Cosmo - Figli delle stelle

Battisti e Alan Sorrenti, il digiuno (non ha mangiato tre giorni per scrivere quel pezzo) e la religione (o i nuovi modi per intenderla), il cantare in italiano, i campioni e tutto il resto. Marco Bianchi (Cosmo) pubblica il suo primo disco solista. Nur Al Habash l'ha intervistato.

Battisti e Alan Sorrenti, il digiuno (non ha mangiato tre giorni per scrivere quel pezzo) e la religione (o i nuovi modi per intenderla), il cantare in italiano, i campioni e tutto il resto. Marco Bianchi (Cosmo) pubblica il suo primo disco solista. Nur Al Habash l'ha intervistato.

Iniziamo con una domanda classica: perché hai deciso di intraprendere una carriera solista? I Drink to me sono finiti o solo in pausa?
A dire il vero ho iniziato a scrivere per i Drink to me queste canzoni, ma ho capito che ad alcuni di loro non interessavano. Poi però sono stati loro stessi che mi hanno spinto a continuare, mi hanno sostenuto dicendo di non sottovalutarla. Avendo ottenuto subito attenzioni dagli addetti ai lavori ho quindi deciso di dedicarmici per un anno. I Drink to me dunque sono in pausa, ma già abbiamo molte idee per il prossimo disco. Una cosa alla volta. Se no impazzisco.


Il disco inizia con una canzone che è una dedica ad un sacco di gente. Da una parte è una pratica un po' insolita, dall’altra è classica: uno inizia un'opera e comincia dalle dediche, come nei libri. Perché hai sentito il bisogno di puntualizzare chi fossero i destinatari del disco?
Perchè credo di condividere una "visione", un sentire con molte altre persone. A partire dai miei amici, per arrivare a persone lontane che magari nemmeno conosco. Quella dedica è anche un po' a me stesso. È anche incoerente. Ai borghesi affascinanti e a chi vuole distruggere l'impero. Non credo di essere il solo a vivere questa confusione.

"A chi nasconde il suo segreto fino a quando morirà" però sembra fatta apposta per Andreotti!
Sì, me l'hanno fatto notare. Ma in realtà ci sono segreti molto più innocui e poetici di quelli.

Immagino. Tra l'altro, penso che il disco sia estremamente coerente e lucido, ad iniziare dal fatto che canti in italiano per la prima volta. In tanti commentano questo cambiamento delle band dal cantato in inglese a quello in italiano come una mossa strategica di convenienza, una maniera sporca di ‘vincere facile’, invece io credo che sia tipico del nostro tempo. Siamo in crisi, sfiduciati e buttati giù, e c’è bisogno di comunicare bene e in modo semplice, dire le cose come stanno, cercare di riunirsi, di accorciare le distanze, di creare sintonia. Il tuo passaggio con l'italiano com’è avvenuto?
È' stato un esperimento che finalmente ho avuto il coraggio di fare e con cui lentamente ho preso gusto. Durante il tour di "S" dei Drink to me ci siamo resi conto che la musica stava arrivando forte al pubblico, ma ci siamo anche accorti che mancava quello scarto comunicativo che avrebbe permesso di ottenere molto di più da quel disco. Ho iniziato a sperimentare e mi sono accorto che mi piaceva. La dimestichezza con l'italiano per me era tutt'altro che scontata. Mi sono sorpreso da solo insomma. E allo stesso tempo ho cercato uno stile che non mi ricordasse nessuno dei cantanti italiani che conosco. In questo sforzo sono riuscito a trovare me stesso, non mi sono alienato, alterato, venduto o che. Mi sono rispecchiato completamente, assumendomi il rischio di risultare mieloso, naif, stupido, incomprensibile. Eppure credo che l'emozione trapeli dalle parole. Maledette parole.

