The Groovers - e-mail, 12-11-2003

L’ottimo “A handful of songs about our time” è l’album che conferma il nuovo corso dei Groovers. Dal roots all’indie-rock: la strada è quelle intrapresa da qualche anno a questa parte, senza però dimenticare quella “working class” di lennoniana memoria, che rimane al centro delle liriche della band piemontese. Una chiacchierata, via e-mail, con Michele Anelli, chitarra e voce dei Groovers, serve a metterci di fronte ad un gruppo che ha ancora tanta voglia di crescere, nonostante le tante certezze acquisite fino a questo momento.



Con “A hanfdul…”, i Groovers hanno confermato di voler procedere a tappe forzate verso un evidente processo di trasformazione estetica. Dal roots-rock alle atmosfere indie ed all’influenza della psichedelia. Cosa è successo alla vostra band negli ultimi tempi?
Dopo “September rain” del 1997 c’è stata una pausa di riflessione. In quel periodo è nata la collaborazione con Evasio Muraro il cui gruppo, Settore Out, era prossimo allo scioglimento. Abbiamo sperimentato insieme un band formato trio con il cantato in italiano e seminato qualcosa che nel corso degli anni ha dato il via all’evoluzione dei Groovers. Con “That’s all folks!!” del 2000 e “Do you remember the working class?’ del 2001 il sound aveva già iniziato la sua trasformazione, pertanto il percorso dura ormai da sei anni, ovvero quasi la metà degli anni della band stessa, nata nel 1989. Non vogliamo scrollarci di dosso il passato ma semplicemente andare oltre la definizione che ha sempre collocato i nostri dischi nell’ambito del roots-rock. In fondo passano gli anni e troviamo stimolante cercare un sound che personalizzi ulteriormente il nostro lavoro. L’ultimo disco rappresenta per noi il traguardo di questi ultimi anni e il punto di partenza per quello che deve ancora venire.

Vi capita spesso di riascoltare i vostri vecchi album? Ultimamente ho ripreso tra le mani “Soul street” e credo sia impossibile convincere un ipotetico interlocutore che si tratti dello stesso gruppo
È molto interessante questa tua opinione anche se nell’ambito delle bands possiamo trovare tranquillamente altri esempi come il primo dei Wilco (“A.M.”), rispetto all’ultimo “Yankee hotel foxtrot”, oppure il primo dei Clash rispetto a “Sandinista”, o ancora gli U2 di “October” e “Pop”. Detto questo, che gusto ci sarebbe se uno prende i nostri dischi e dopo 10 anni trova le medesime cose, e questo vale anche per noi. Certo, non si tratta di un gioco tipo “cosa ci riserverà il prossimo disco?” ma ritengo fondamentale che una band esprima in primo luogo quello che è il sentimento che coglie in modo attuale l’anima del gruppo, non dimentichiamo che praticamente della band che suona su “Soul Street” sono rimasto solo io e, in alcuni canzoni, Paolo Montanari alle tastiere, che oggi non è presente nella formazione live. Ciò non toglie che in futuro possa uscire anche un disco acustico che richiami anche il passato, non ci vedrei nulla di male.

Immagino siano cambiati anche i vostri ascolti. Che dischi e concerti avete frequentato ultimamente?
Se non ricordo male era il 1998 quando con Evasio siamo andati ad un concerto degli EELS ai Magazzini generali di Milano. Bene, quel concerto ci aveva fulminati. Veramente. Un trio con quel tiro, quel calore così diverso dall’oscurità dei loro dischi (parlo ovviamente del primo periodo della band) ci aveva esaltati e subito abbiamo pensato al trio che accennavo prima, chiamando la band Flamingo e girando per quasi un anno. Ecco, da allora abbiamo ripensato le nostre coordinate musicali. Così, a fianco dei dischi di Del Fuegos, Long Ryders, Hoodoo gurus, Green on red, Dream Syndicate, Bruce Springsteen, John Mellencamp, Tom Petty e così via, sui nostri lettori hanno cominciato a girare, EELS, Sparklehorse, Mark Lanegan, Minus 5, I Am Kloot, Wilco e tanti altri, ma ripescando anche i Beach Boys di “Pet sounds”, i Velvet Underground, la psichedelia californiana in generale.

Quant’è stata importante la collaborazione di Evasio Muraro?
Mi piacerebbe dire come per Strummer e Jones. Voglio dire la complementarietà dei nostri stili ha permesso e permette tuttora di lavorare alle canzoni generando un ‘marchio di fabbrica’. Tutto ciò che facciamo è il frutto del nostro incontro e del modo di lavorare che abbiamo affinato con il tempo. Per me è stato importante trovare in questo ‘rock‘n’roll circus’ una persona che aveva la mia stessa determinazione nel continuare a suonare. Come ti raccontavo, prima l’esperienza del 1998 con i Flamingo ci ha permesso di introdurre uno stile di lavoro che oggi, in modo particolare, si è concretizzato con il nuovo album dei Groovers. Il modo in cui suona il basso, poi, è unico e caratterizza in modo particolare il groove dei brani.

