Anche la musica italiana sa essere pura di cuore

Con il loro arrivo a MI AMI, celebriamo con 12 cover fatte apposta per noi una band che ha cambiato la vita a più di qualche musicista di casa nostra: The Pains of Being Pure at Heart. La trovate qua, assieme alla chiacchiera tra il frontman del gruppo Kip Berman e Luca Lovisetto dei Baseball Gregg

Scatto dei The Pains of Being Pure at Heart a inizio carriera
Scatto dei The Pains of Being Pure at Heart a inizio carriera

Ci sono quelle occasioni che vanno celebrate come si deve. L'arrivo dei The Pains of Being Pure at Heart a MI AMI sabato 24 maggio è una di queste: il gruppo newyorchese è un piccolo culto che ha avuto parecchi adepti anche da queste parti. Per questo motivo abbiamo coinvolto Luca Lovisetto dei Baseball Gregg, fan sfegatato del gruppo, per coinvolgere vari artisti della scena musicale italiana per realizzare una speciale compilation con 12 cover fatte apposta per noi dei brani più belli dei Pains. Il lato A vede protagonisti sei artisti che si esibiranno a MI AMI, il lato B sei progetti emergenti che ci piacciono parecchio. La potete ascoltare solo qua, su rockit. Per cercarla basta scorrere in questa chiacchierata tra Luca e Kip Berman, frontman dei Pains.

Era il 3 febbraio 2009 quando Slumberland Records pubblicava l’omonimo album di debutto dei The Pains of Being Pure at Heart: sono passati appena sedici anni, ma sufficienti perché un disco indie pop diventi nostalgia canonica, perché una vita intera si cristallizzi in una manciata di accordi fuzz e melodie zuccherine, e abbastanza perché un’intera generazione si accorga, all’improvviso, di essere diventata adulta.

Seduto a un tavolino dell’Agnese delle Cocomere (un chiosco di Bologna a cui tra l’altro Lucio Dalla dedicò un brano), con gli AirPods nelle orecchie e l’iPhone in mano, sono immerso in una surreale Zoom call con una delle leggende della mia formazione musicale: Kip Berman, frontman della band. Intorno a me, una Bologna strombazzante celebra senza sosta una nuova Coppa Italia appena conquistata, la prima dopo 51 anni. In attesa di calcare per la prima volta il palco del MI AMI Festival sabato 24 maggio, abbiamo parlato con Kip della reunion della band, mescolando ricordi di concerti italiani, la morte prematura di amici lontani, la paternità e ciò che significa, oggi, essere diventati una band di culto quasi per caso.

Luca: Quest’anno Slumberland ha pubblicato una compilation di outtakes e demo dai vostri esordi, parliamo di brani scritti da una persona che aveva 16/17 anni meno di te adesso. Ho ascoltato molto il disco in questi giorni, e mi chiedevo: come è evoluto il tuo rapporto con quelle prime canzoni?

Kip: È una buona domanda, sai: me la sono fatta anch’io. Qualche tempo fa sono stato a un concerto di una band fresca di reunion, e suonavano canzoni scritte quando avevano 19 anni, e ora ne hanno 40 o giù di lì. Le cantavano con entusiasmo e passione, e io pensavo: "Chissà come si sentono?" Mi sono chiesto se provassero ancora quelle stesse emozioni. Nel nostro caso abbiamo scritto quei brani in un altro momento della vita, e non credo che oggi riuscirei a scrivere di nuovo canzoni così. Però quando le suono sono felice. Sono belle canzoni, e non lo dico in maniera egocentrica. Sono contento che facciano parte della mia storia, della storia della nostra band, e sono semplicemente sollevato dal fatto che non mi imbarazzino. Sono felice che i brani scritti tanti anni fa suonino ancora bene, almeno per le mie orecchie; forse non per tutti, chissà.

Luca: Io credo siano invecchiati benissimo. Secondo me fanno già parte dell’iconografia di quella vibe della New York Y2K, che ora viene già ricordata con ondate di nostalgia dalle nuove generazioni.

