Come Davide "Tropico" Petrella ha lanciato un'OPA sul pop italiano

La storia del travolgente successo di un ragazzo di Napoli passato dal rock universitario dei Le Strisce, in piena generazione MySpace, a monopolizzare come autore le classifiche di ascolti e i podi di Sanremo, fino al nuovo disco solista

Davide Petrella, in arte Tropico - foto stampa
Davide Petrella, in arte Tropico - foto stampa

Tra i crediti di almeno una delle canzoni nella vostra playlist c'è sicuramente il nome di Davide Petrella, alias Tropico, qualunque sia il vostro genere di riferimento. Dal rap di Lazza o Geolier, al pop di Mengoni e The Kolors, passando per il cantautorato di Cremonini o Elisa. La penna d'oro della nostra musica – primo e secondo a Sanremo 2023 – ha cominciato in una delle poche MySpace Band di successo nel nostro Paese, mentre iniziavano gli anni '10, per poi cercare una sua dimensione solista sia come autore per altri che come cantautore.

Dopo Le Strisce – la band universitaria che formò con tre amici poco dopo i vent'anni e arrivò a un disco con la EMI – e un album firmato con nome e cognome, il progetto Tropico giunge al secondo capitolo discografico, stavolta per Numero Uno – la storica etichetta di Battisti – con l'essenza e la lingua dell'area nord di Napoli a colorare immagini vivide ma non da cartolina, semmai più da film. C'è tanta Napoli e tanto cinema in un progetto che "mischia Merola con Morricone", come sostiene lui stesso.

Chiamami quando la magia finisce porta avanti una discografia fatta di una scrittura molto personale, classiche melodie della nostra tradizione mischiate metriche moderne su suoni concreti e caldi, influenzati dai seventies come dal rock indipendente, curati dai partenopei D-Ross e Startuffo, a cui stavolta si aggiungono anche Ceri, Starchild e Davide Simonetta. A comparire in voce in questo film sonoro, il partner in crime Cesare Cremonini, Mahmood, Raiz, Franco126, Joan Thiele e una inedita Madame, che si cimenta proprio con la lingua napoletana.

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La tua penna è altamente riconoscibile anche nelle canzoni che scrivi per altri, tanto che a volte è divertente immaginarle cantate da te, pure se molto distanti dal tuo progetto. È una cosa che percepisci?

Ognuno ha le sue caratteristiche, i suoi tag, il modo di scrivere, di prendere le melodie, di scegliere le parole. Però se scrivo per una roba che so che non è mia, è un processo creativo diverso. Non parlo di gusto, che è relativo quando collabori con altri, sta lì il divertimento: riuscire a conquistare il pubblico con un linguaggio o un trick diverso, una situazione melodica. Le scelte personali passano in secondo piano quando è un altro artista a cantare. Quando faccio il mio è un altro processo, è una roba personale e non riuscirei a immaginare un cantante x o una cantante y che cantano una canzone che ho scritto per me, anzi, il mio editore sarebbe contentissimo: io ne scrivo tante per altri, ma per me ne scrivo tantissime e quando non le uso le butto. Per questo disco di 14 canzoni ne sono rimaste fuori una quarantina, e il mio editore dice: “Cazzo, ma fammele sentire, non le buttare!”, io invece le butto, perché purtroppo sono un cretino. Sarebbe contento di ascoltarle ma non gliele faccio sentire perché è un processo inutile.

Magari anche tanti artisti vorrebbero ravanare nei tuoi scarti!

Ma non sono manco di scarti, è proprio roba personale: quando scrivo per altri gioco uno sport diverso, in cui devo trovare io il modo di inserirmi al meglio. Se organizzo una partita di calcetto con gli amici, non ci vado vestito da tennis con la racchetta e la fascetta dei Tenenbaum. Scrivere per me ha un suono, una melodia, un linguaggio, che su un altro non matcherebbero.

Sono trucchetti che potresti insegnare, hai mai fatto corsi di songwriting?

