Tra i boschi del Massachussetts e l'Agro Pontino: i Black Tail raccontano il nuovo album

I Black Tail parlano del nuovo album, dei vantaggi della città e del richiamo della natura, con la speranza di un futuro migliore per la musica indipendente italiana.

Black Tail (Tutte le foto sono di Roberto Bonfanti)
Black Tail (Tutte le foto sono di Roberto Bonfanti)

I Black Tail hanno da poco pubblicato il loro secondo album "One Day We Drove Out of Town" per MiaCameretta Records/Lady Sometimes Records, e ce lo raccontano in questa intervista, dove parlano di boschi del Massachussetts, dell'Agro Pontino e di cosa avrebbe bisogno la musica indipendente in Italia.

Chi sono i Black Tail e come vi siete trovati insieme?

I Black Tail nascono nell’autunno del 2013, periodo nel quale mi trovavo a Boston. Durante un’escursione insieme ad amici nei boschi, abbiamo incrociato un cervo dalla coda nera. Quell’immagine sintetizzava l’evanescenza e la ritrosia che inevitabilmente ti senti addosso quando sei alla ricerca di un habitat mentre tutto intorno cambia. Era anche un buon nome per un progetto musicale. Insomma, la combinazione perfetta, se stai cercando segnali o scuse per riprendere attivamente a suonare. Ho scritto e registrato un po’ di materiale in viaggio, poi ho ricontattato Simone e insieme abbiamo iniziato a lavorare sui brani. Non ci siamo mai posti il problema di dare una forma al progetto, anzi, ci piaceva l’idea di un qualcosa di variabile, che potesse trarre forza dalla propria adattabilità. Abbiamo iniziato a cercare musicisti soprattutto rispetto agli approcci significativi dal punto di vista della cura del proprio suono e delle dinamiche. E’ così che Luca e Roberto hanno dato subito un apporto significativo per la forma del disco che avremmo registrato e determinante per il suono della band.

Il vostro album d’esordio è stato registrato in tre giorni, invece per “One Day We Drove Out of Town”, come avete precedentemente dichiarato, vi siete “chiusi in sala prove per tre mesi”. Su cosa avete lavorato maggiormente?

Con "Springtime", essendo l’album d’esordio, ci sembrava fondamentale presentarci con un disco diretto, dalla produzione essenziale. Per il secondo album avevamo in mente un lavoro un po’ più denso nella parte della produzione, che tirasse dentro anche altre sfumature. Prima di iniziare ci siamo trovati a riorganizzare i piani, quando Simone e Luca hanno dovuto fare temporaneamente un passo indietro per motivi personali. A quel punto avevamo due scelte: fermarci e attendere il momento migliore in un futuro indefinito, o tirare dritti, senza ripensamenti. Sai bene che per chi suona la stasi è un qualcosa di inaccettabile, in grado di minare ogni motivazione. La capacità di adattare la formazione è stata l’elemento vincente. Ci siamo dati il tempo dell’estate per scrivere tutto e iniziare una pre-produzione atipica, in cui abbiamo fissato il grosso dei brani, per poi completare il resto direttamente in studio, allargando la partecipazione a Filippo Strang ed Ettore Pistolesi (entrambi Flying Vaginas), che hanno suonato rispettivamente basso e chitarre alternandosi a Luca e Simone. È diventato un disco più aperto, in cui questo insieme di persone si è raccolto intorno alle canzoni. Questa modalità è interessante, perché crea ulteriore spazio per la creatività e la sorpresa.

C’è un brano, all’interno di questo album, che reputate più rappresentativo degli altri per la vostra musica?

Questa è una domanda difficile. Ci sono molte cose rappresentative, nella vita di un entusiasta musicale, per cui diventa complicato isolarle. La nostra musica è un po’ la somma di tante influenze, filtrata attraverso i tentativi di elaborare un percorso che possa suonare identitario. È stato bello constatare come lavorando a stretto contatto, anche le impressioni di chi vi ha partecipato, a fine disco, sono risultate coincidenti. Se dovessimo usare le coordinate per triangolare ciò che pensavamo dovesse essere il feeling dell’album potremmo dire “Spider/Galaxy”, “A Fox” e “Text Walking Lane”. Un po’ slacker, un po’ trasognato, un po’ jangle. Una mitezza con una vena recalcitrante, se ci metti “Wild Creatures”.

Ci sono poi tre brani, ovvero “Sleepy Volcano”, “Campfire” e “Wild Creatures”, che, pur restando fedeli alla linea del folk americano, spezzano piacevolmente l’andamento tenue e rilassato delle altre canzoni con la loro vitalità. Qual è stata la loro genesi e che ruolo hanno per voi all’interno del disco?