Kip: È stato un periodo buffo, perché prima di trasferirmi a New York la mia idea della città era legata a band come gli Strokes, gli Yeah Yeah Yeahs, gli Interpol, insomma, quelle band davvero cool. Ed era proprio quello il loro punto forte: erano fighissimi. Ero un fan accanito degli Strokes. Prima di arrivare a New York, al college avevo una band che suonava praticamente come loro, solo molto peggio. E ricordo che la gente veniva ai nostri concerti e diceva: "Sembrate proprio gli Strokes!", e noi fingevamo di no, rispondevamo: "Ma che dici? Noi abbiamo il nostro sound!", ma in realtà cercavamo proprio di suonare come Casablancas e soci. Non era nemmeno facile. Quando poi sono arrivato a New York, le band che suonavano insieme a noi erano un po' diverse. Parlo della fine del primo decennio degli anni zero e l’inizio degli anni dieci, con artisti come Vivian Girls, Crystal Stilts, noi, i Drums. E ce n'erano molte altre. Era un’era diversa per la musica newyorkese, più DIY: se guardavi gli Strokes o band simili, erano vere e proprie rockstar, invece guardando noi o i Crystal Stilts, sembrava che bastasse radunare qualche amico per poter fare musica così. Non era nemmeno quell'era che ora chiamano "indie sleaze”: era una strana fase, una sorta di musica indie fatta in casa che nasceva a New York in quel periodo.

Luca: Ricordo che molte delle band che hai citato venivano spesso in Italia quando avevo intorno ai 17-18 anni e suonavano in posti come il Covo Club qui a Bologna. All’epoca non ero nemmeno troppo sorpreso, perché pensavo: "Ah, questo sarà lo standard per il resto della mia vita". E invece col tempo ho capito che si trattava un’era irripetibile, e probabilmente lo era anche perché si trattava dell’onda lunga di quella scena che recentemente è stata raccontata da Meet Me in the Bathroom. E ascoltando di nuovo dopo tanto tempo il vostro album di debutto mi sono reso conto che è davvero un capolavoro.

Kip: È davvero gentile da parte tua. È bello sapere che dopo tutti questi anni puoi tornare a riascoltare quell’album e scoprire che le canzoni reggono ancora bene. È stato un bel periodo per fare musica. Penso che la band che ci abbia ispirato di più tra tutte siano stati i Crystal Stilts. Avevano pubblicato un disco con la Slumberland poco prima di noi, ed era stato piuttosto ben accolto, erano partiti in tour… Mi ricordo che all’epoca dividevamo con loro una sala prove. Non è che fossimo gelosi, però tutti li consideravano i più fighi, ed in effetti lo erano davvero: immagina di entrare in una festa di New York e c’è Brad Hargett che canta con la voce due ottave più bassa della mia. Andarono in Italia prima di noi e ci raccontarono di quando avevano suonato a Marina di Ravenna. Dicevano: "C’è questo posto dove suoni sulla spiaggia, roba impensabile in America. È come un club, ma sulla spiaggia, con feste, buon cibo...". Ci raccontavano questa cosa assurda che non riuscivamo nemmeno a immaginare. Poi siamo andati anche noi all'Hana-Bi un paio di volte, ed era esattamente come lo avevano descritto, anzi ancora meglio. Davvero un posto unico.

Poi hai citato il Covo Club, che è un locale fantastico di Bologna. Ricordo bene che ci abbiamo suonato, ed era davvero autentico come luogo per la musica; il pubblico era sempre composto da persone molto fighe. Penso che gli italiani abbiano avuto da sempre una relazione molto forte con la musica shoegaze, ben prima che diventasse così popolare su Internet come lo è diventato negli ultimi anni. Mi ricordo che a Bologna e in altre città c’erano fan davvero appassionati dello shoegaze, ed era sempre bello vedere quali band riscuotevano particolare successo in Italia. Ad esempio, i Crocodiles furono accolti molto bene in Italia, ed era interessante vedere come certe band riuscissero a entrare così tanto in sintonia con il pubblico italiano.