Come siete arrivati a firmare per la Cement mixer music?
È stato facile…nel senso che l’etichetta è di Daniele Denti che suonava con Evasio nei Settore Out, inoltre gli erano piaciuti i demo e ha co-prodotto con noi il disco. È stata una proficua collaborazione.

Piccolo è meglio?
Beh, in questo caso etichetta e produzione hanno viaggiato di pari passo, pertanto non c’è stato bisogno di molti compromessi. Abbiamo lavorato parecchio sui suoni confrontandoci in maniera determinata ma serena, trovando sempre il modo di andare nella stessa direzione.

Come mai avete scelto di inserire quelle schegge, chiamate “No time we had”?
È stato forte come questa cosa si è sviluppata, perché a gennaio 2003 avevo fatto recitare questo testo, con una registrazione molto povera, ad un grande amico qual è Matteo Gianola, che da anni supervisiona, per quanto riguarda l’inglese, le stesure finali delle liriche, pensando che poteva essere una cosa utile al disco, ma è rimasta nel cassetto per dei mesi. A disco finito Evasio mi chiama e mi chiede se avevo ancora qualcosa in giro da inserire nel cd, potendo però fare dei piccoli interventi, non una vera e propria song. Detto fatto, sono andato in studio ho fatto un’altra traccia di voce ed aggiunto chitarre sparse sotto e sopra le parole. Le coordinate su cui io ed Evasio ci muoviamo sono incredibili, abbiamo musicalmente una visione delle cose che ci permette di trovare sempre soluzioni aggiuntive e capita raramente che non siamo sulla stessa lunghezza d’onda.

Rappresentano qualcosa di particolare?
Volevamo dare un ultimo tocco a quanto registrato, una sorta di valore aggiunto alla produzione. Avevo questo testo che era molto lungo e poco si confaceva al resto del disco, mentre le parole erano in perfetta sintonia. Anche se solo recitate, sono parole di speranza.

Le vostre liriche, invece, non sono cambiate in modo deciso...
Ci sono autori o band che parlano di donne, motori, notti selvagge e così via - e sono bravissimi a rappresentare tutte queste situazioni. Le caratteristiche dei miei testi sono diverse e puntano laddove ci sono storie da raccontare o situazioni da evidenziare. Mi piacciono le cose brevi, concise, senza fronzoli e nel tempo ho affinato questa cosa.

Anche se una certa fase, legata a testi di ispirazione springsteeniana sembra superata
Non posso negare che una certa enfasi degli inizi partiva da lì, ma è anche vero che ci sono testi di Bruce (Springsteen, ndr) che equivalgono ad intere pagine di storia contemporanea e spesso mi hanno aiutato a crescere e percepire storie quotidiane con semplicità. Dischi come “Darkness on the edge of town” o “Nebraska” fanno parte di me e non potevo, soprattutto all’inizio, non farmi condizionare.

Nei vostri testi spicca la mancanza di riferimenti a rivoluzionari ‘di professione’. Spesso, nei dischi inseribili nel filone della musica di protesta, i riferimenti ai subcomandanti di ogni angolo del mondo si sprecano. Voi avete preferito una dimensione, come dire, minimalista.
Come ha detto il jazzista Gaetano Liguori, “uno si sceglie il comandante che vuole”. Con questo trovo interessanti quegli autori che riescono a portare luce sui vari ‘comandanti’ del nostro tempo, ma bisogna essere capaci nel non cadere nella retorica che è una cosa che mi ha sempre spaventato. Essere rivoluzionari ‘di professione’ non esiste, perché uno è rivoluzionario quando si volta indietro e vede una moltitudine di gente che lo segue per le sue idee e per quello che dice. Non ci si può improvvisare rivoluzionari né tanto meno farlo come lavoro, perché è qualcosa che uno si porta dentro. Preferisco le piccole storie quotidiane che vengono coltivate dalla gente che di solito non fa nemmeno titolo sui giornali.

Più socialisti (nell’accezione positiva del termine) che no-global i Groovers, mi sembra
Guardo ai movimenti con interesse: sono portatori di contenuti importanti e sono anche il segnale di un forte disagio sociale, ma il mio A è comunista e penso che il vero volto del comunismo non lo abbiamo ancora visto. Gli uomini alla fine sono quelli che con le idee degli altri: possono riuscire a combinare un bel casino senza riuscire a portare alla luce i veri contenuti di una ideologia che ha posto all’attenzione del mondo delle cose molto concrete.

