30 anni di Blow Up, la fanzine che non voleva crescere

Nata negli anni '90 in una biblioteca di provincia, la rivista ha finito per diventare un prezioso punto d'approdo per i cercatori di musica "altra", facendo convivere anche i generi più disparati insieme, da Stockhausen al liscio. Ecco come continua a riuscirci, in un mondo sempre più appiattito

Un po' di copertine storiche di Blow Up
Un po' di copertine storiche di Blow Up
29/09/2025 - 14:38 Scritto da Giuseppe Catani

Settembre 1997: una strana fanzine comincia ad aggirarsi tra gli appassionati di rock e altri effetti collaterali. Si chiama Blow Up. Fanzine per poco: ci sarà il tempo di sbarcare in edicola e per ergersi a punto di riferimento imprescindibile di chi ama rovistare nel torbido della musica “altra”. Trent’anni non passati invano, che questa intervista a Stefano Isidoro Bianchi, leader maximo di Blow Up, cerca di riassumere e condensare.  

Stefano, ci racconti com’è nato Blow Up?

Blow Up è nato nella primavera 1995 per noia e curiosità. Sono sempre vissuto in un buco di culo di mondo (nella campagna del comune di Cortona, provincia profonda) in cui non c’era assolutamente niente di interessante da fare oltre a sognare di fuggire via; dato che non ho mai avuto il coraggio di andarmene se non con la fantasia, mi rimpinzavo di libri, fumetti, musica e cinema e con essi nutrivo una doppia esistenza, quella della normalità quotidiana e quella di Altrove, il mondo in cui vivevo realmente e che era collocabile tra New York, Londra e Parigi. Nel ’93-’94 avevo comprato il mio primo PC: dato che coltivavo la passione per la scrittura (un paio di romanzi abortiti, un bel po’ di racconti e qualche poesia), dapprima iniziai a trascrivere tutto.

E da questo come è arrivato Blow Up?

Fu tutt’uno. Blow Up era un nome perfetto perché indicava un’esplosione e allo stesso tempo rimandava ad altre due mie passioni, i Television (l’album Blow Up) e il celebre film di Antonioni. Lavoravo in una biblioteca (ci lavoro ancora oggi) dove veniva a studiare Fabio Polvani, facemmo amicizia, scoprimmo la comune passione per la musica e quindi iniziammo a scrivere. Scrivemmo il primo numero (settembre 1995) quasi interamente da soli, poi col secondo numero entrarono altri, in particolare Roberto Municchi ed Etero Genio, coi quali formammo il quadrumvirato che realizzò il giornale fino ai primi anni ’00 gestendo anche l’ingresso dei nuovi collaboratori e il passaggio da fanzine a rivista in edicola, che avvenne nell’estate 1998. Furono anni straordinari e indimenticabili, avevamo un entusiasmo enorme per quello che facevamo, eravamo molto ingenui e naif ma ci sosteneva una grande passione. Uno dei periodi più belli della mia vita.

Cosa prevedeva il sommario del primo numero della fanzine? 

In copertina c’erano i Thinking Fellers Union Local 282 e oltre a loro c’erano articoli su Kyuss, Bad Religion, Beck, Smog, Fugazi, Three Mile Pilot e Céline, testi tradotti e recensioni. Il primo numero tracciava già la linea: musica a 360 gradi e senza distinzione tra underground e mainstream o vecchio e nuovo, libri, polemiche. Il nostro atteggiamento era esattamente quello di oggi.

Com’è è avvenuto il passaggio in edicola?