Quando vuoi raccontare un disco, l’andamento dinamico è uno dei modi possibili, la funzione di quei brani in relazione con l’insieme, rappresenta esattamente questo. Voglio dire, non abbiamo deciso a tavolino di scrivere dei brani da usare come transienti più veloci, però a fine lavori, stilando la tracklist, hanno assunto quel ruolo. “Sleepy Volcano” fa il gancio con l’album precedente, sia per come inizia che in termini di tematiche. “Campfire” ha una connotazione più cinematica. A diciassette anni, durante il campeggio, ho letto l’“Estate Incantata” di Bradbury, e quel senso di magica sospensione mi ha catturato. “Wild Creatures” è di fatto una dichiarazione d’amore al restare fieramente vicini a ciò che si è, all'integrità, all'indipendenza. E' dedicata a un sacco di persone sia coinvolte nel disco, sia amici che suonano o che si muovono in ambiti creativi. Puoi vederlo come un nostro personale inno per tutte le creature costruttivamente restie riguardo agli hype e alle bolle di entusiasmo che spesso costituiscono la modalità con cui siamo abituati a relazionarci alla creatività oggi.

A proposito di indipendenza, ha ancora senso per voi parlare di musica indie in Italia?

Per la nostra generazione la musica indipendente è stata una scelta quasi politica, poi per qualche motivo, è diventata un genere, cosa che non ha nessun senso; per noi resta un’attitudine, una cosa che ti scegli per come sei, non che accetti tuo malgrado, perché non puoi fare altrimenti. Ecco, ho cercato di analizzare il rapporto dei miei amici, con il proprio micro/macrocosmo creativo, il loro senso dell'integrità intellettuale e mi ha fatto pensare a delle creature selvatiche che guardano quelle luci dall’erba alta con una certa ritrosia. Semplicemente perché sei quello che sei, e puoi fare come ti pare, puoi chiamarlo come ti pare, puoi vestirlo come ti pare, ma è ciò che resti e ciò che devi preoccuparti di sembrare. A pensarci bene, mi sento fortunato ad avere amici ai quali poter dedicare una cosa del genere.

Le vostre canzoni parlano di viaggi in America, di passeggiate nei boschi, di un mondo a volte troppo alienato dalla tecnologia, e la vostra musica, diretta e analogica, sembra sottolineare a sua volta un desiderio di riavvicinamento alla natura. Siete di quelli che amano stare in campagna isolati dal mondo?

Viviamo tutti nella pianura pontina, è una dimensione che impari subito a riconoscere come sospesa tra spazi aperti e nuclei urbani. C’è Roma, c’è Latina, due grandi centri, e un sacco di città perlopiù industriali nel mezzo, ma specialmente intorno a Latina, ci sono anche scenari naturalistici e storici incredibilmente belli, per cui è difficile non subirne il fascino. Questa ambivalenza è una cosa forse connaturata per noi. Personalmente non saprei immaginarmi lontano dalla realtà cittadina, che è il luogo in cui la socialità è accelerata, più agevole. Percepisco la fortuna di vivere vicino a una metropoli come Roma, in cui ti è possibile quella cosa necessaria come respirare, che è avere spazi per andare a vedere concerti con una certa facilità e frequenza.

Quindi la natura diventa un luogo in cui rifugiarsi quando la città, seppur con tutti i suoi vantaggi, diventa stretta?

Le nostre vite ruotano intorno a lavori che esistono e anzi, si fondano, sulla tecnologia, e in quel senso questa ambivalenza non smette di avere un ruolo determinante in ciò che siamo. Mi piace l’idea di potermi allontanare per un po’, quando ne sento il bisogno, e ritirarmi lontano da tutto, fare una passeggiata al lago, o in montagna. Andare al VDSS, che sta davanti a un bosco, quando devo registrare musica e mi piace raccogliermi. Ma mi piace anche avere tutte le possibilità di venire a contatto con realtà altrimenti troppo distanti, grazie alla tecnologia. Adoro attraversare lunghe linee dritte in mezzo a spianate di verde, costeggiate da eucalipti, per andare a fare le prove, parcheggiare, e attaccare la chitarra elettrica a un amplificatore e a una pedaliera piena di manopole e saldature. Mi piace sia così, mi sembra un compromesso vantaggioso.

Pur essendo italiani, vi siete ufficialmente formati a Boston e viaggiate molto: se doveste fare un confronto costruttivo sulla situazione degli artisti in Italia e all’estero, quali indichereste come punti di forza della nostra nazione e quali le cose su cui bisogna ancora lavorare?