Se ti dico quanti soldi ho rifiutato da quando ho cominciato mia mamma piange. Non ci credo, non si può insegnare a scrivere una canzone. Nei confronti di chi vuole fare il mestiere delle canzoni, lo faccio di continuo, quando li incontro, ci parlo, sono occasioni migliori, mi ci confronto, ci parlo, ed è sempre bello, lo faccio sempre, ma non avrei il cuore di chiedere dei soldi a qualcuno per insegnargli a scrivere. Non credo sia possibile, queste cose sono impalpabili, sono doni che hai o non hai e nessuno ti può insegnare. Un buon 50% della riuscita di una canzone è quanto credi in ciò che stai facendo.

Cesare Cremonini ha detto che non c’è attimo più eterno e completo di quando finisci una canzone. Per te esiste quell’attimo?

Te ne rendi conto subito. Sono molto istintivo, non ci devo riflettere troppo: se ci sto riflettendo troppo, sto facendo una cagata. Le canzoni arrivano, suggerite da un mood di accordi, da un’idea, da qualcosa che hai visto, da una persona con cui hai parlato e ti resta un tarlo che poi butti giù in canzone. L’idea iniziale capisci subito se è buona, poi magari ci metti due giorni o un anno per chiuderla, però capisci subito se l’idea è vincente.

Cosa è cambiato nel tuo approccio a un disco nuovo?

Il disco precedente è stato importante e mi è piaciuto stargli dietro. È stato il primo disco da quando faccio l’artista che ha fatto succedere qualcosa dal basso, non per le radio o Spotify o per i giornalisti, ma per la gente che mi ha detto: “Hai trovato la cosa giusta dopo tanto tempo che ci provi, fai questo”, e hanno riempito i concerti su cui non avevamo nessuna aspettativa. Adesso è cambiato tutto, ho avuto una botta emotiva e ho quel disco come metro di paragone. Fare questo è stato violentissimo: io non riesco a fare i dischi tanto per farli, devo sempre dare tutto e fare il disco della vita, deve essere un passo avanti rispetto al precedente, quindi trovare il progetto è stato tosto a livello emotivo. Non credo di avere scritto e cercato tutte queste canzoni per un disco.

Questo, dentro di te. Intorno al disco, intorno a te, invece cos’è cambiato?

Avendo seminato bene, noto che il percepito su di me è cambiato, sarei uno sciocco a non notarlo. Adesso gli addetti ai lavori guardano diversamente alle canzoni di Tropico, le radio ci passano ed è bellissimo, i concerti sono più grandi ma fanno meno paura, banalmente anche le persone per strada ora capita più spesso che mi fermino per dirmi che hanno sentito un pezzo ed è bello. C’è un’atmosfera diversa sul progetto.

Vedere tutti questi duetti mi ha fatto pensare che l’ambiente musicale italiano volesse restituirti un po’ di quello che gli hai dato.

Capisco che possa sembrare così, ma è un po’ ingenuo, perché con alcuni artisti nel disco non ho mai collaborato nemmeno come autore, con Madame non ho mai scritto. Ci sono artisti che come me non vanno a vedere quante milionate di stream fai, vedono la canzone a livello artistico e se sei il progetto è solido, e pensano che farne parte sia una cosa bella anche per loro. Chi viene a fare una comparsata, sa che canta in un disco coi controcoglioni ed è un progetto di qualità, in una delle baracche che si fa più il culo in tutta Italia, proprio come tempo speso per la musica. Non riuscirei ad apparecchiare un featuring per cercare qualcosa, deve nascere da una stima artistica. Non inseguo nessuno, né per un featuring né per altro, Sembra banale, ma in quest’epoca di feat. selvaggi con chiunque, io ho l’ingenuità di pensare che debba essere un’intesa artistica speciale, ma anche per il mio pubblico, piccolo o grande, se ascolta il brano con quell’artista deve essere un’occasione speciale.

Tu e Cremonini avete scritto per i suoi progetti, questa volta avete scritto per il tuo, com’è andata Fantasie?

