Ceri nel magma liquido degli anni '90

"Questo disco è istinto puro", ci spiega il producer parlando del I° movimento di "Waxtape", nato dall'energia vitale dei club che schifava da adolescente e con un pizzico di Leopardi e Beethoven dentro. Un progetto lungo pensato come "ricarica spirituale", per rimettere in contatto musica e mondo

Ceri - foto ICTM
Ceri - foto ICTM

A Ceri la musica non basta più. Vuole cercare dei mondi, esplorarli. Il producer, dopo aver lavorato con Mahmood, Mengoni, Salmo, Coez, Calcutta, Franco 126, Frah Quintale e mille altri, torna con un disco più vicino all’ambient che al beatmaking classico o al pop che ha frequentato ultimamente. Un disco la cui uscita viene presentata una lettera – di cui ha pubblicato un estratto sui propri profili social – in cui Ceri parla del ritrovamento di alcune musicacassette rippate su YouTube che raccolgono show di discoteche storiche degli anni ’90. Sono loro ad aver portato una ispirazione inaspettata e la voglia di lanciarsi in questo magma liquido senza inizio e fine, mettendosi nei panni di “un Gigi D’Agostino lo-fi e dark”, come lui stesso si è definito, per Waxtape: un progetto strumentale che vuole avvicinarsi all’energia vitale della musica da club, cercando di raccontare, comunque, una storia. E che ha voluto spiegarci in una lunga chiacchierata.

Mentre ascoltavo il disco non riuscivo a capire se volessi farmi ballare o rilassare. A te il disco invece che effetto fa?

Quando componi non è che hai un obiettivo preciso, poi io vado con il pilota automatico, è come se non fossi stato io. Ora non è che vado in trance, ma parto, finisco e non ricordo tutti i processi. Questo disco è istinto puro, molte tracce le ho fatte di notte, a letto, col Mac sulla pancia. È stato come rifare la musica in un modo che avevo dimenticato, infottandomi come un ragazzino, in maniera molto istintiva. Ad esempio quando ho scritto Pensiero cascata, io ero in studio a fare una session di scrittura. Alle 18 abbiamo staccato, sono andati via tutti, sono rimasto da solo ed è venuto fuori il riff. In una notte l’ho scritta e chiusa. Ha senso quello che dici sul ballare o rilassarti, volevo fare una musica sì da ballare ma che raccontasse anche una storia, che ti facesse pensare o comunque che fare un film mentale, vedere qualcosa.

Di questo disco hai detto che è "come Gigi Dag, ma lo fi e dark". Cosa intendi? 

La forza di Gigi Dag sta nella capacità di avvicinare le persone nella parte melodica. Avevo voglia di fare questa musica qua, anche a livello inconscio. Dopo questi anni di lavoro sulla melodia e l’armonia, lavorando con i cantanti e quel mondo lì, le due cose si sono unite ed è venuto fuori questo rimando a quella musica, che è roba che non ho mai ascoltato, mi faceva schifo da ragazzino, ma è venuto fuori in maniera istintiva, a cascata. Molte delle tracce le ho scritte in settembre, in un periodo in cui non riuscivo a staccarmi dal computer. Ero in studio a lavorare, poi tornavo a casa, mangiavo e mi buttavo sul computer e facevo la notte: era una sensazione che mi mancava.

Questo istinto puro è la liberazione dalla visione molto più schematica della produzione pop, che hai scoperto lavorando con i cantanti più pop?

Io sono contro la visione industrializzata della musica, anche nel pop. Per quanto uno voglia essere un robot, uno sforna-robe, alla lunga finisci le idee. Non c’è la necessità di essere produttivi, c’è il bisogno anche di stare sei mesi senza far niente. Questa cosa del dover essere produttivi sempre, nella musica è un autogol clamoroso che poi paghi, in qualche modo. Di fatto, anche quando lavoro con Frah, Franco, ci sono delle scadenze, ma le scadenze avevo anche col mio disco, perché a una certa devi quagliare. Il momento creativo, però, deve restare intonso. Mi esce fuori l’idea, ma poi soltanto dopo subentra la tecnica o la razionalità.