In generale la mia impressione è che esista una proposta sconfinata e ben preparata in entrambe le scene. Forse una differenza attitudinale è nel modo di gestire l’underground e le possibilità legate ad esso. Certe dimensioni, soprattutto medie, sono l’habitat naturale per qualsiasi scena indipendente – pensa alle radio universitarie, ai club musicali, ai piccoli network e redazioni – ebbene, ho sempre l’impressione che qui tendano ad essere derubricate a semplice tappa deprimente e obbligata per cui devi passare sperando di arrivare ad un qualche ‘successo’ superiore. Così non rendiamo un servizio né alla musica indipendente né al valore di tante realtà che vi orbitano. Perché ok, dicevamo, abbiamo trasformato indie e alternative in semplici generi musicali, gli abbiamo messo l’etichetta per poterli sistemare sugli scaffali, prezzarli e smistarli meglio ad un target di acquirenti, ma forse è il caso di tornare alla radice di quello che significa voler prendere una certa strada. Non è una tappa, non è gavetta: è una scelta seria.

All’estero c’è quindi per voi una maggiore attenzione per le realtà fuori dal mainstream?

Ecco, mi sembra che loro riescano meglio di noi a capire che se vuoi essere i Pavement, o Bill Callahan, i Built to Spill o la Matador, allora devi smontare alcune sovrastrutture compatibili. Preoccuparti di altro. Innanzitutto smetterla con l’ossessione che la carriera ti legittimi solo se arriva a certi livelli di celebrità e di vendite. Non è così che gli dai una legittimazione: sei già autorizzato a fare quello che fai. Preoccupati di introdurre una narrazione umana, la tua identità individuale. Esiste una differente idea di successo, e scelte diverse per raggiungerlo, che passano per processi e mercati diversi. Se i numeri crescono, bene, significa semplicemente che molte persone hanno raccolto il tuo messaggio, e stai parlando ad una platea grande, ma come intendi arrivarci è cruciale. Questa consapevolezza aiuta te come musicista, ma soprattutto aiuterebbe chi già produce, promuove o diffonde musica nel compito di creare una cultura realmente alternativa, una seconda via concreta e percorribile, nel pieno del suo senso. Va detto che rispetto all'Italia, loro riescono meglio a non giocare solo sul sicuro, per la maggiore facilità con cui si creano reti e affezionati, certo favoriti da scenari demograficamente più grandi e maturi.

E la situazione italiana per voi com’è?

Diamine, noi abbiamo scene molto più che floride, che troppo spesso faticano. Basterebbe non lasciarle a questo dantesco sottobosco, a inventarsi espedienti, a sentirsi di poco conto fino a portarle a desistere, solo perché vale la regola che l’obiettivo è reale unicamente se vende a palate, se fa visualizzazioni a palate, se crea hype, qualsiasi cosa questo significhi. Iniziare a capire che non è vero che o impari venderti alla massa, o è meglio che lasci perdere, che per te non c'è posto se non hai un numero significativo di persone e consumatori che rendano proficuo il tuo mestiere. Essere alternativi a questo pensiero. Essere indipendenti da queste logiche. Parlare a chi, come te, non si riconosce in altro, stabilendo un ordine diverso di priorità e reciproca fiducia. Creare scene altrove, altri circuiti, se non te ne lasciano, e magari smettere di adottare modi di fare che appartengono ad altri ambiti e retaggi. Imparare che puoi richiedere alla musica altre cose, e che esiste un altro metro ugualmente valido. Abbiamo piccole etichette che si sfiancano per tenere viva la base di una cultura indipendente, prosciugata dalla convinzione che l’unica speranza sia cedere alle logiche commerciali intese solo come fenomeni di massa. Sarebbe bello e coraggioso iniziare a tributare loro un credito maggiore. Farebbe una bella differenza, qualsiasi sia il termine di paragone. Io ne ho piena fiducia.

A questo punto vogliamo assolutamente ascoltarvi dal vivo: avete concerti in programma per l’autunno?

Stiamo cercando di riempire un calendario per l’inverno e cercando di ampliare le collaborazioni per il booking. L'inverno sarà il momento in cui promuoveremo maggiormente il disco, per cui contiamo di confermare e aggiungere a breve tutte le date. Intanto grazie per la bella chiacchierata e speriamo di incontrare presto chi è interessato alla nostra musica o a fare due chiacchiere sulla musica in genere.

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L'articolo Tra i boschi del Massachussetts e l'Agro Pontino: i Black Tail raccontano il nuovo album di Doriana Tozzi è apparso su Rockit.it il 2017-11-15 09:45:00

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