Io direi che ci sei riuscito appieno. Trovo che il tuo modo di scrivere sia fantastico: è narrativo, c’è una storia da seguire, un filo logico. Ma è anche poetico, con un sacco di immagini incollate assieme: delle foglie sparse dal vento che si fermano su una parete adesiva e rimangono lì, in un quadro casuale ma bellissimo. Com’è avvenuto il processo di scrittura dei testi, considerando appunto la novità dell'italiano?
La genesi è stata abbastanza caotica, ma la priorità l'ho sempre data alla musica. Per prima cosa partivo da successioni di campioni, tappeti di suono, pattern ritmici che mi esaltavano. Poi mi venivano in mente linee melodiche che spesso improvvisavo in inglese. Quasi subito però ero colpito da immagini, visioni che davano lo spunto per tutto il resto. Non di rado ascoltavo in loop la prima bozza di una strofa o un ritornello e piangevo. Sì. Se iniziavo a piangere era un ottimo segno. E come un surfista cavalcavo l'onda. Sfruttavo l'energia. Insomma le parole arrivavano alla fine. È la musica il principale artefice di tutto. È una cosa che sostengo da sempre: io sono un musicista, non un poeta. La musicalità di un cantato deve funzionare sia in italiano che in inglese. Se mi piace allora mi arrivano anche le parole. Quasi mai ho adattato il cantato a delle parole scritte prima. E se l'ho fatto era perché quelle parole appartenevano già alla canzone, senza che io lo sapessi.

Se lo si legge per bene, è un disco con un sacco di azioni. Sembra una lunga carrellata di avventure rischiose, strane, e dolci. È come il trailer di uno di quei film in cui in trenta secondi il protagonista sfugge a un’esplosione, limona una tipa e cade dal trentesimo piano di un grattacielo. Poi si sveglia e capisce tutto. È una botta di energia notevole. Ci sono un sacco di frasi e verbi che esortano ad una ripresa, a spingere tutto, a farcela. Da dove viene questa forza?
Non lo so. Da tempo sono convinto che la bellezza e il mistero non siano un'esclusiva della religione. E non è un misticismo di ritorno. È una scelta, un impegno, ma anche la cosa più spontanea di tutte: cercare la bellezza, la felicità. Questo significa anche sporcarsi le mani, perdere la dignità, esplorare stati d'animo e di coscienza completamente fuori di testa. Già in “Future Days” dei Drink to me lo affermo (e lo penso ancora da prima): la vita è un esperimento. Salti, cadi, ti fai male. E benedici quelle ferite. Finchè si è vivi bisogna divorare tutto. Costruirsi. Distruggersi. Ricostruire. Moriremo tutti e di noi non resterà nulla. Ci penso sempre.

In effetti nel disco c’è l’impressione di un caos enorme (un disordine, appunto), una caduta, una morte, e poi una rinascita. La soluzione a questo casino quindi è buttarsi, provare tutto?
Semplicemente credo che il caos sia da assecondare. Non se ne esce vincitori, non si esce "autentici", non si rinasce una volta per tutte. È la morte organica che risolverà tutto. Ma io voglio vivere, e dentro a questa vita ogni slancio, ogni guizzo di energia vale l'immortalità.

È vero che hai scritto "Digiuno" dopo tre giorni di serio digiuno?
Sì. Ho iniziato il 2013 digiunando tre giorni. Volevo capire cosa si provasse.

Nemmeno un po’ d’acqua?
Ma sì certo acqua e the, a volte un succo di frutta.

E dunque, cosa si prova?
All'inizio credi di non farcela e al primo languorino pensi: "Come farò a resistere se già ho fame?". Poi scopri che l'appetito è uno stimolo che passa. Riesci a farne a meno. Per certi versi sei più concentrato sul lavoro che devi fare. Poi arriva una strana tensione. La sera del terzo giorno le gambe cedevano e mi sono un po' spaventato. Ma è stata una bella esperienza. Siamo abituati a mangiare sempre, a scadenza più o meno regolare. Ma in natura non è scontato. E il nostro corpo lo può reggere. Mi sono sentito più forte, dopo il digiuno.

D'altronde è una pratica raccomandata in qualsiasi religione, credo
Infatti. Voglio ripeterlo e lo consiglio a chiunque. Bisogna inventarsi rituali nuovi, secondo me. Anche questo fa parte della bellezza e della creatività.