La fanzine iniziò ad avere successo, al punto che la situazione iniziò a diventare insostenibile: io ero un dipendente pubblico e questo impegno si profilava come un secondo lavoro. Nel 1996 decisi di fare una scommessa radicale: l’anno seguente saremmo usciti solo in abbonamento, niente più vendita nei negozi. Nel frattempo iniziai a cercare un editore disposto a registrare la testata in tribunale e ad accollarsi la pubblicazione in edicola, ma tutti quelli che contattai declinarono la proposta per motivi diversi. Nel frattempo la cosa del solo abbonamento stava andando benissimo: arrivammo ad averne oltre 600, cioè più delle copie che prima vendevamo nei negozi di dischi. Un successo, ma restava il problema del mio “doppio lavoro”. Per qualche tempo pensai che sarei stato costretto a rinunciare a tutto… Poi arrivò il miracolo: San Franco Bassanini, al momento ministro della Funzione Pubblica, se ne venne fuori con la brillante idea del part-time nella Pubblica Amministrazione. Detto, fatto. Andai in part-time dalla biblioteca, presi la partita IVA, cercai un distributore per le edicole e nell’estate 1998, tra mille difficoltà economiche, lanciai Blow Up in edicola. Fino a marzo 1999 lo feci uscire come bimestrale perché non avevo abbastanza soldi per pagare la tipografia ogni mese, quindi aspettai la riscossione delle prime pubblicità (settembre-ottobre) e i primi pagamenti del distributore (dicembre), dopodiché via col mensile. Il resto, come si dice, è storia.

A quel punto ti sei trovato da fanzinaro a imprenditore: dovevi far quadrare i conti, vendere… Come ti sei trovato nel nuovo ruolo?

Tutto sommato bene. Vengo da una famiglia contadina, sono stato educato a fare i conti con cura prima di impegnarmi in qualcosa, a cercare di prevedere i problemi e ad affrontare le difficoltà impreviste. Insomma, sapevo già come muovermi.

All’epoca circolavano parecchie riviste musicali, a cosa credi sia dovuto il successo di Blow Up?  

Abbiamo riempito un buco, seppure involontariamente. Negli anni ’90 l’esplosione commerciale del CD in tutto il mondo aveva fatto sì che nascessero anche in Italia molti distributori indipendenti che rappresentavano le etichette inglesi e americane e ne promuovevano, importavano e vendevano i dischi ai nostri negozi. Questi distributori riempivano il mercato coi loro dischi lasciando poco spazio per quelli delle etichette che non avevano una rappresentanza-promozione-distribuzione. I giornalisti persero la voglia di cercare nel sommerso e di spendere soldi per comprare altri dischi. Così molte cose si perdevano o non venivano trattate con la dovuta rilevanza dalle riviste italiane: tutto il mondo del post-rock e lo-fi, drum’n’bass, techno e IDM, le avanguardie post-industrial e ambient isolazioniste, l’alternative hip hop, in generale tutti i sottogeneri underground di minoranza rispetto al grunge, al crossover o al nu metal che andavano per la maggiore. Noi invece compravamo montagne di dischi, sia dagli importatori diretti che dall’estero, senza badare al mercato interno. Rovistare nel torbido era la nostra attitudine da sempre, eravamo mediamente più grandi di molti dei giornalisti delle riviste ufficiali e scrivevamo di quello che ci piaceva di più: così incontrammo un pubblico che, come noi, non si accontentava di quello che circolava ufficialmente. Ti racconto un altro aneddoto molto significativo in tal senso.

Prego!

Un giorno di inizio 1997 mi chiamò un signore che mi disse di chiamarsi Eugenio Cervi e di essere il responsabile acquisti di Venus. Gli dissi che non avevo idea di cosa fosse Venus e lui, un po’ sorpreso, mi rispose che era il più grande grossista di dischi del nord Italia. Mi raccontò che aveva un problema perché c’erano un sacco di negozi che gli stavano chiedendo “il disco dell’anno di Blow Up” ma lui non aveva idea di cosa fosse Blow Up. Si era informato, aveva trovato la fanzine e quindi mi aveva chiamato. Avevano avuto richieste per oltre mille copie di questo disco che a loro non risultava avesse una distribuzione in Italia: era un caso più unico che raro che una fanzine facesse muovere numeri a cui neanche le riviste ufficiali arrivavano. Si trattava di Upgrade & Afterlife dei Gastr Del Sol. L’etichetta era la Drag City e la promozione in realtà c’era ed era la Wide, non così grande come altre, ma molto attenta a quel che nasceva nel sommerso. Ecco, questo per dire che esisteva un mercato underground/alternativo del rock-elettronica-improvvisata che, pur piccolo, aveva bisogno di una voce che ancora non c’era e che trovò in Blow Up.