Luca: Sì, a Bologna, ma soprattutto a Pesaro, che è una città costiera non molto lontana dall’Hana-Bi, una decina di anni fa nascevano tante band – penso per esempio ai Be Forest o Brothers in Law, formazioni che sono state importantissime per la scena italiana e hanno girato parecchio anche negli Stati Uniti. E a proposito dell’Hana-Bi, volevo parlare della copertina del primo album di The Natvral – il tuo progetto solista – che, se non sbaglio, ti ritrae proprio su uno di quei pedalò sulla spiaggia davanti all’Hana-Bi.

Kip: Sì, assolutamente! L'hai riconosciuto?

Luca: Sì! L'ultima volta che abbiamo parlato è stato tipo 7 o 8 anni fa alla radio, e The Natvral non esisteva ancora, anche se probabilmente eri già entrato nella fase di suonare cover acustiche di Dylan. Ricordo che in quell’occasione avevi parlato del voler cambiare il focus della tua carriera dal tour alla famiglia, e del fatto che tua figlia fosse diventata la tua priorità principale. Ora, dopo diversi anni, con questa nuova carriera con The Natvral e la recente reunion dei Pains, come la pensi a riguardo oggi?

Kip: È buffo, perché qualcuno me l'ha chiesto proprio qualche giorno fa. A vent’anni giravo in furgone con un gruppo di musicisti lunatici, ora giro in una station wagon con dei bambini lunatici di nove anni. E tutti litigano per decidere cosa ascoltare alla radio, quindi forse non è così diverso alla fine. Scherzi a parte, è davvero interessante, perché quando ci siamo parlati l'ultima volta ero in una fase in cui non riuscivo proprio a immaginare di continuare con i Pains. Sentivo che la mia vita era cambiata così tanto che mi sembrava impossibile cantare ancora canzoni sui diciannovenni depressi che aspettano la morte. Non aveva senso rispetto a ciò che stavo vivendo. Ora che ho un po’ più di distanza da quel momento, vedo le cose in maniera diversa. Anche se la mia vita è diversa e la musica che faccio ora è diversa, questo non significa che non possa amare ancora suonare quelle canzoni. Credo che in passato avessi creato una falsa contrapposizione: pensavo di dover scegliere solo una cosa o l'altra. I miei amici e tutto ciò che ho vissuto con i Pains rappresentano alcuni dei momenti più significativi della mia vita. Ovviamente diventare genitore è una cosa ancora più significativa, ma non dovrebbero neanche essere confrontate tra loro.

Luca: Sì, infatti non è mica una gara.

Kip: Esatto, non è una gara! Hai ragione, non è che si possa avere una sola cosa significativa nella vita. Sembra ovvio, no?

Luca: Certo, infatti puoi averne quante ne vuoi.

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Kip: Non devi negare la gioia e il piacere che provi nello stare con gli amici, fare musica, viaggiare e conoscere persone di altre parti del mondo, proprio come te. Ho tanti amici conosciuti grazie alla musica che riesco a vedere regolarmente. Ho ricordi bellissimi dei concerti fatti in giro per il mondo, e non vedo l’ora di suonare quest’anno al MI AMI. Anche perché suonare ti permette di incontrare persone nuove, ascoltare nuove band, mangiare benissimo… È davvero fantastico poter avere queste opportunità grazie alla musica. Oddio, poi il cibo… Una volta eravamo in Spagna, e una persona dopo il concerto mi ha detto: "Mio marito dice che hai fatto un bel concerto ma che sei ingrassato!", e io ho risposto: "Che ci posso fare se mi hanno dato troppo buon cibo a Marina di Ravenna?". In Italia l’esperienza è molto diversa rispetto ad altri posti, perché ti nutrono con del cibo fantastico fatto in casa, cosa molto rara quando sei in tour. Di solito mangi porcherie in continuazione. È sempre bello tornare lì per questo.

Luca: Volevo parlare anche della compilation realizzata da Rockit per celebrare la vostra reunion e il vostro debutto al MI AMI. Qual è il tuo rapporto con il fatto che i Pains siano diventati una fonte di ispirazione così importante per tutte queste band che flirtano con lo shoegaze, l'indie pop o comunque il catalogo Sarah Records, e che ora vi citano come loro influenza primaria, magari senza nemmeno conoscere le band che inizialmente hanno influenzato voi?

