La letteratura è un talismano. Effe Punto ci racconta i suoi Coccodrilli

Un disco che copre quel lasso di tempo che c'è tra la stesura del coccodrillo e la notizia effettiva della morte: ce ne parla Effe Punto

Tutte le foto sono di Jacopo Farina
Tutte le foto sono di Jacopo Farina

Il nuovo album di Effe punto, "Coccodrilli", è un concept in 16 episodi che riempiono lo spazio fra la scrittura di un coccodrillo (il necrologio scritto in anticipo) e la notizia ufficiale della morte e che diventano una sorta di vademecum su come vivere la propria morte in anticipo e rivedere di conseguenza la propria vita, con tutte le sue rinunce, aspettative, colpe e possibilità inespresse.
L'abbiamo intervistato e abbiamo parlato di vita, morte e altro.  

Ho letto che hai cominciato a registrare il disco nel giorno dei morti.
Esatto. In realtà banalmente è stata una coincidenza, però è vero che non ci accorgiamo più che i tempi che abbiamo a disposizione, i tempi liberi, i tempi familiari, col lavoro e tutte le dinamiche in cui siamo buttati dentro, sono poi spesso momenti liturgici, momenti pensati da calendario che dobbiamo scandire, che dovevano in qualche modo ricordare la liturgia della vita e la liturgia dell'anno solare, e poi invece abbiamo registrato durante quel periodo, nel giorno dei morti perché appunto era festa quindi avevo del tempo libero. Siamo andati in uno studio ed effettivamente senza volerlo poi il disco parla di questo: i coccodrilli sono appunto i necrologi scritti in anticipo. Il disco parla di quello spazio fra la vita e la morte, la bellezza del coccodrillo è che appunto in qualche modo anticipa o prevede o comunque già dà per scontata la morte del personaggio famoso, è già una sorta di apologia a seconda di chi muore, una revisione della sua vita, dei suoi alti e bassi...

Una sorta di celebrazione della vita nel momento in cui finisce.
Per me il coccodrillo nello specifico è più il momento strano di confusione rispetto a questa idea, parla di una vita vissuta e ne parla comunque dando per scontato che la persona sia già morta,, e poi spesso succede così perché comunque i coccodrilli vengono scritti per questo vengono scritti perché si aspetta la notizia della morte della persona famosa, quindi in qualche modo si ha già una versione di quella vita.

Il tuo disco precedente era una rilettura di Eliot, restando in quell'ambito possiamo dire che questo invece vuole essere un po' il tuo Spoon River?
Sembra anche troppo. Spoon River erano delle poesie sulle tombe di persone già morte, quindi in molti casi Edgar Lee Masters aveva inventato anche una vita, e una sorta di funzione sociale, di queste persone a cui appartenevano queste tombe sulla collina di Spoon River. “Coccodrilli” sicuramente non vuole essere così funereo e tombale, non dedica delle canzoni a dei morti e non dedica delle canzoni a delle vite vissute. Vuole essere in realtà una dedica ai presenti e non agli assenti, e gioca un po' col nome, con questo equivoco del coccodrillo stesso, appunto della morte non annunciata ma già scritta che per me è un'allegoria della condizione attuale di molti. Nel disco ci sono più che altro delle fasi, degli episodi, dei racconti, delle storie, sia di soggetti singoli privati, dal povero diavolo a Carlo o al capitano, sia delle storie collettive e generazionali.

In generale c'è molta letteratura nella tua musica, citazioni più o meno esplicite, da Dino Campana a Pavese, Pratolini... quanto è importante per te questa cosa, quanta “fiction” c'è quando scrivi e quanto invece viene dalla vita “vera”?
Sicuramente la letteratura per me è stata è un talismano con cui vivere anche, guardare, capire delle cose che forse da solo non riuscirei a capire, non riuscirei ad analizzare così bene o a vedere così a fondo. Sicuramente c'è tanta letteratura, la volontà poi è quella che in un disco di canzoni non sia così presente, e soprattutto non rimanga semplicemente una citazione, cioè serva a sua volta a far nascere nuovi pensieri e letteratura. Tanta finzione meno, nel senso che sicuramente essendo una chiave, un talismano, un amuleto per vivere, è più uno strumento, un elemento anche di conforto o di sconforto, nel senso che quando ci si rende conto che c'è del vero in ciò che è scritto, che c'è del vero in ciò che si vede, la letteratura diventa anche altro, è un supporto ma non vuole essere solo un rifugio consolatorio ma qualcosa con cui ci si apre a dei discorsi e a delle cose che da solo forse non avrei visto, non c'avrei fatto caso, non sarei stato così bravo a capire, tanto negli affetti e nelle relazioni umane quanto nelle analisi più ampie sulla struttura del mondo e dei sistemi e dei suoi corsi e ricorsi.

