Un pianoforte, un sospiro, dei pad che creano ansia. Il rumore dei tasti di un computer. Una voce generata artificialmente. “Io sono Emma e sono nata nella mia stanza”. Si apre così Era l’inizio, l’ultimo disco del cantautore rage Emma, nome d’arte di Alessandro Muscogiuri. Sicuramente una delle voci più intense della sua generazione. Ad ogni suo concerto ho visto la gente piangere, rimanere rapita e stordita. Al MI AMI 2025, quando il 22 maggio ha inscenato la sua metaforica uccisione nello stesso giorno in questo disco è stato pubblicato - era il Day Ø, prima di Bladee - si è creato un cerchio nel pubblico e un buco nello stomaco. Tutti ci siamo cascati dentro, sotto la pioggia.
Era l’inizio sarebbe dovuto essere un mixtape interamente elettronico, si apre con “Ragnatela” che è strumentale proprio per questo. Poi ha preso direzioni diverse. È animato da una certa furia glitchcore, ma ha aperture melodiche romantiche e un’intensità lacerante. Vive di contrasti, e se ne cogli la poesia può travolgerti seriamente. È il terzo capitolo di una trilogia che non era nata per esserlo, ma lo è diventata durante, come un adolescente che capisce cose che lo riguardano, semplicemente vivendo e crescendo. Sbagliando, provando, confrontandosi con altre persone.
Hai pubblicato Era l’inizio uccidendo te stesso, con un concerto al MI AMI intitolato !!!!!!UCCIDI EMMA!!!!!!. Perché?
Mi ero dato una data limite con questo album: 22 maggio. Avevo esportato il disco: durava 55:22. Adoro le sincronie. O lo pubblicavo lì - il 22/5 - o forse non sarebbe mai uscito. !!!!!!UCCIDI EMMA!!!!!! è stato questo: smettila, metti da parte l’autocritica infinita, uccidi l’ego, lascia che quello che hai fatto diventi degli altri. È una cosa che mi distrugge. Ma sentivo di doverlo fare.
C’è questa immagine di te potentissima che piangi, a fine concerto.
Quel giorno ho pianto un’ora perché tutto il lavoro su me stesso, di un anno intero, si è concretizzato lì. Alla fine del concerto mi sentivo felice. Felice come un bambino. Perché solo quando vivo tutto intensamente riesco a stare bene. Sennò diventa una morsa.
C’è chi ha voluto interpretare questa tua uccisione come una metafora legata ai meccanismi dell’industria musicale.
Quello che faccio è reale, è un altro binario rispetto all’industria musicale. Quando scendo dal palco, mi sento svuotato. Ma è l’unico momento in cui vivere ha davvero senso: non ci sono domande, non c’è tempo. Solo intenzione. E io so che l’intenzione è sincera.
Della tua esibizione al MI AMI c’è un video intenso e meraviglioso, firmato da Claudio Salvietti e Monica Panarelli. L’hai rivisto?
È molto bello. Mi piace che non mi si veda mai dritto in faccia, ma sempre laterale o da dietro. È speciale. Vivo però malissimo il fatto che adesso inizino a girare video, tipo su Instagram. In quei momenti sono nel mio punto più vulnerabile. Mi sto donando agli altri, e viverlo dal vivo è un conto: ciò che succede lì, rimane lì. Ma quando vengono poi colti quei momenti dalle videocamere, dai cellulari... e poi te li ritrovi buttati su Internet… sono stranissimi. È come vedere un'operazione all’intestino messa online.
C’è un forte divario con la verità del momento, eppure è così che fruiamo delle cose oggi.
È un po’ strano questo tempo in cui tutto è condivisibile istantaneamente. Ho visto Inu-Oh (犬王), film giapponese d’animazione musicale di Masaaki Yuasa, che raccontava la storia di un musicista che inizia a suonare per strada e, a un certo punto, diventa un santone. Tutti sono attratti dalla sua musica, si creano folle solo per passare di lì. Diventa un simbolo. Mi ha emozionato molto, perché secondo me è la collettività che sceglie un artista. L’artista può fare mille cose, ma è la gente che ti sceglie.
Possiamo dire che il passaparola oggi sia: “Condivido un reel su Instagram”. Certo: vedere toglie spazio all’immaginazione. Comunicare per immagini, rispetto alle sole parole, anestetizza.
Io sono un grande fan di Evangelion. C’è una scena bellissima in cui disegnano una linea dritta sotto il disegno di Shinji che vaga nel foglio bianco, e dicono: “Zio, ti ho appena regalato una comodità togliendoti una libertà”. Viviamo in un’epoca di infinite comodità ma infinite libertà ci sono state tolte. Ieri pensavo che la libertà di immaginare è stata sostituita dalla facilità di farsi un’idea subito online. Ma così ti togli la possibilità di scoprirlo nella realtà.