Kip: È interessante, sai. Non ero davvero consapevole che molte band fossero così interessate a noi, perché negli ultimi anni sono stato un po' preso dalla vita quotidiana. Sono rimasto sorpreso, ad esempio, quando la band Nothing mi ha chiesto di fare il DJ al loro festival l’anno scorso. Loro sono una band grande e molto figa, e il tipo dei Nothing era un fan sfegatato dei Pains e io non ne avevo la minima idea. Quello che mi piace di più di tutto questo è la possibilità di far conoscere alle band più giovani gli artisti che ci hanno ispirato. Quando ci intervistavano o ci chiedevano della nostra musica, io cercavo sempre di nominare gli artisti che erano stati la nostra ispirazione, ho sempre provato a far scoprire ai più giovani delle band sperando che andassero poi ad ascoltarle.

Quando ero giovane io, ad esempio, i Nirvana erano il punto di riferimento principale per la mia generazione, e Kurt Cobain diceva sempre: "Noi siamo pessimi, quest'altra band, invece, è molto meglio di noi". Credo provasse molto disagio per il fatto di essere così esaltato dalle masse, ed è comprensibile. Indicava sempre gli artisti che lo avevano ispirato, e grazie a lui ho scoperto molta musica che poi ho amato, come i Teenage Fanclub, i Vaselines o i Beat Happening… tutte band che, se eri un ragazzino americano cresciuto in periferia, difficilmente avresti conosciuto. Allo stesso modo, io ho sempre provato a parlare delle band che hanno ispirato noi, come i Rocketship e i Pastels. Oggi ci sono band molto interessanti che vengono dall’Indonesia e anche band americane come i Lightheaded che stanno pubblicando ottimi dischi: fanno indie pop con influenze anni Sessanta, armonie molto belle e arrangiamenti interessanti. Li trovo davvero fantastici. Oppure c’è una band californiana chiamata Still Ruins che adoro.

Il problema quando invecchi è che non conosci davvero tutte le cose più fighe che stanno succedendo. Devo sempre chiedere ai più giovani: "Quali sono le band fighe ora?". Mi sento molto vecchio a farlo, ma ogni volta che sono in un club e sento qualcosa di interessante, tiro fuori Shazam. L'ho fatto sei volte di seguito recentemente, e ogni volta era questa band: si chiamano Sharp Pins, dagli Stati Uniti. È un ragazzo giovane che esce per la K Records. Fa una specie di power pop che ricorda un po' i Guided by Voices, almeno nel modo di trattare la voce. È una band che consiglio davvero di ascoltare a chi ancora non li conoscesse.

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Luca: Noi Baseball Gregg abbiamo coverizzato per la compilation Teenager in Love, che tra l’altro è una delle mie canzoni preferite in assoluto. La cosa buffa è che vi avevo visto dal vivo nel 2010, ma solo due anni dopo, per qualche motivo, YouTube mi ha consigliato questa canzone grazie all’algoritmo. Mi ha colpito tantissimo, quindi volevo sapere se la storia tragica descritta nella canzone fosse immaginaria o basata su qualcosa di reale.

Kip: Quando ero più giovane abitavo a Portland, e sembrava stranamente normale che lì i giovani morissero piuttosto presto. Non so esattamente perché, era forse una combinazione di vari fattori: molti non avevano assistenza sanitaria, vivevano ai margini e spesso finivano coinvolti in situazioni pesanti legate alla droga. Fatto sta che alcuni miei amici morirono prima dei trent’anni, ed era una cosa molto difficile da accettare. In quei momenti ti rendi conto di quanto sia fragile la vita quando vivi ai margini, quando non hai accesso alle cure, quando nessuno si prende davvero cura di te...

Luca: Quando manca una rete di protezione sociale.