Quindi c'è anche una funzione sociale, politica se vogliamo?
Ecco, quello che mi piacerebbe si potesse aggiungere a questo disco è una visione politica della letteratura e della canzone, non più in una chiave militante e in qualche modo schierata e annunciata come tale, ma più nel suo linguaggio, nel suo essere a sua volta per qualcuno che mi auguro lo ascolterà un amuleto, un talismano, una chiave per capire qualcosa di più di se stesso e di quello che lo circonda.

Mentre ascoltavo il disco sentivo anche quasi un senso di sfida per quanto è denso di riferimenti, mi capitava di pensare Oddio, forse mi sta sfuggendo una citazione fondamentale! Dirò una parola che può sembrare brutta: la tua musica è molto citazionista, ma in senso positivo, lo fai in un modo personale e diventa anche “educativa”, nel senso che ti stimola ad andare più a fondo, a capire da dove viene un certo riferimento, magari a leggere quel particolare libro...
Preferisco parlare di suggestioni più che di citazioni, perché la citazione oggi, con la scrittura breve imposta, è davvero diventata una brutta parola, ne facciamo un uso orrendo e poi è molto facile ormai usare delle citazioni totalmente spostate dal contesto, dalla cornice e che spesso rischiano di avere un significato totalmente opposto a quello che aveva in origine, dal senso da cui nascevano. Per queste suggestioni è la parola giusta: degli appigli che possano poi aprire appunto a delle curiosità, per cui uno poi recupera o si interessa, che è quello che banalmente dovrebbe fare un buon testo, una buona canzone: richiamare tante cose che uno in parte ha già dentro di sé, e altre che può andare a conoscere.

Non vorrei battere troppo sull'argomento, ma di questa dobbiamo parlare per forza: la citazione più esplicita è quella degli Afterhours in “Brave persone”, sembra quasi una riscrittura di “Quello che non c'è”.
Fra l'altro loro hanno usato la stessa frase come titolo della loro raccolta, abbiamo beccato lo stesso momento. La cosa nasce perché è una canzone che mi aveva molto colpito al tempo, seguivo molto gli Afterhours ed è uscito “Quello che non c'è”, il disco e poi la traccia da cui è tratto il primo verso, questa foto di pura gioia di un bambino con la sua pistola che poi appunto è anche la copertina del nuovo disco degli Afterhours, dove c'è Manuel Agnelli da piccolo vestito da cowboy con la pistola, e in realtà anche lì, tornando al discorso delle scatole cinesi, delle suggestioni, delle citazioni che muovono altri pensieri, e portano anche altrove rispetto al punto di partenza, la canzone, mentre quella di Agnelli è molto intima e privata, riguarda la sua memoria individuale, è lui che si ricorda da bambino, voleva vuole in qualche modo nel mio caso richiamare all'oggi, a una dimensione di immagine, di eccesso, di frequenza e inquinamento visivo da ovunque, e sulla distonia e anche falsità dell'immagine, non tanto solo oggi perché c'è la facilità di essere manipolata o banalmente di essere falsata, ma anche un'immagine storica, una fotografia del passato che anche lì è decontestualizzata, spostata su piani diversi con dei significati diversi.

In ogni caso, da dov'è nata questa idea?
La suggestione nasceva dall'aver visto un album di fotografie di un gruppo di nazisti durante il loro tempo libero dalla gestione dei campi di concentramento, ed erano ovviamente persone comuni, erano persone felici, queste fotografie li ritraevano mentre cantavano, suonavano, trascorrevano le ore felici della loro giovinezza perché comunque erano ragazzi di venti/trent'anni, semplicemente erano i carnefici, sono stati gli autori di una strage, e “Brave persone” riflette su questo, sulla difficoltà di riconoscere le brave persone, la difficoltà di individuarle e la difficoltà di avere una memoria oggettiva, una memoria collettiva che restituisca la verità dei fatti ma anche la verità storica di una comunità, di una collettività. Poi è un pezzo che banalmente se la prende con i turisti, con tutto quello che vuole essere un ricordo forzato, un ricordo bello, un ricordo col sorriso, sono le foto su trip advisor, sono le foto sui blog di viaggio, sono le foto dei nostri piccoli spazi pubblicitari che si chiamano facebook, instagram, twitter... quindi è una canzone che poi diventa molto personale, su una domanda che forse ci facciamo poche volte: ma noi, siamo delle brave persone? Perché nell'individuarle o meno, nel puntare il dito, siamo diventati più o meno abili a vari livelli di spietatezza, ma forse su noi stessi non siamo così bravi giudici.