Ceri illuminato al 'Sogno di una notte di mezza estate' in Triennale a Milano - foto di Silvia Violante Rouge
Ceri illuminato al 'Sogno di una notte di mezza estate' in Triennale a Milano - foto di Silvia Violante Rouge

Cosa cambia del momento creativo quando produci per te rispetto a quando produci per gli altri?

Con Frah o Franco la parte creativa deve essere distintiva, perché devo entrare in immaginari che magari non sono miei, però devo immedesimarmi, capirli ed entrarci per produrre la musica di qualcun altro. E a volte non viene, non ti trovi in quel mondo, e se non mi trovo non andiamo avanti. Non mi piace forzare le cose e dico anche spesso di no, ma non per mancanza di rispetto o perché non mi piacciano le cose, ma perché a volte dico all’artista: “Se andiamo in studio ci viene mal di testa”. Magari il pezzo lo chiudiamo, però si sente quando un pezzo è chiuso col mal di testa o invece quando torni a casa che hai ancora voglia di produrre. Delle volte mi è successo che andassi a dormire con la voglia di tornare in studio il giorno dopo: io cerco quella cosa lì, ed è successo con questo disco. Se manca è un problema.

Quando ti innesti in dischi altrui, come cambia il lavoro di produzione? Per esempio, in un contesto iperpop come Materia (Terra) di Marco Mengoni insieme a EDD qual è la differenza?

Vabbè, Marco è un fenomeno. Quando canta è devastante, potrebbe cantare l’elenco del telefono e farmi piangere. In quel caso non ho scritto la musica, dovevo dare un suono. Mi è arrivato il pezzo che era già così e ho fatto il gesto delle mani che strizzano, dovevo sporcare il suono della canzone. Musica e parole già c’erano, dovevo aggiungere la mia anima al sound.

Questo disco ha una struttura tutta matta, più simile a una lunga suite orchestrale. Lo stesso sottotitolo Movimento 1 rimanda al mondo sinfonico. Nasce da lì?

Non voglio elevarmi al livello della composizione orchestrale, quello è tutt’altro livello: scrivere a mano, non sapere cosa stai scrivendo, devi avere una forza creativa e immaginativa superiore, però è una questione di forme della musica che ora sono sempre più brevi e concise. Sì, perché cazzo, certe volte la forza della musica arriva dopo 20 minuti, ma devi darle anche il tempo. Io vado in contrasto con i tempi e ho scritto un lavoro lungo proprio perché mi serve tempo. Magari qualcuno ascolta un secondo e via, ma non riuscivo a riassumere più di così ciò che avevo da dire. Poi magari qualcuno ascolta un secondo e via, qualcun altro ci presta attenzione. Le tracce sono lunghe e ripetitive, e il lavoro intero sarà molto lungo perché così deve essere.

Ceri in macchina al tramonto - foto ICTM
Ceri in macchina al tramonto - foto ICTM

Hai provato a vedere le reazioni di chi ti segue a questo nuovo linguaggio?

Ho fatto delle prove in studio invitando i fan – chiamiamoli ammiratori – qua in studio e gli facevo ascoltare tutto il disco, perché era l’unico modo per farli stare attenti tutto il tempo. Vieni qua, ti offro da bere e da mangiare ma lo ascolti tutto, dall’inizio alla fine, altrimenti ti perdi.

C’è il contrasto tra un’opera così ampia e il concetto comune della dance come qualcosa di effimero. Tu vuoi ricreare un mondo, che hai scoperto in delle vecchie cassette, fatto di discoteche abbandonate, e vocalist, c’è una narrazione tutt’altro che vacua. Da dove parte questo progetto?