Entrambi stiamo in fissa con certi suoni dei '70, mi fa sognare la musica di quel periodo, ho cercato di matchare un suono di quel periodo con qualcosa di moderno, come succede anche all’estero a Tame Impala o Arctic Monkeys. Avendo questa fissa in comune, quando ci siamo visti per scriverla siamo andati spontaneamente verso gli anni ’70, un cantautorato psichedelico senza la struttura classica. Potevamo essere più faciloni ma non era il viaggio né del disco mio, né dell’ultimo Cremonini.

Hai detto "disco con i controcoglioni", ma trovi difficoltà a pensare ancora agli album come dischi, come opera unica?

Tantissima. Perché il mercato vuole che tu artista ti muovi per singoli: è più facile e veloce, ma non riesco a valutare un artista dal singolo. Un artista deve avere la gara lunga, come un calciatore che fai entrare all’ultimo minuto e segna, ma fa le partite intere senza beccarne una. L’unico modo per valutare gli artisti sono i dischi e i concerti: sui singoli può esserci una canzone bella, una brutta, e c’è il rischio che lavorando per singoli si ripeta sempre lo stesso pezzo, lo stesso mood, così fidelizzi l’ascoltatore, le playlist, lo streaming, ma c’è un impoverimento che non posso permettermi. Je m’accir ("io mi ammazzo", ndr) se non riesco a divertirmi con le canzoni, tuffandomi in più mood e approcci melodici: la musica è una roba incredibile e me la devo pigliare tutta, non un pezzettino.

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Hai anche l’arma del napoletano dalla tua.

C’è un grande riflettore su Napoli, dal cinema, alle serie, al pallone, al rap. È un buon periodo. Penso però che il napoletano cantato dagli artisti spesso sia un napoletano più di suono che di contenuto. Nel disco precedente c’era una canzone con il dialetto, stavolta ce ne sono cinque. È una lingua difficile per me, è come l’inglese: se ti accontenti del suono va bene, però ci sono canzoni che suonano da dio, con grandi melodie ma se il testo non vuol dire niente non ti considero nemmeno come artista, se non hai padronanza di linguaggio, delle immagini, lo sviluppo del pensiero e delle metafore. Pensare che cantare in napoletano renda tutto poetico è un po’ una cazzata. Ho perso tanto tempo prima di riuscire a sentirmi forte con il napoletano quanto lo sono con l’italiano e poter dire: “Posso andare anche con il napoletano e vi spacco il culo”.

Ami denunciare le tue ispirazioni. In questo disco cosa ha stimolato il processo creativo?

Già dai titoli, i miei dischi hanno sempre avuto voglia di essere più cinema, che una scatola di canzoni. Io sono a disposizione degli input che mi vengono addosso in quel periodo, non solo i film, ma anche i libri o i dischi: ad esempio la canzone che chiude il disco, Anema ‘e notte, viene dal fatto che ci ho messo tanti anni ad affrontare la canzone napoletana alla Murolo, quello stile anni '50, perché sono cose delicate: io sono innamorato di quella roba lì. Quando Roberto Murolo ha svuotato tutto e lasciato le canzoni napoletane soltanto voce e chitarra, quel disco è diventato uno dei miei dischi preferiti. Quella roba lì ce l'ho sempre avuta addosso, negli ultimi anni l'ho ascoltato tantissimo e ho detto "devo fare un pezzo così". Poi sono ingenuo, tendo a confrontarmi con cose che sembrano grosse, ma mi piace e mi diverte e ci vado senza pietà.

Il Davide ascoltatore quindi dà una mano a Davide l’autore.

Anche il pezzo con Raiz, è un gioco che feci una volta in un pezzo di Cesare, scrivemmo Io e Anna che era il seguito della storia di Anna e Marco di Dalla. Questa volta invece è il continuo della storia della protagonista di Nun te scurdà, un pezzo degli Almamegretta. Ragionando come in un libro, quando ho canzoni che mi stanno particolarmente a cuore, mi piace cercare di continuare la storia.

Quindi riesci a giocare in libertà, nella tua scrittura?