Rispetto al tuo lavoro precedente, da un punto di vista più strettamente musicale, questo mi sembra più italiano, nel senso che è molto cantautorale, ed è una cosa che sta vivendo un bel momento. Ti senti parte di questo movimento, di questa scena se così si può chiamare?
Se mi vogliono, volentieri, nel senso che poi sta a chi guarda valutare queste cose. Sicuramente sono tutti personaggi, persone, figure che conosco anche personalmente, ci ho avuto a che fare, ho lavorato con qualcuno e con qualcuno vedo più affinità anche banalmente artistiche, anche se magari non c'è una conoscenza diretta, parlo di un'affinità ideale che magari percepisco io ma non chi ascolta. Sicuramente mi piace molto Lucio Corsi, mi piace la sua lontanaza dall'attualità, dalla cronaca, da testi che parlino dell'oggi, mentre ha una sua poetica molto naif, infantile ma allo stesso tempo potentissima. Dall'altra parte musicalmente uno che è uscito da poco ed è uscito molto bene è Giorgio Poi, sull'aspetto musicale, di freschezza, di capacità di spostare sempre la canzone, di non focalizzarsi su uno schema strofa-ritornello... poi appunto secondo me chi ci ascolta non ci vede nulla di simile ed è anche un bene, però questa nuova scena mi piace molto.

A proposito di Lucio Corsi: il tuo primo disco si chiamava “Dinosauri”, questo “Coccodrilli”. Al di là del significato non zoologico delle parole, si nota uno sguardo sul mondo, sui rapporti fra gli umani in quanto animali, che definirei zooantropologico.
Intanto la lingua è anche un po' gioco, quindi dinosauri e coccodrilli li intendevo nel significato simbolico e allegorico: del coccodrillo abbiamo già detto, “Dinosauri” era una raccolta di vecchie canzoni e quindi era un gioco verso me stesso, dire ok, ho messo insieme una bella quota di canzoni, faccio il disco quindi nello stesso disco li ho ringraziati, i dinosauri, perché in qualche modo li estinguevo, era il mio debito avendo pubblicato le canzoni non averci più a che fare. Con gli animali funziona come con tutto quello che ci circonda, tutto ha questa possibilità di essere allo stesso modo simbolo e significato. Nel mio caso dinosauro e coccodrillo hanno un valore simbolico e sono stati presi un po' a immagine di qualcos'altro. Sulla copertina di “Dinosauri” c'era un bel metronomo rosa che era un ulteriore gioco sulla scansione del tempo, e coi dinosauri la scansione del tempo non è stata propizia o particolarmente clemente in quanto appunto li ha fatti estinguere. “Coccodrilli” invece ha una copertina un po' diversa e ha sempre un significato legato al senso del disco. Mi piace giocare con questi vari livelli dove ci si possono trovare, vedere e sentire cose, se si vuole perdersi un po' ci si perde il cervello, ma sono più boutade, divertissement, un gusto anche un po' sadico nel creare delle associazioni non immediate.

Sei molto attento, infatti, anche all'aspetto visivo dei tuoi lavori.
Una volta che lo fai, almeno la copertina è una cosa che mi piace curare, fare in modo che rappresenti anche un ulteriore livello del disco, aggiungere qualcosa. L'edizione in vinile, che poi è quella che a me interessa di più, avrà tanti inserti, spiegazioni, tanti altri testi, altre suggesioni, altre chiavi di lettura, proporrà un altro livello ulteriore. In particolare siamo partiti dalle illustrazioni dalle tavole di questo illustratore del cinquecento che lavorava alla corte di Rodolfo II, il famoso imperatore dell'Arcimboldo, colui che in europa inaugura la stagione della wunderkammer, era un collezionista, alla sua corte si esibivano una serie di artisti, calligrafi, illustratori, cartografi, che iniziano appunto a disegnare le mappe del mondo, dei mari, e si inizia a catalogare anche per immagini. Questo Joris Hoefnagel dipingeva e illustrava praticamente solo nature morte. Questo libro si chiama “Mira calligraphiae monumenta”, commissionato dall'imperatore, e lui replica queste figure di nature morte dove c'è sempre presente l'insetto, che tecnicamente morto non è, quindi affianco a mele, pere, fiori recisi, altra frutta e verdura, ci sono questi insetti, però non è una cosa minacciosa, grotteca o comica: è molto solare, sono ragni, libellule, cervi volanti, scarabei, che si appoggiano alla natura morta, la consumano anche, quindi questa immagine di natura morta in qualche modo cannibalizzata, assediata dagli insetti che sono tutt'altro che morti, sono la cosa più viva e vista con il contrasto tra vita e morte, che poi era il senso di questo disco e mi sembrava ben esemplificato da queste illustrazioni La copertina è un collage di queste illustrazioni che abbiamo ritagliato e poi abbiamo un po' pasticciato per dare un senso anche un po' più volgare di quello che doveva essere il volume originale.