L’idea del Waxtape viene da tanto tempo fa, addirittura ci sono tracce del 2019, ma quando ho trovato queste cassette rippate, ho scoperto immaginario delle discoteche abbandonate in cima alle montagne che mi ha suggestionato. Per come ho vissuto la musica da discoteca da ragazzino che, ti dicevo, la schifavo, mi sembrava una cosa effimera, da deficienti, da tamarri. Riascoltando queste vecchie cassette ho percepito qualcosa di magico e misterioso che andava al di là della semplice serata in discoteca. Era quasi una ricarica spirituale. Tralasciando il collegamento tra musica da discoteca e droghe, che è facile: sono andato al Berghain a Berlino, recentemente alle 10 del mattino, riposatissimo e sono stato cinque ore a vivere quell’esperienza lì, senza avere bisogno di niente. C’è una forza lì dentro che è anche difficile da spiegare a parole, ma c’è in questo mondo, in questi immaginari. Una forza che non vedo più nella musica veloce, breve, che ha perso il contatto con il mondo.

Cosa ha fatto perdere il contatto tra la musica e il mondo?

Di fatto, questi ultimi due anni. Se togli i concerti, perdi tutto. Senza mezzi termini, la musica nasce come momento collettivo e spirituale. Nonostante ormai ce la ascoltiamo da soli in cuffia mentre vai al lavoro, in autobus, ma se togli quella parte necessaria, si svuota tutto, anche per chi fa la musica, non sa più dove andare a parare cosa fare, senza quel fuoco sacro che ho ritrovato in queste vecchie cassette che mi hanno suggestionato e triggerato fino a mettermi a produrre fino alle 3 di notte, tutti i giorni.

video frame placeholder

Sono luoghi che hai cercato di rappresentare anche nel videoclip su Solo insieme: ci sono tante persone che ballano, c’è la motion graphic, un 21:9 strettissimo, molto panoramico, tante ambientazioni che sembrano suggerire proprio quelli mondi immaginari che suggerivi. Tu cosa ci vedi?

Ognuno in quel video vede ciò che vuole. Per te c'è il riflesso delle discoteche abbandonate, Giada Bossi, la regista, ha detto che non parlava di quello, può avere tanti significati, è bello così. Io in quel video ci vedo l’amicizia: abbiamo girato quel video a novembre 2019 a Manchester, sono stati giorni bellissimi, è venuto anche uno dei miei migliori amici da Londra solo per stare con noi e farci compagnia. Poi il direttore della fotografia è uno dei miei migliori amici di sempre, Giada è una persona super, tutti quelli della produzione, sono state avventure bizzarre tra amici e giorni bellissimi, e un po’ traspare anche nel video. Il video parla di quei giorni, ma per la regista parla di un’altra cosa.

Oltre al significato c’è anche un gran gusto estetico nella coreografia. Com'è nata?

Il ballerino, Tom, è fortissimo, ha curato le coreografie del party di Donda di Kanye West ad Atlanta. Cioè, noi facciamo un video con un tipo, e poi due anni dopo lo vedo ad Atlanta che lavora con Kanye. Ma è tutto merito di Giada, lei ha avuto l’idea, era una visione che voleva realizzare da un sacco, non le ho chiesto di fare un video per una canzone, era tutta una sua visione. E lì è soltanto magia, non so spiegarti cosa sia successo, c’era qualcosa nell’aria, c’era anche commozione nell’aria, tra noi che ci lavoravamo.

Sono quelle alchimie che si creano mentre stai creando qualcosa di importante, alla ricerca di un altro mondo, come dicevi.

Si, ma il video per me è l’inizio del percorso del Waxtape, soprattutto per quella traccia che è importante, composta con due fratello e sorella svizzeri, Jaz e Chai Ayling. A loro, sapendo come lavoravano, avevo chiesto di mixare il pezzo: lo hanno completamente stravolto, con 1200 parti nuove. Io cercavo la parte centrale e allora ho preso quelle che mi piacevano di più e le ho tenute. Sono dei grandi, li ho conosciuti tramite Tatum Rush, ho sentito come hanno completamente cambiato una sua traccia e ho voluto lavorare con loro.