Kip: È una cosa assurda, ma qui negli Stati Uniti non c'è davvero una rete di sicurezza sociale. Non voglio farne una questione politica, ma non puoi semplicemente andare da un medico e ricevere le cure o il sostegno psicologico di cui hai bisogno, soprattutto se sei finito in situazioni difficili che magari non volevi. È difficile trovare una via d'uscita. Forse oggi è migliorato, c’è più consapevolezza riguardo ai temi della salute mentale e cose del genere, ma ricordo bene che in quel periodo era davvero dura. La canzone è in realtà un mix di alcune esperienze reali vissute quando abitavo a Portland. In quel periodo frequentavo una persona che aveva una grave insufficienza renale cronica, una malattia seria che l’ha portata a morire intorno ai vent'anni. È stato molto triste. Poi c’era quest’altra amica, una persona molto interessante, ma che si era persa in cose abbastanza oscure, come l’eroina e robe così. Quindi la canzone è un po’ una combinazione di queste due persone.

Mi ricordo in particolare che con la persona che frequentavo all'epoca facevo fatica a capire che la sua vita sarebbe stata breve. Le chiedevo continuamente: «Allora, che programmi hai per il futuro?». Non riuscivo a farmi una ragione del fatto che lei non progettasse un futuro. Viveva la vita con una certa leggerezza, cercava di divertirsi più che poteva, proprio perché sapeva che il suo corpo non avrebbe retto a lungo. È difficile da spiegare, ma lei probabilmente aveva una comprensione molto più profonda della sua condizione e della sua mortalità rispetto a me. Io all’epoca ero un po’ ingenuo e speravo sempre che sarebbe migliorata. È stato difficile riconciliare questi sentimenti. È una canzone che ha risuonato molto nelle persone, ed è interessante pensarci oggi, tanti anni dopo. Ora ho 45 anni, e a volte mi capita di ripensare a tutte queste persone che non ci sono più. Cantare queste canzoni è anche un modo per farle rivivere un po’, almeno nelle storie che racconto, anche se non so se queste storie siano del tutto giuste nei loro confronti.

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Luca: Kip, grazie mille per questa conversazione. Non vedo davvero l’ora di vederti dal vivo sabato prossimo e sono molto entusiasta e onorato di poter condividere il palco con una band che ammiro così tanto!

Kip: Anche io non vedo l’ora! Stavo pensando, tra l’altro, a quanto sia difficile logisticamente organizzarsi coi membri dei Pains che vivono a Los Angeles. È complicato anche solo trovarsi per suonare, figurarsi scrivere pezzi nuovi. Quindi ammiro voi Baseball Gregg che riuscite comunque a fare musica nonostante la distanza sia molto maggiore dall’Italia alla California che non da New York a Los Angeles.

Luca: Sì, però penso anche che la nostra band sia sempre stata principalmente una scusa per mantenere viva l’amicizia tra me e Sam. Altrimenti, probabilmente, come con tutte le persone che si conoscono negli anni dell’università, con i vari cambiamenti di vita, l’avrei perso per strada. Ma con Sam abbiamo trovato un tipo di legame completamente diverso, e la musica è diventata un modo per preservare queste cose.

Kip: Sei tu che suoni la chitarra con quel fingerpicking così? Quello stile lì?

Luca: Sì!

Kip: Mi piace un sacco, complimenti. Non credo che un americano riuscirebbe mai a farlo. (ride, ndr). È colpa di Kurt Cobain che ci diceva che bastava imparare gli accordi in power chord!

Luca: Speriamo che Sam non legga questa intervista!

Kip: E grazie anche per aver contribuito a realizzare la compilation. Mi ha davvero commosso che così tanti artisti italiani abbiano voluto interpretare le nostre canzoni. La vostra versione di Teenager in Love era davvero bella, e ci ha lusingato tantissimo. Ho scritto a Peggy e le ho detto: "Ma lo sai che hanno fatto una compilation tutta italiana con le canzoni dei Pains?". Era incredula, davvero. Quindi grazie di cuore.

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L'articolo Anche la musica italiana sa essere pura di cuore di Redazione è apparso su Rockit.it il 2025-05-15 11:48:00

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