C’è scritto dappertutto che la tua musica è un incrocio tra Lucio Battisti e gli Animal Collective, Jovanotti e Gold Panda. L’influenza di Battisti è molto trasparente, d'altronde hai iniziato suonando sue cover. In certe aperture stellari, a fronte distesa e synth spalmati io ci ho ritrovato molto anche Alan Sorrenti. Questo mix di influenze, che poi forse era quello che la musica italiana aspettava da molto tempo, è qualcosa che hai deciso di creare a tavolino?
La mia ricerca musicale mi ha portato spontaneamente a questo risultato. Ho seguito le mie manie (l'uso spropositato di campioni, synth a tappeto e ritmiche black in senso lato) ma semplicemente cantando in italiano. Sì, sono convinto che alla musica italiana, anzi in italiano, mancasse questo link. Ma ci stamo arrivando. Io sono semplicemente uno degli "importatori" di questo sound.

Questo ‘slogan’ del “cantautore del futuro anteriore” è geniale, a chi è venuto in mente?
Emiliano Colasanti (di 42 Records, l'etichetta che ha pubblicato il disco, NdR). Piace tanto anche a me.

Sotto questi testi e tutta questa italianità però c’è anche e soprattutto un tappeto fitto e infinito di campionamenti. Da dove è nato questo interesse e quali campioni hai usato per l’album?
Sono affascinato dai campioni. Credo che nella fase storica in cui siamo il campionamento sia una pratica musicale molto significativa, culturalmente pregna. Abbiamo a disposizione un secolo di suoni. E questi suoni, con i loro timbri unici, diventano frammenti di cultura e storia che io posso usare dentro ad una canzone. Fantasmi che infestano le mie canzoni. Nel disco ho inserito brandelli di Beach Boys, Genesis, Perotinus, Marvin Gaye, Piero Umiliani, Abba...

Partecipare al Concerto del Primo Maggio invece com'è stato? Come esperienza estrema mi sa che è simile al digiuno.
Sì! Strani giorni. Sono stato a Roma dalla sera del 27 fino al concerto. Prove in studio in cui Colapesce, Appino ed io dovevamo aspettare magari cinque o sei ore prima che toccasse a noi.

In effetti, non ho ancora capito perché hanno chiamato voi tre solo per eseguire una cover. Non è un po' strano?
Siamo stati inseriti nell'orchestra di Cosma. Vittorio voleva creare un ensemble in cui tutte le compagini musicali italiane fossero rappresentate. Noi tre dovevamo rappresentare i giovani indipendenti. Lì dentro c'erano da Poggipollini a Boosta, da noi a Zampaglione. Insomma voleva essere un ensemble che rappressentasse la musica italiana. Da un lato è bello che siamo stati inclusi, dall'altro si ha sempre un po' l'impressione che "giovane indipendente" sia un'etichetta che serve per ostracizzare, per metterti in un angolo in qualche modo. Come diceva Appino: "Non sono giovane indipendente. Io faccio musica italiana. Punto". Detto questo è stata un'esperienza formativa, non sono per nulla pentito.

Qualche aneddoto dalla giornata?
Be’ Enzo Avitabile che quasi mette le mani addosso a Capossela prima che questo salga sul palco. La produzione aveva deciso di tagliare la parte in cui doveva cantare Avitabile dopo che Capossela aveva minacciato di andarsene. L'organizzazione è stata pessima comunque.

Tu che hai partecipato e hai visto come funziona dall’interno, pensi abbia ancora senso una manifestazione del genere? Perché chiunque da fuori pensa di no, ma si continua a guardarla solamente per il gusto dell'orrido. C'è una speranza di redenzione?
No, dico che è moribonda e non so se ci sono grandi speranze.

È vero che nelle prossime date avrai sul palco ballerine e spara coriandoli?
Sì. Ci saranno anche i visual, ma purtroppo al MI AMI (Cosmo suonerà domenica 9, NdR) pare non siano gradite o non ci siano spazio per metterle Stiamo lavorando sodo alle coreografie e a tutto il resto. Un delirio. Facevo prima a fare la band. Il primo che scassa le palle e dice che è facile fare un live coi campionatori lo ammazzo!

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L'articolo Cosmo - Figli delle stelle di Nur Al Habash è apparso su Rockit.it il 2013-05-13 15:12:23

COMMENTI (1)

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  • ilpasta 11 anni fa Rispondi

    "si ha sempre un po' l'impressione che "giovane indipendente" sia un'etichetta che serve per ostracizzare, per metterti in un angolo in qualche modo."

    SANTE PAROLE.

    - la band visionaria e surreale
    - il musicista strampalato
    - e tanti altri..

    una serie di segnali d'allarme che dissuaderebbero la casalinga di voghera più volonterosa.