 
 
 
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Ascoltando il tuo disco precedente, trovavo piccoli rimandi che mi ricordavano i classici del pop italiano, come se in mezzo a quelle canzoni ritrovassi delle vecchie cassette, come quelle che ti hanno portato a scrivere questo disco. Quanto la citazione entrano in quello che scrivi?

È verissimo, ma è l’evoluzione del pensiero umano, è impossibile che una intuizione sia completamente slegata dal mondo che hai intorno. La musica è un susseguirsi di intuizioni che dipendono l’una dall’altra. A volte queste citazioni sono precise e esplicite, ad esempio nel disco precedente per Attenti al lupo avevamo anche chiesto il permesso a Ron, per il nuovo disco invece la parte citazionistica è più nelle atmosfere. Di fatto ci son dei pezzi che suonano davvero tanto anni ’90 e magari quasi non sembrano fatte oggi ma dei pezzi vecchi. Comunque ho deciso di metterci delle tecniche moderne per farli suonare attuali. Qui la citazione è più nel sentimento, nell’atmosfera. La cosa che mi interessava era trovare la forza di quelle cassette e metterla nella mia nuova musica. Ho cercato quell’essenza e quel fuoco, magari delle volte l’ho dovuto fare imitando un synth trance o un pianoforte melodico, poi a volte son finito su un altro genere, ma parto da lì.

C’è qualcosa che volevi fortemente tenere di quelle cassette in questo disco nuovo?

Io ho scritto a Danilo El Paris, il vocalist che si sente in una cassetta del Domina, che fa un discorso bellissimo sulle discoteche. Gli ho scritto spiegandogli la mia storia e che sono rimasto flashato da quella roba lì chiedendogli di poterlo citare, credendo che mi mandasse affanculo. Lui mi ha risposto “fai pure, la musica è di tutti, è anche tua, usala”, e ora mi ha invitato a delle sue serate, è stato molto bello parlare con lui e vedere come ha vissuto quel periodo e come lo lascia andare senza possessività. Mentre invece nell’hip hop, i vecchi del rap sono molto protettivi sul proprio lavoro.

Sembri completamente libero anche dalla forma canzone, anche grazie al racconto senza parole, che espediente hai pensato per raccontare una storia senza i testi?

L’unico espediente è la musica. La musica è fortissima, anche senza testo. Ma anche il testo può avere un senso diverso a seconda di chi lo ascolta. Se ascolti un testo semplice che dice: “Sto mangiando la pasta al pomodoro”, ma la pasta al pomodoro ti fa riaffiorare ricordi d’infanzia, inizi a fare un tuo viaggio, quindi la forza della musica è che supera, di fatto, la parola e ti apre una porta per un mondo tuo: possiamo ascoltare la stessa canzone che a me ricorda il blu e a te sembra un altro colore. L’espediente è la materia stessa. Le struttura hanno un senso, perché ti aiutano, ma non le ho fatte pensando a quando far entrare la cassa, quando attirare l’attenzione del pubblico, quando far entrare il pianoforte… poi essendo in 4/4 puoi dividerle in 8 o 16, non scappi più di tanto, ma ho cercato di far entrare le cose quando volevo. Per quello, effettivamente non c’è la struttura della canzone ma del pezzo da club. Quando le facevo, non essendo avvezzo, chiedevo. Mi dicevano che molti hanno dei template così sanno già quando far entrare la cassa, quando far entrare il drop, quando far svuotare l’arrangiamento: io non l’ho fatta ‘sta cosa perché non so la tecnica e non è quello che volevo fare.

