The Bloody Beetroots: "La musica elettronica ha rotto i coglioni"

L'artista mascherato sul perché il genere è stato maltrattato in questi anni e perché si può fare cultura facendo ballare la gente. E poi Liberato che è il numero uno, e Bassano molto meglio di Los Angeles

The Bloody Beetroots, foto di Mark Kola
The Bloody Beetroots, foto di Mark Kola

Ancora non sapevo come avrei intervistato l'uomo dietro al progetto The Bloody Beetroots: a volto scoperto o meno? La combo letale generata dall’incontro tra una figura artistica che rispetto da anni e il vuoto che si cela dietro una maschera mi creava un mix di euforia e agitazione. L’avrei riconosciuto? Soprattutto, cos'avrei dovuto aspettarmi? Chi l’avrebbe mai detto che il fautore delle esibizioni più rumorose che ci siano, nel privato, parlasse così piano?

All'entrata di questa specie di salotto hipster chic, dietro un bancone da bar anni '50, una figura incappucciata di nero si sta servendo dell’acqua. Sulla soglia ho un momento d’esitazione. Si gira, cammina verso di me tendendomi la mano. "Ciao, sono Bob Rifo".

A poco più di dieci dell’anniversario di Warp, il brano che ne ha sancito l’esplosione, abbiamo incontrato uno dei più importanti interpreti dell’elettronica. Un artista trasversale in grado di calcare il palco di Sanremo come quello del Coachella. Un vero veneto, nell’accezione più positiva che questa connotazione possa rivestire. Dopo 20 minuti scarsi di chiacchierata ci salutiamo. Mi abbraccia, "Ciao vecio, ci vediamo al live". Questa volta con la maschera. 

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La prima volta che ti vidi dal vivo era un MTV Day a Genova, ti presentasti con Come LA con Marracash. Io ero minorenne e fomentassimo

Che roba matta, vecchio. Queste sono le cose che ci fanno tirare avanti. Gli MTV Day avevano ancora senso a quei tempi. Quando abbiamo suonato sul furgoncino della Red Bull?

Sì, cioè, ti ricordo in altissimo, per me potevi essere sopra una torre. Ancora non ti conoscevo, per anni ho sempre pensato che i Bloody Beetroots fossero un gruppo.

Io sono Bob Rifo e rappresento i Bloody Beetroots, ma mi piace parlare del progetto al plurale. BB indica anche la formazione che mi accompagna. C’è stato il Bloody Beetroots live, il Bloody Beetroots dj set in cui suono da solo, Death Crew, i featuring. Abbiamo cambiato tante di quelle persone, musicisti che si sono auto dimessi, ognuno ha lasciato qualcosa. 

Tranquillo, non ti chiederò di Paul McCartney…

Meno male, è stato un onore lavorarci, ma mi chiedono tutti di lui. Ad esempio, con i Bloody Beetroots ha anche suonato Tommy Lee mascherato senza che nessuno lo sapesse…

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A proposito di maschere, è stata una scelta artistica o di privacy?

Ho conosciuto tante persone folgorate dalla fama e ho capito: la fama crea rincoglionimento e alienazione. Se io faccio 'sta cazzata di togliermi la maschera, smetto di scrivere canzoni domani. Off mask, nella vita di tutti i giorni, sto con i miei amici, posso permettermi di vivere una vita sociale normale. Sono esattamente la stessa persona che vedi sul palco, ma adoro fare casino anche fuori. Non posso privarmi di questa roba. La maschera è sicuramente un catalizzatore d’attenzioni, l’impatto estetico al giorno d’oggi è fondamentale, ma la mia è stata soprattutto una scelta di privacy. Ho deciso di rimanere anonimo, fino a quando non mi arresteranno per schiamazzi.

A tuo avviso, la contaminazione di ogni genere con l’elettronica ha comportato uno svilimento del suo suono?

Sì, hanno rotto i coglioni. Hanno riproposto la musica elettronica in mille salse fino a bistrattarla. Come ogni moda, una volta portata a saturazione, annoia. Oggi è necessaria un'opera di restauro, bisogna far capire alla gente che tutto ciò che è stato bistrattato, o tutto ciò che non hanno ancora ascoltato, non deve per forza essere una stronzata. Il mio obiettivo con i Bloody Beetroots è proprio questo: comunicare alla gente che una scena elettronica fica è ancora possibile. Organica, capace di far saltare ancora le persone. E non stiamo parlando di house o di techno, stiamo parlando di Bloody Beetroots. Non che avessimo mai fatto parte della scena EDM, ma ce ne siamo staccati anni fa. Cambiavano le mode cambiavano le etichette che ci affibbiavano: Nu-rave, nu-electro, nu-EDM…

L’EDM è forse il caso più emblematico di questa saturazione.

Quando un dj ottiene così successo da diventare commerciale, porta a saturazione un genere e ne sancisce la fine, quantomeno artistica. Succederà anche con la techno. Si può avere successo senza essere commerciali, noi non vogliamo portare a saturazione nulla ed è il motivo per cui non saremo mai ascrivibili in nessun genere. Non siamo mai stati la moda, anzi, abbiamo compiuto più di una scelta avversa all’algoritmo, eppure, dopo più di 10 anni, rimaniamo uno dei nomi più credibili della scena. Si può fare cultura anche facendo ballare la gente.