Quindi, in un certo senso, più ‘conservatori’?
Io conservatore non mi sono mai sentito: un buon comunista è uno che sa fare autocritica. Ce ne fossero di più che dai propri errori traessero una lezione e per il futuro avremmo davanti a noi tempi migliori. Inoltre, Marx definiva il comunismo un movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti e non uno stato di cose che debba essere instaurato. Si legge in questo un dinamismo che certo non si è mai visto o quasi. Cuba, per certi versi, è riuscita in molte cose - se penso alle scuole, alla sanità, alle case - ma lo svantaggio di vivere o sopravvivere vicino ad una superpotenza tiene alta la tensione ed è normale incappare negli errori.

Una domanda ispirata dal vostro comunicato stampa: c’è ancora spazio al giorno d’oggi per intonare una folk song di protesta?
La parola ‘folk’ va vista in un modo più universale e non collegata direttamente all’immagine del ‘one-man band’. L’idea che al giorno d’oggi si possano sprecare parole e fiato solo per le baggianate va contrastata: l’uso della parola nei testi lo reputo importante quanto scrivere canzoni. Dire qualcosa di interessante è un mezzo per comunicare, perché sprecarlo? Ma anche una semplice chitarra ed una voce non necessariamente intonata possono colpirti l’anima.

A proposito, perché vi ostinate ad inserire le vostre canzoni nel calderone della folk music?
Noi? Veramente cerchiamo di ridurre il tutto alla parole musica ‘indie’, termine che vuol dire tutto e niente ma che fa presagire qualcosa di diverso di non perfettamente collocato o collocabile. Nel 2000, qualcuno definì l’album “That’s all folks!!” il “The ghost of Tom Joad” italiano e non eravamo certo noi a scriverlo, ma qualcuno senza fantasia e orecchie…

La ‘working-class’ ricorre molto spesso all’intero delle vostre storie. Sembra una vera e propria ossessione
No dai, non è un’ossessione... è che si parla di persone, di storie, di vita passata, di lavoro, di voglia di qualcosa di diverso che non sia solo vita/lavoro-vita/lavoro. Dare la possibilità a tutti di godersi questi giorni, dare ai personaggi una prospettiva alla loro vita, una luce in fondo al buio.

Credete davvero - come dite in “No time we had” - che la classe operaia abbia ancora la forza di incrociare le braccia e a tendere i pugni tesi verso il cielo?
Sì, io penso di sì, anche perché oggi non è anacronistico pensare alla classe operaia come punta di un iceberg nel mondo del lavoro. Se pensiamo di allargare questa immagine, mi piace comprendere con questa definizione tutto il mondo del lavoro. Il rischio è strumentalizzare chi lavora e portarli verso una strada che solo col senno di poi risulta sbagliata. Scelte sindacali non propriamente felici sono passate alla storia. Bisognerebbe uscire dai tavoli della concertazione e puntare di più sulla qualità delle scelte che vincolino una politica economica di un paese a pensare alle fasce deboli e meno protette. Ricordiamoci infine che se le lotte del movimento operaio ottengono dei benefici, gli stessi ricadano sull’intero mondo del lavoro.

Pensate che una canzone possa contribuire a cambiare lo ‘status-quo’?
Pensarlo è bello, poi, nella pratica, è difficile praticarlo. Certo, se una tua song diventa un successo e ciò che hai scritto rappresenta un pensiero che smuove le cose sopite all’interno dell’anima, beh, perché no... ma in fondo mi basta pensare o sapere che qualcuno con una canzone dei nostri dischi abbia trovato una ragione per continuare a non mollare. E ciò mi potrebbe solo far piacere.

Credo che uno dei limiti del vostro disco sia la lingua usata nei testi. A quando l’abbandono dell’inglese, in favore del nostro italiano?
Questa è stata la domanda più gettonata di quest’anno da parte di giornalisti e ascoltatori. Non possiamo non tenere conto di questo e, come dicevo prima, di esperienze con l’italiano ne abbiamo; non ultimo l’uscita di un disco quasi contestuale a quello dei Groovers in cui abbiamo lavorato io ed Evasio, intitolato “Io Lavoro” (uscito per la rivista “L’Ernesto” e contenente cinque cover, proposte dagli editori, e cinque brani nostri). Non abbiamo avuto molto tempo per la lavorazione ma è una produzione che ci ha soddisfatto e che risulta a tutti gli effetti la prima uscita concreta nella nostra lingua. In fondo, chi ci ha suonato sono i Groovers con l’aggiunta dei Tomaso Leddi degli Stormy Six.

Se il cd si chiama “A handful of songs about our times - volume 1”, secondo logica, ci dovrebbe essere un seguito. O no?
Non abbiamo mai avuto problemi di canzoni: abbiamo alcuni outtakes ma anche pezzi nuovi. Prematuro parlarne ora, ma è chiaro che non vorremmo fermarci al volume 2…

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L'articolo The Groovers - e-mail, 12-11-2003 di Giuseppe Catani è apparso su Rockit.it il 2004-02-25 00:00:00

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