Qual è lo spazio dell’artista oggi? La musica si ascolta ancora, ma a livello digitale la si ascolta su Spotify, dentro Instagram o TikTok.
Sono molto interdetto su Spotify e su quello che sta succedendo.
Definiresti la tua musica politica?
Si. Oggi, la più grande rivoluzione è tornare a parlare dei propri sentimenti. Tornare a essere umani. Stiamo perdendo il concetto stesso di realtà, perché abbiamo tutto davanti agli occhi: il genocidio a Gaza, ogni singola tragedia... tutto ci arriva attraverso gli strumenti del potere. Non ti sembra un circolo vizioso? Un gioco in cui ci buttano addosso tutta la merda del mondo mentre noi restiamo fermi, sul letto, a scrollare.
Cosa bisogna fare?
La rivoluzione parte dal singolo, non si fa su Instagram. L’unica risposta possibile per me è costruire un’alternativa reale. Non nell’Internet. Nella realtà. Parlando con la gente. Parte da un comitato cittadino, da un gruppo nel tuo quartiere, da una comunità che decide di cambiare qualcosa. Parte anche da un concerto, da quando Emma mette le persone in cerchio e crea un momento umano. Finché rimarremmo solo su Google e Meta staremo solo arricchendo degli oligarchi.
Sei un artista generazionale?
Sarebbe presuntuoso rispondere. Le volte in cui me lo dicono mi commuovo, e ringrazio. Per me, la musica che ho ascoltato negli anni è stata l’unica cosa che mi ha davvero permesso di alzarmi dal letto. Mi ha educato più della scuola, più dei professori. In un certo senso, vedo che attraverso di me si realizza quello che altri artisti hanno rappresentato per me. Non so come spiegarti. È uno scambio, un dialogo. In realtà, è la gente a darmi un privilegio enorme: mi permettono di essere su un palco, a sudare, a urlare i miei cazzi di pensieri.
Cos’è la musica per te?
Quando sono sul palco, o sotto al palco, o in mezzo alla gente, oppure anche da solo nella mia stanza mentre faccio musica, quello è l’unico momento in cui per me vivere ha senso. L’unico momento in cui non mi faccio tutte le mie domande schizofreniche su cosa è reale e cosa non lo è.
Parliamo delle canzoni di Era l’inizio.
Non so risponderti in maniera razionale, perché il disco ha seguito quello che avevo dentro. Le mie canzoni parlano di me e sono come scrigni. Sono molto legato ai ricordi. Le canzoni custodiscono, anche inconsciamente, i ricordi più importanti della mia vita. Quando scelgo di pubblicarle, significa che ho affrontato un lungo percorso di accettazione. Il 90% della mia produzione artistica non è pubblica. Quindi, ogni brano ha un suo processo unico.
Raccontami qualche episodio.
Per esempio, :Luce* l’ho scritta in cinque minuti prima di prendere l’autobus. Dovevo assolutamente dire quella cosa. Ce l’avevo in gola. L’ho scritta, registrata tutta in una volta, voce compresa. Poi l’ho riprodotta con Ale (Buio), e l’abbiamo fatta crescere.
IL MONDO DEI BACi.
È una canzone che ho scritto su un suo giro di chitarra. Poi l’ho prodotta. Poi è passato un anno in cui non l’ho più riaperta. Perché spesso faccio una cosa, poi la detesto. Perché detesto me stesso, o comunque mi stufo. Sento la mia voce e penso: “No, che merda”. Poi magari la riascolto il giorno dopo e penso che sia la cosa più bella del mondo. Capisci? Per un anno è andata così. Poi, un giorno, è successo che ho vissuto una cosa con una persona – ci siamo dati un bacio – e ho sentito il bisogno di chiudere quella canzone, perché avevo capito cosa volevo dire davvero. E così l’ho finita.
Ancora.
:FINCHÈ NON SEI ARRIVATA tu è nata da una base che avevo fatto campionando un’altra mia traccia, ... !!!Non Sto Meglio!!!!!!. Per un anno l’ho tenuta strumentale, la portavo live, ci improvvisavo sopra, poi sono arrivati i testi. .. . ancora .. è nata solo perché ero a Terni e ho messo un microfono davanti alle casse. Il fischio del feedback mi sembrava una voce. Da lì è partito tutto. È come se io fossi solo un mezzo. Uno strumento. La musica passa attraverso me, ma non mi appartiene. È il mondo che mi attraversa.
I titoli di questo disco sono scritti in maniera bizzarra.
(Ride, ndr) Fa parte di tutto il processo, è parte dell’opera: dall’espressione alla manifestazione dell’idea. Il titolo, per me, è un’intestazione dell’immaginazione. È il primo modo in cui posso comunicare come entrare nel pezzo. Nell’album, alcuni brani hanno i due punti all’inizio. Non è estetica gratis: quelli sono pezzi che, secondo me, racchiudono il cuore del disco. Scrivere Non sto meglio non è come scrivere NON STO MEGLIO!!!!!. Cambia l’energia, l’urgenza, l’ironia, la disperazione. È un’altra cosa. Ragnatela scritta “normale” non comunica come :RAGNATELA, qui voglio già darti una sensazione visiva/tattile.