Come avete fatto ad acquisire credibilità agli occhi di tutta quella fetta d’utenza come me, cui di andare a ballar non frega nulla?

Abbiamo sempre ripudiato ogni etichetta, ma che tu venga a un live o a un dj set troverai sempre il medesimo collante: il punk. Ti piace il punk? Non intendo esplicitamente i Sex Pistols, il punk è ciò ci unisce. Quando ha quell'energia, puoi comunicare con tutti. Ovvio, a un mio live sentirai le chitarre, ma non è il sound a differenziarmi dagli altri dj, quanto l'uso diverso della mia fisicità: sto in mezzo alla gente a pogare, la incito al microfono, scappo dalla postazione, spesso non ho nemmeno il tempo di cambiare il disco, non è una sbavatura, è un’esibizione, è punk. I miei live sono un ibrido tra un dj set ed un concerto. La componente esperienziale è importante. A me non piace atteggiarmi da rockstar, non me ne frega un cazzo, voglio solo divertirmi. Il concerto dei Bloody Beetroots non è altro che una grande festa, perché non posso fare festa con i miei amici, perché non posso fare festa con tutto il mondo?

Il pubblico estero differisce da quello italiano?

A dir la verità, questa concezione diversa nel fruire i concerti da nazione a nazione, è una differenza più percepibile con altri artisti o generi. I "pubblici" dei Bloody Beetroots si assomigliano tutti perche cercano tutti la stessa cosa. Insomma, quando vieni ad un nostro concerto sai cosa aspettarti. La gente viene per fare del buon casino. E il pubblico si assomiglia tutto pur nella sua estrema eterogeneità. Sotto al palco vediamo raver, metallari, vecchi rocker, hipster… Siamo in giro dal 2006, c’è gente che nel frattempo è invecchiata e non ha più voglia di ballare, tu e i tuoi amici siete ancora molto giovani. Questo ricambio generazionale è ottimo, c’è chi si avvicina per sentito dire e, una volta vissuta l’esperienza, si ricrea un nuovo gruppo eterogeneo di persone. Nel nostro piccolo, il nostro pubblico, è cambiato con lo stesso meccanismo del pubblico dei Prodigy.

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Un artista italiano che apprezzi in particolare?

In Italia, uno dei pochi per cui vale veramente la pena di spendere ottime parole, è Liberato. M’interessa molto, ha un contenuto armonico fortissimo e mi ha fatto scoprire una lingua che non conoscevo.

Ti riferisci al suo sound innovativo o proprio al napoletano?

Mi riferisco al napoletano. Liberato mi ha fatto scoprire il napoletano come mai nessun aveva fatto, ha veramente riscritto le regole di una tradizione. Ho trovato un’estetica nuova, solida e veramente supercool. Non a caso penso abbia già suonato anche all’estero. Nessuno sa chi è, ma vi partecipano diversi artisti. Lo trovo veramente un interprete similare, qualcuno con cui mi piacerebbe connettermi.

Stai lavorando a qualcosa di nuovo?

Nel 2019 abbiamo rilasciato un ep intitolato Heavy, siamo usciti con un featuring con Zhu, superstar della techno americana. L’anno scorso abbiamo fatto il 123 per cento in più di streaming, abbiamo conquistato una fanbase che prima non conoscevamo. Siamo in giro da anni, ma la nostra storia su Spotify è recente. Abbiamo posto nuove basi su cui lavorare, dovremmo fare uscire molti più singoli, per il 2020 ne sono pronti almeno una decina, tutti di generi diversi ed editi con etichette differenti. Nel frattempo stiamo lanciando tutta una serie di attività collaterali, Bloody Beetroots sta diventando una specie di lifestyle. Molte delle mie sincronizzazioni sonore si basano su sample, brani o campionamenti di Need for Speed. Il mondo dei motori mi ha sempre affascinato, abbiamo lanciato la nostra prima motocicletta. Ho organizzato dei ride nel deserto della California e sulle Dolomiti. Parallelamente al progetto BB ho sempre coltivato una grande passione per la fotografia, il 5 marzo a Milano terrò la mia prima mostra. Sarà la prima occasione per mostrare a tutti come ho vissuto quest’ anni con una forma d’espressione che prescinda dai BB.

Vivi ancora in America?

Sto a Los Angeles, ma adoro tornare a casa. Mi mancano Bassano, la famiglia, gli amici… A Bassangeles le feste sono molto meglio che in California.

 

Per chi volesse far festa con Bob Rifo:

31 gennaio - Magazzini Generali di Milano

1 febbraio - Locomotiv Club di Bologna

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L'articolo The Bloody Beetroots: "La musica elettronica ha rotto i coglioni" di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2020-01-24 10:20:00

COMMENTI (1)

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  • nicola.stufano 4 anni fa Rispondi

    "L'artista mascherato sul perché il genere SIA stato maltrattato in questi anni"

    SIA, non "è". Le subordinate vogliono il congiuntivo, capitalismo sostenibile.