Puoi scegliere una copertina che ti rende particolarmente orgoglioso del tuo lavoro?

Sono tante, troppo da poter ricordare. Abbiamo dato la copertina a personaggi grandi ma molto poco commerciali come John Cage o Arthur Russell, a sconosciuti Snowdonia o esordienti come Le Luci Della Centrale Elettrica o i Pissed Jeans il mese stesso in cui pubblicavano i loro primi album, non abbiamo mai avuto problemi a passare da Franco Battiato ai V/VM, siamo stati i primi (e gli unici) a non mettere alcuna foto di musicisti in copertina o a fare puzzle di più foto, abbiamo lanciato decine di sconosciuti che poi sono diventati molto popolari. In generale direi aver sempre fatto quello che sentivamo di fare senza alcuna preclusione e senza farci dettare l’agenda da niente e da nessuno. Ma se dovessi rivendicare un merito, uno solo, sarebbe proprio quello di aver evitato come la peste la scrittura accademica, solenne e paludata, che non ci appartiene per condizione ma anche per scelta. Una volta il direttore di una rivista che affrontava musiche simili alle nostre con un approccio wannabe accademico mi rimproverò proprio il fatto di passare, nello stesso numero, da un articolo su Stockhausen a uno su Madonna ritenendolo una specie di sacrilegio, mentre una delle nostre motivazioni principali era proprio abbattere gli steccati tra supposta musica “alta” e supposta musica “bassa”. Lo seppellii con una risata.

Una cosa che non rifaresti, di cui ti sei pentito?

Anche in questo caso ce ne sono diverse ma nessuna particolarmente pesante. Qualche recensione un po’ sopra le righe, qualche collaboratore che avrei potuto evitare di far salire a bordo e qualche incomprensione che ha allontanato altri che stimavo e stimo ancora. So però che se non avessi fatto tutto quello che ho fatto non sarei qui oggi: tutti noi siamo anche la somma dei nostri errori, senza di essi le cose non andrebbero come vanno e non è detto che sarebbero migliori. Quindi nulla da recriminare e nulla di cui pentirsi: va bene così.

Nel 1995 non c’erano internet, E-mule, Spotify, l’intelligenza artificiale... Come avete gestito questi cambiamenti? Avete notato sin da subito che c’era qualcosa che non andava?

Capii immediatamente che le innovazioni in arrivo con Internet avrebbero portato alla fine di un’epoca, ne scrissi già all’indomani della nascita dell’mp3, nel 1999, e poi più volte nei primi anni Duemila, tanto da guadagnarmi decine di critiche in cui mi si diceva di essere arretrato, vecchio, superato dai tempi e persino fascistoide se mi opponevo al ‘progresso’. In realtà non mi opponevo al ‘progresso’ e non avevo nulla in contrario a qualunque innovazione, ne ero e ne sono solo un osservatore: pensavo che quelle innovazioni avrebbero portato alla fine del mercato del disco e che la fine del mercato del disco avrebbe portato alla fine della musica così come l’avevamo conosciuta per oltre un secolo. Cosa che si è puntualmente verificata: quella che viviamo oggi è l’epoca post-registrazione e quella che ascoltiamo oggi è musica, bella o brutta che la si consideri, che ha molto poco a che spartire, tecnicamente e culturalmente, con quella che ascoltavamo fino a una ventina di anni fa.

Chi è il lettore tipo di Blow Up?

Ovviamente non posso dirlo con certezza ma se dovessi fare un ritratto di massima direi che si tratta di lettori maturi (non solo anagraficamente), curiosi e interessati alla cultura in senso lato. L’allargamento dello spazio dedicato ai libri e al cinema ci ha probabilmente alienato qualche antica simpatia strettamente musicale ma ce ne ha guadagnate altre di vedute più ampie.

Blow Up rappresenta un punto di riferimento per le musiche “altre”, ci spieghi il vostro interessamento nei confronti del liscio, speciali come quello su Raffaella Carrà o certe copertine? Le prime che mi vengono in mente: The Dark Side of the Moon e Born in the USA.