Mi incuriosisce il metodo con cui scrivi le canzoni. Non sono riuscito a decifrarlo.
Non ho un metodo fisso. Posso partire da un beat, da una melodia, da un testo scritto a cappella. Ogni brano nasce da un bisogno urgente, non da una strategia. Io scrivo nella mia stanza, produco nella mia stanza. Ma non sono mai solo, da solo non ce l’avrei fatta. Le persone passano. Ale Buio è stato fondamentale, mio fratello, il mio specchio. Anche Alessandro Faccianuvola è stato essenziale, non solo per il disco. Non collaboro spesso nei dischi miei perché ho avuto un'urgenza fortissima di raccontare me stesso.
Che Era, Era la fine e Era l’inizio sarebbero stati trilogia: era pianificato?
No, ma quando ho fatto il primo disco, ERA, era come se già vedessi il mio cammino. Dentro di me sapevo che per tre anni non mi sarei mai fermato. Questo terzo disco doveva essere un mixtape elettronico, ma poi ha preso un’altra direzione.
La prima impressione che ho avuto ascoltando il disco è arrivata nel punto in cui parli di tua mamma. Mi è sembrato che lì toccassi quello spazio sospeso fra l’essere stato piccolo e il diventare grande. A metà strada, dove abbandoni sempre qualcosa e non vedi più né l’inizio né la fine.
È così. Con i dischi precedenti ero arrivato a certe consapevolezze; poi, come quando sali un palazzo e arrivi sul tetto, ti resta solo buttarti. Ed è la parte più difficile. Ecco perché questo è il mio disco più lungo. Paradossalmente: prima ho parlato più “in largo” (tutta la vita, tutto me), qui parlo di un momento specifico. Un passo piccolo, ma enorme da compiere. È il disco in cui devo accettare che non sono più piccolo e non sono ancora grande. E che cazzo fai, lì in mezzo? Parla di un momento minuscolo ma decisivo. È un disco di mezzo.
La copertina sembra parlare di questo.
Sei in uno spazio bianco, libero; davanti a te una porta nera (il dopo, l’ignoto), e dall’alto/da dietro arriva il nero che incombe. Sei lì: che fai? In quel labirinto ho incontrato un amore difficile e tutto il resto. Accettare queste canzoni, scriverle, lasciarle andare, farle uscire – tutta quella catarsi – mi ha cambiato. Fare questo disco è stato super educativo. Mi ha reso una persona migliore.
A proposito della tua famiglia: sei nato in Germania, cresciuto a Ruvo di Puglia. Che cosa facevano i tuoi genitori?
Sono nato in Germania – zona Francoforte, più o meno – ma ne ricordo pochissimo. Eravamo lì perché i miei lavoravano: mia madre era nell’area contabile/gestionale (ha anche lavorato in banca in quel periodo), mio padre stava in azienda. Erano giovanissimi. Poi siamo tornati giù, a Ruvo di Puglia, ed è lì che mi sono formato davvero.
In un brano canti della tua adolescenza "passata a non vivere, perché volevo morire".
È stata tosta. Al netto del “mi hanno picchiato in quaranta”, ci sono stati anche momenti in cui, se avessi avuto un coltello, mi sarei fatto male da solo. Periodi bui. A volte volevo smettere di vivere. La musica è stata la mia stanza sicura, la mia cura, la mia salvezza. Mi chiudevo e facevo musica. Quello mi teneva in piedi.
Ho ascoltato i tuoi brani del progetto precedente Aemme: eri un personaggio in cerca d’autore, mai i tuoi testi già mostravano talento esplicito.
Quando è arrivato il primo contratto - per quanto fosse una merda sotto tanti aspetti, mi sentivo spinto a fare cose che non sentivo mie - è stato anche un documento da sbattere sul tavolo coi miei: “Ho un progetto. Lasciatemi andare”. Io volevo scappare da lì, volevo provare a farcela. Milano è diventata la via di fuga.
Che dischi e che artisti hanno influito nella tua formazione musicale?
Io sono cresciuto con ascolti disparati. Quando avevo 19 anni mi chiesero: “Qual è la cosa più importante per te?” Risposi – senza pensarci troppo – “La teatralità”. Avevo ragione: la sento ancora. Sono un fan di artisti che portano teatro nella musica: Stromae, Caparezza. E poi Travis Scott, Skrillex, Aphex Twin. Tutta musica elettronica che mi ha salvato. Mi ha insegnato che puoi esprimerti in mille modi.
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L'articolo EMMA: “La rivoluzione non sarà instagrammabile” di Carlo Pastore è apparso su Rockit.it il 2025-07-23 11:18:00
COMMENTI (1)
Articolo stupendo ❤️