Le canzoni sono anche dal punto di vista musicale molto ricche, com'è il tuo processo di scrittura, parti avendo già in mente un sound, un certo tipo di arrangiamento, o con la classica chitarrina e poi aggiungi?
La seconda. Le canzoni nascono sempre chitarra-voce, se una canzone sta in piedi chitarra e voce va bene, credo che sia il principio del cantautorato e su questo sono abbastanza severo e rigoroso con me stesso, se non sta in piedi chitarra e voce non è una bella canzone. E poi si aggiungono strati, in questo caso ho scelto di lavorare con poche macchine, pochi synth tutti analogici, recuperati, niente di particolarmente costoso, una strumentazione fine anni 70, anni 80, concepita un po' per come si approcciava al tempo la musica: pochi soldi quindi, però avevano questa bontà di essere delle macchine che facevano quel suono lì, il disco è stato fatto tutto con quel suono perché le macchine quello potevano dare e sono secondo me molto simpatiche e allo stesso tempo molto esemplificative, molto loro, non abbiamo usato software, plugin, non c'è nulla che non sia hardware, analogico, fisico, solido e anche pesante, perché, non so come mai, una volta negli strumenti mettevano una quantità di piombo per farli risultare pesanti. Forse è anche un motivo per cui una volta suonavano meglio: sudavano talmente tanto per spostare questi amplificatori che una volta che una volta che li avevano lì ci passavano un sacco di tempo.

Qual è stato il contributo di Dragogna e gli altri collaboratori e ospiti del disco?
Il disco abbiamo cominciato a registrarlo in una cascina che era uno studio, che non c'è più, nelle campagne di Correggio con Andrea Sologni dei Gazebo Penguins che appunto fa il fonico e a sua volta è anche produttore, e sono andato da lui perché aveva questa situazione dove potevo banalmente immergermi per una settimana, stare lontano dalla città. Lì è venuto a trovarci Fede (Dragogna) che è un amico, con cui abbiamo fatto altre cose insieme, e Gianluca Gambini che era il batterista storico di Dente, con cui ho fatto il tour nei teatri, quindi le batterie ad esempio sono tutte di Gianluca, e poi sicuramente sono venute fuori delle idee, delle parti sono state scritte o improvvisate sul momento da Fede, da Andrea, anche se poi il grosso l'ho finito di registrare a Milano da solo.

C'è qualche brano del disco a cui sei più legato?
Sicuramente “L'anno del leone”, che è quella che nei testi si apre con una poesia di Campana e rifletteva appunto sugli anni in cui l'aeronautica diventava un fenomeno di massa e popolare oltre che militare, e c'era questo stupore molto ingenuo, molto infantile nel guardare verso il cielo, verso una macchina che volava.

Che è anche la canzone che avevo in mente quando parlavo degli arrangiamenti molto ricchi, con questo inizio quasi epico e mistico.
Sì è vero, ha questo inizio che a me piace molto, questa costruzione di synth molto evocativi, appunto, epici. E poi ha questa piccola storia diciamo di un pilota ma che può essere la storia di un qualsiasi visionario, di un qualsiasi precursore incompreso del tempo in cui lavora, pensa e opera, e si schianta al suolo di fronte anche alla compiutezza della sua opera. L'aereo poi è diventato una macchina da guerra. C'è quel bellissimo film di Miyazaki, “Si alza il vento”, dove si parla fra l'altro di un aviatore italiano, Caproni, un ingegnere e un precursore - se non sbaglio c'è un museo dell'aeronautoca a Trento dedicato a lui - e nel film c'è un po' la stessa vicenda, c'è un ragazzino che vuole studiare ingegneria aeronautica ed è assolutamente convinto di raggiungere questo sogno e di ottenere il miglior aeroplano possibile, solo che vive negli anni della seconda guerra mondiale, quindi la sua invenzione, che è perfetta, diventerà un terribile strumento di guerra. È stato l'ingegnere che ha inventato il modello dei famosi aerei kamikaze giapponesi che avevano questa particolare propensione a viaggiare per molte ore con un carico di carburante molto basso, quindi molto poco pesante.

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L'articolo La letteratura è un talismano. Effe Punto ci racconta i suoi Coccodrilli di Letizia Bognanni è apparso su Rockit.it il 2017-12-05 10:00:00

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