Abbiamo fatto quello che dici proprio perché siamo interessati alle musiche “altre”: c’è qualcosa di più ‘altro’, per il lettore-tipo di riviste musicali, di Albano e Romina o Raffella Carrà o il liscio? Non mi piacciono gli steccati, non mi piacciono i confini, non mi piace per niente chi ha convinzioni radicate e assolute nella vita, nella politica e men che meno nell’arte. Mi piace mettere sempre tutto in discussione. Credo che la musica non sia assolutamente tutta bella ma sia assolutamente tutta interessante. Il liscio e Born in the USA possono anche non piacere ma per certo sono entrambi molto interessanti da analizzare. È importante parlare, discutere, ascoltare, informarsi e non avere mai certezze di alcun tipo.

Cosa pensi del giornalismo musicale del web?

Per certi versi è stato un nostro competitore agli inizi, quando l’interazione del web ha permesso a chiunque di discutere, scambiarsi opinioni, aprire un blog o una webzine ascoltando tutta la musica desiderata senza pagare nulla. A quel punto ci sono stati lettori che hanno trovato il loro luogo d’elezione e hanno abbandonato le riviste. Col tempo le cose sono un po’ cambiate, sia le webzine che le cartacee hanno aggiustato il tiro trovando una loro dimensione adatta, che per grandi linee direi da un lato più votata all’informazione immediata ed essenziale e dall’altro alla critica di più ampio respiro – nel senso della lunghezza e dell’approfondimento. In generale credo che il web sia, per sua stessa natura, un luogo in perenne transizione che non permette di fossilizzarsi e impone di adeguarsi e adattarsi a trasformazioni che nascono a getto continuo. La carta ha una storia plurimillenaria alle spalle, vive su tempi più lunghi e fallisce quando cerca di rincorrere l’ultima novità tecnologica; anche per motivi generazionali, io vivo sulla carta e non sul web. Adesso poi c’è il massiccio ingresso in scena dell’intelligenza artificiale che sta rimettendo tutto in discussione in maniere imprevedibili per chiunque, sia per la musica che per la scrittura sulla musica. Viviamo tempi molto interessanti, non necessariamente piacevoli, ma certamente interessanti.

Inutile negarlo: le vendite delle riviste musicali non sono più quelle di un tempo, sei d’accordo con l’analisi secondo la quale i vostri problemi siano stati determinati dal web, che è gratis? 

Sono d’accordo ma con una precisazione essenziale: la rovina delle riviste musicali (nel senso della perdita di lettori) è stata la musica scaricabile gratuitamente, non le webzine, che in larghissima misura ne sono una conseguenza. È una distinzione importante.

Come credi sia cambiata la musica italiana in questi trent’anni?

Direi che fino a quindici anni fa le cose giravano come sempre. Poi hanno cominciato ad andare sempre peggio, come la musica in generale. Dove non c’è mercato e non ci sono soldi non c’è arte. Valeva duemila anni fa, vale oggi e varrà anche domani.

Cosa ascolti in particolare?

Ho sempre amato molto la musica italiana, come credo tutti… Ti risparmio gli amori adolescenziali (Battisti, Jannacci, Bennato, Guccini, Gaetano, Conte, il primo Daniele, gli Squallor) e quelli della maturità anni ’80 (su tutto e tutti i CCCP, i Diaframma, il Battiato ‘pop’ e i Pankow) solo per dirti che negli anni ’90 ci siamo un po’ persi di vista. Ho amato abbastanza ma senza grande trasporto il primo hip hop (avevo già fatto indigestione di musica & politica negli anni ’70 e mi era bastata e avanzata) e i CSI, poi amore totale per Vinicio Capossela e gli Almamegretta, apprezzamento per Afterhours, Baustelle e Starfuckers/Sinistri, di nuovo grande amore per My Cat Is An Alien, 3/4 Had Been Eliminated (e conseguenze), Riccardo Sinigallia, tutta la truppa del sommerso avant-rock (Wallace Records, Six Minute War Madness, Xabier Iriondo, Vonneumann), i primi Bachi da Pietra, Claudio Rocchetti, Paolo Saporiti… Mi dispiace e chiedo scusa a tutti quelli che non cito ma sono troppi per poterli ricordare in pochi minuti.