Ceri - foto ICTM
Ceri - foto ICTM

Questa composizione larga è più simile a quella orchestrale: ti piacerebbe comporre per orchestra? Ci hai mai pensato?

È il livello finale, è il mostro finale! Magari a 60 anni, ma magari prima dovrei riprendere in mano gli studi di armonia del Conservatorio. Quello è un altro livello di complessità: ho letto un libro sulla Nona di Beethoven, una roba gigantesca scritta quando era già sordo da vent’anni e se vai su YouTube e guardi i movimenti in MIDI, vedi com’è costruito e trovi incredibile che sia stato scritto da un sordo, soltanto con la penna e il calamaio, allora meglio restare al proprio posto.

Be', un successo internazionale, è la sigla dell’Eurovision!

Esatto! Infatti l’Inno alla gioia è una hit! È stata un travaglio da scrivere e anche lì c’è del citazionismo. La melodia dell’Inno alla gioia è una seconda voce di un pezzo di Mozart, che Beethoven evidentemente aveva citato inconsciamente, e il pezzo è diventato iconico! Non credo che qualcuno gli abbia rotto le balle per il campione di Mozart. Tutto nasce non da “Mò faccio una hit”, ma da “Ho qualcosa da dire”. Così nascono i classici, perché poi le hit possono colpire e poi svanire, ma i classici restano quando hanno un qualcosa di profondo, qualcosa di magico che resti. Non è più struttura, bpm, batteria, quelle caratteristiche tecniche, diventa magia. Una batteria sembra un elefante e stai andando in India o su Marte, o ti fa pensare qualcosa che risolve un problema della tua vita, è qualcosa di potente.

Coinvolge l’emotività in maniera completamente irrazionale. Sta lì il segreto?

Bisogna stare attenti, perché spesso sento di gente che analizza la musica: “Il beat è bello, il testo meno, le batterie mi piacciono ma il suono di basso no”. La musica non si ascolta così, deve arrivarti tutto insieme. Se poi il tutto è fatto male noti tutte queste cose, ma è brutto e riduttivo, come ne L’attimo fuggente in cui analizzano la poesia con il grafico, ed è da pazzi. La poesia va letta e ti arriva in faccia o in pancia. Infatti mi sta sul cazzo come ti insegnano le poesie alle superiori, ti fanno odiare L'infinito, che è una delle robe più potenti che l’uomo abbia mai scritto, eppure te lo fanno odiare. Poi esci dalle scuole, lo rileggi e comprendi quello che voleva dire, senza la struttura e l’enjambement. Parliamo della vita, non degli enjambement. L’infinito non puoi spiegarlo, per ognuno è diverso il senso di una poesia. Non voglio sapere cosa ci fosse dietro la siepe e cosa guardasse lui. Devi lasciarmi la libertà di vedere quello che voglio nella poesia.

Ceri live per MI MANCHI in Triennale a Milano - foto di Silvia Violante Rouge
Ceri live per MI MANCHI in Triennale a Milano - foto di Silvia Violante Rouge

La poesia, Beethoven, gli studi di armonia, sono passioni parallele che finiscono in qualche modo nella tua musica?

Per forza ti rimane qualcosa. Poi non scrivo pensando alle regole di contrappunto del ‘500, ma forse ogni tanto si dovrebbe anche scrivere così. Però penso che nel ‘500 avevano studiato le regole, interiorizzate e poi sono andate avanti. Certe cose si usano in maniera istintiva: quando studi troppo a volte ti blocchi, perdi il punto tra lo studio e l’emotività. Uno può fare un disco istintivo e gli viene da paura, ma per il disco dopo ha finito l’istintività e ha bisogno di altro a cui aggrapparsi, qualcosa che lo rinnovi l’istinto, qualcosa che ricrei quella magia.

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L'articolo Ceri nel magma liquido degli anni '90 di Marco Mm Mennillo è apparso su Rockit.it il 2022-02-24 09:30:00

Tag: album

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