In ogni disco c'è sempre un guilty pleasure. Nel precedente c'era Bambolina voodoo e in questo È importante avere una visione: sono canzoni con una struttura sbagliata. È una roba che ho rubato dai Pink Floyd: smontare la struttura. Mettevano il ritornello dove non ti aspettavi, oppure cambiavano più scene senza una struttura classica ABC. Io metto sempre una canzone con la struttura BBCLZ...

Parlando delle abitudini nella scrittura, hai dei trucchetti, delle nevrosi, qualcosa che ti aiuta a scrivere?

Sono più scaramantico alla napoletana: c’è una piramide di oggetti e abitudini che leghi a un evento o una scrittura felice, a una roba buona che ti è successa, e quelle robe lì diventano una matrioska infinita che più passa il tempo e più aumentano. Poi magari una volta te ne dimentichi e dici: “Uà, cazzo, quella volta che non mi sono messo i calzini bordeaux ho scritto una grande canzone lo stesso, allora non me li metto più”. Ma è una cosa di umore: ti senti più sereno, tranquillo, è una carezza in più, se hai un oggetto che ti dà gusto o ti fa stare bene.

Qual è il controverso rapporto tra artisti e autori? Si cerca di nascondere gli autori per “cazzimma”?

Penso ci sia molta insicurezza da quando abbiamo deciso che i cantautori fossero meglio degli interpreti, che è una grandissima cazzata. Perché io mi taglierei la mano per avere gente come Mina per cui scrivere le canzoni, e dico Mina perché è un nome sopra tutti. È un errore, nessuno saprebbe interpretare una canzone come Mina. Chi stabilisce che Mina ha meno valore di Guccini? Ma stocazzo! Non è così, Mina vale quanto Guccini, quanto De Andrè. È più insicurezza che cazzimma. La musica è cambiata, collaborare è un pregio: Kanye West ha i pezzi firmati da venti persone, ma nessuno pensa che sia un artista debole per questo. Ora che la musica va veloce più sei furbo e bravo e più crei un team di creativi per avere armi nella tua squadra: musicisti, producer, autori, ma pure filosofi vanno bene, tutto quello che è input creativo è importante.

Di quali input e aiuti hai bisogno tu?

Io per primo mi circondo di persone per farmi aiutare dove sono debole: per esempio sugli arrangiamenti cerco di tirare dentro musicisti mostruosi nelle cose che faccio, molto più bravi di me. La mia band la tratto come principi e principesse, perché sono la mia squadra. Io ho sempre avuto una mentalità collettiva, ed è fondamentale taggare la band, i produttori, gli autori, tutti. Forse esagero, ma quando nelle collaborazioni vedo che un tag che manca, la vedo come una questione di insicurezza.

Da dove nasce questa convinzione che una canzone con 20 autori valga meno?

Perché in Italia quello che manca è la critica musicale. C’è bisogno di voci che abbiano più competenza e cognizione di causa, che sottolineino certe cose negli articoli, piuttosto che cercare polemichette o titoli acchiappalike. Tutti sono bravi, cantautori, tutti numeri uno, sempre sold out ma non c’è qualcuno che ti spieghi le cose: non per insegnarle, ma perché le persone ascoltano le canzoni senza porsi il problema di chi c’è dietro, quindi spesso si butta in caciara: “l’hanno firmata in venti, dev’essere una merda”, ma non è vero! Ci sono capolavori della musica che magari dietro hanno 15 persone. E che gli vai a dire a Kendrick, a Kanye, ma pure i Beatles, firmavano in due, ma creavano in quattro ed erano fulmini di guerra. Siccome erano in quattro valeva di meno? A me me pare ‘na strunzata!

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L'articolo Come Davide "Tropico" Petrella ha lanciato un'OPA sul pop italiano di Marco Mm Mennillo è apparso su Rockit.it il 2023-10-10 10:30:00

COMMENTI (1)

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  • partysmith 6 mesi fa Rispondi

    "Perché in Italia quello che manca è la critica musicale. C’è bisogno di voci che abbiano più competenza e cognizione di causa...".

    Ce l'ha con voi.