E oggi?

Oggi in tutta onestà vedo un Grande Vuoto che comunque corrisponde al Grande Vuoto della musica generale. L’asfissia economica e quindi la sostanziale fine delle etichette discografiche ha segnato l’appiattimento creativo sulle piattaforme del web dove tutti sono sullo stesso piano, robe ipermainstream e suoni dissenzienti, nomi enormi e piccolissimi. Questo azzera le differenze, tutti corrono a cercare visibilità nei contest TV e nei social media adeguandosi a quello che essi pretendono, cioè pressoché tutto eccetto la musica. E poi c’è questa piaga della trap wannabe sanremese, dei delinquentelli fascistelli che vomitano le loro idiozie e le loro violenze su basi musicali prefabbricate, un vero disastro che i ragazzi di oggi seguano questo zero intellettivo. Almeno il gangsta rap americano, che era comunque anch’esso profondamente deprecabile, aveva dalla sua basi sonore di qualità: qui da noi invece c’è la merda pura.

Se potessi, come cambieresti questa situazione?

Se avessi soldi, tempo e molta vita davanti a me creerei una piattaforma di sola musica italiana dove si entra pagando una quota d’ingresso, in modo da togliersi dalle scatole perditempo e non interessati (e stabilire una diversità, una differenza, una distanza), e si ascolta solo musica scelta e non chiunque capiti, un po’ come fosse una rivista in cui trattiamo solo quello che preferiamo. A chi coltiva qualche volontà ‘alternativa’ rispetto al presente dico, dal basso della mia esperienza: andatevene dalle piattaforme streaming, cercate strade alternative, distinguetevi, ponete una distanza tra voi e gli altri, chiunque siano gli altri non importa ma create differenza. Fregatevene del can can di Facebook, Instagram, Tik Tok e quel che è. Create un circuito alternativo a tutto. Il punk e la musica indipendente nacquero esattamente così, dalla volontà di fare da soli senza sottostare alle leggi delle major. Tenete presente che le major di oggi non sono le major discografiche ma le piattaforme di streaming.

Siete sbarcati sui social, anzi, su di un social, a fine 2022, come mai tanto ritardo?

Precisiamo: siamo solo su Facebook perché obbligati, diciamo così, da certi accadimenti, altrimenti non saremmo neanche lì. Non ci eravamo ancora sbarcati perché non ce n’era motivo: il web è un mezzo completamente diverso dalla carta stampata e persegue scopi completamente diversi se non opposti e talvolta concorrenti. Oltre tutto se ti ci dedichi con costanza è un’enorme perdita di tempo che può andare bene e benissimo per chi ha tempo da perdere (io stesso mi ci diverto nel tempo libero), ma non per chi scrive per lavoro. Solo come veicolo pubblicitario ha senso, però in tal caso costa molto più di quanto fa ricavare, almeno da quello che ho potuto vedere personalmente finora.

Il traguardo dei trent’anni che impatto avrà sul giornale? Ci sono novità in vista?

La novità del momento è la promozione che stiamo facendo per chi si abbona fino al 31 dicembre: ogni abbonato riceve in omaggio il libro 1.197 oggetti di culto, scritto da tutti i collaboratori che hanno raccontato i loro dischi, libri, fumetti, film, eventi, eccetera eccetera. È una piccola cosa ma per noi significa molto, stiamo ricevendo critiche entusiastiche.

Tra trent’anni Blow Up

Non vorrei apparire troppo negativo, ma fra trent’anni, se sarò ancora vivo, ne avrò 94. Temo che siano troppi per fare ancora Blow Up… Che potrebbe ancora esistere (acquirenti, fatevi sotto!) ma per quanto mi riguarda temo che non sarò niente più che una lacrima (già versata) nella pioggia…

---
L'articolo 30 anni di Blow Up, la fanzine che non voleva crescere di Giuseppe Catani è apparso su Rockit.it il 2025-09-29 14:38:00

COMMENTI

Aggiungi un commento Cita l'autore avvisami se ci sono nuovi messaggi in questa discussione Invia