegrini crescono di volume e si fanno decisamente più presenti. Alla fine del pezzo rimangono soli Appino e il Geometra. La versione piano e voce de L’amore è una dittatura è una stilettata nel cuore ancora più calda dell’originale, perché cantando le parole con più calma si riesce a sentirne il sapore amarissimo, e soprattutto mai casuale.
“Possiamo tornare a fare casino, come una volta quando suonavamo in strada” tuona Ufo. Karim impugna la sua tavoletta zigrinata e il momento busker può partire. Prima Ragazzo eroe, durante la quale i tre si scusano col Geometra Pagni (metallaro purosangue) per averlo costretto a suonare una melodica celeste sul palco dove lui aveva visto suonare i suoi eroi di gioventù. Poi Mexican requiem e Figlio di puttana. Potrebbero andare avanti tutta la notte in acustico, è casa loro questo suono secco e asciutto, che viene tutto dalla pancia.
L’ultimo atto inizia con Non − terzo ed ultimo brano in scaletta del nuovo disco −, ma prima dell’uscita dal palco Nati per subire ammazza definitivamente il fiato di un pubblico che ha cantato ogni sillaba da un’ora e mezza a questa parte. I bis sono in salsa più che classica. L’anima non conta, con Appino che continua a declamar parole anche dopo l’ultimo ritornello, poi l’unica chiusa possibile: Vivi si muore, ma anche morti si vive purtroppo. La gente ce l’ha tatuato addosso, scritto sulla maglietta. Il motto di chi è tornato a credere nella collettività, nonostante il verso della famosa canzone.
Dopo l’ultimo applauso, in pieno stile Zen, è Adius di Piero Ciampi ad accompagnare il pubblico all’uscita. Veniamo mandati affanculo per l’ultima volta, con quel tipo di tough love che solo Appino, Ufo e Karim possono dimostrare. Sembra proprio che sia finito un normale concerto degli Zen Circus. E scusate se è poco. Mancava questa qualità d’emozione, quel ricercarsi tra sconosciuti legati dalla violenza delle parole di venti canzoni che non sono altro che ragioni di vita. Tremila circensi sudati tornano a casa come non succedeva da tanto. Que viva el circo Zen!
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L'articolo Un normale concerto degli Zen Circus (e scusate se è poco) di Gabriele Vollaro è apparso su Rockit.it il 2022-04-07 14:43:00
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