Foxhound - Per il sud, il Mediterraneo e l'Africa

La voglia di natura, l'entusiasmo per il viaggio, l'amore per il sud: a 21 anni i Foxhound pubblicano un disco, "In Primavera", che riesce a suonare allo stesso tempo eclettico e vitale.

i Foxhound
i Foxhound

La voglia di natura, l'entusiasmo per il viaggio, l'amore per il sud, il Mediterraneo e l'Africa: a 21 anni i Foxhound pubblicano un disco, "In Primavera", che riesce a suonare allo stesso tempo eclettico e vitale. Nur Al Habash li ha incontrati prima del loro mini-live da Gattò, tra lucine e birrette.

Avevamo già fatto quattro chiacchiere a riguardo, ma raccontateci brevemente la storia del "disco registrato sull’albero", ovvero "In Primavera".
Questa estate ci siamo rinchiusi una settimana e mezzo in una casa vicino a Brescia di alcuni nostri amici, i 4 Axid Butchers. È un posto che abbiamo scoperto durante una serie di concerti, perché una volta ci siamo fermati a dormire lì e ci siamo innamorati del posto, innanzitutto perché è completamente immerso nel verde. Sembra di stare in cima a un albero perché quando ci si sveglia si vede tutta la pianura Padana.

Quindi la storia del disco registrato in cima ad un albero era una balla!
Diciamo che "in cima all’albero" era una metafora! Svegliandosi sembrava davvero di essere in cima ad una enorme quercia, una cosa alla Miyazaki. Ci siamo quindi rinchiusi lì nel verde e questo ritiro ha influito molto sulle atmosfere e le canzoni.

In questa specie di cascina c'era già uno studio o l'avete allestito voi?
È più una comune, c'erano già delle stanze allestite, delle sale prove, una piscina. Anche gli Aucan sono andati a registrare lì.  

La vostra giornata tipo?
Sveglia a mezzogiorno, mangiare, suonare fino alle nove, mangiare di nuovo, suonare fino alle cinque del mattino e poi dormire. In effetti abbiamo dormito pochissimo.

Organizzavate anche qualche festa?
Qualche grigliata per noi, comunque siamo andati lì con l’intento di chiudere il disco. Abbiamo registrato circa 15 pezzi che in gran parte avevamo scritto già prima. Dobbiamo dire che eravamo delle macchine, completamente concentrati sulla musica. Anche l’impostazione è stata diversa rispetto al passato: per il primo disco avevamo fatto qualcosa di simile, ma ci eravamo portati anche il “barattolone” con un botto d’erba, il whisky e queste cose qui. Per "In Primavera" abbiamo acquisito più consapevolezza riguardo la metodologia di lavoro, siamo stati molto più concentrati sull’obiettivo, molto più produttivi. Non che non abbiamo bevuto, fumato e tutto il resto.

Molte band quest'anno hanno usato lo stesso metodo: staccarsi dalla tecnologia e andarsene in campagna per non essere bombardati dai social network. Avete 21 anni, quindi siete nati e cresciuti con internet. Non credete che sia possibile nel 2014 fare un disco in città, con tutto ciò che ci sta intorno?
È super possibile, semplicemente noi avevamo bisogno d’altro. Ci siamo accorti che qualunque cosa facessimo, in qualunque stato, in qualunque momento, eravamo reperibili. Lì non c’era campo, niente internet, televisione, radio, nulla, avevamo bisogno di prendere un po’ di tempo per noi stessi. Ci siamo detti spesso che non era una questione di fare i guru freak, era proprio un'esigenza nostra. Non era una questione di ideologie, non siamo anti-internet, Facebook può essere utile se usato in maniere intelligente. Insomma, non era un’esperienza tipo “basta tecnologia”.

Il disco è estremamente diverso dal vostro debutto “Concordia”. Immagino sia dovuto anche al fatto che voi siate cresciuti come persone e come musicisti. In cosa siete migliorati?
Il disco parla da sé, basta ascoltarlo per rendersi conto. Per “Concordia” ci siamo tuffati in un mondo che non conoscevamo minimamente, quello della musica: abbiamo suonato in negozi, oratori, centri sociali, terrazze. È stato un esordio molto buono, ma un po’ trattenuto. Questa volta siamo andati avanti senza freni a consolidare il nostro suono, andando meno a perderci nelle "macrominchiate" e nei dettagli minimi. Siamo stati più focalizzati verso l’obiettivo, allo stesso tempo ci siamo lasciati andare di più. Penso che la tavolozza delle influenze emerga molto. Abbiamo dilatato gli spazi, prima suonavamo in una stanza piccola con pochi colori, ripetendo sempre lo stesso schema. Per questo disco invece gli elementi fondamentali sono stati il riverbero, la dub, il dilatare gli spazi e fregarcene completamente delle strutture: siamo andati da pezzi da cinque, sei minuti che cambiano continuamente ai pezzi da due minuti in cui si ripete lo stesso schema. Stavolta non ci siamo fermati davanti a niente, mentre per "Concordia" avevamo un po' paura di quel che dovevamo fare.

Volevo parlare infatti proprio di questo: dentro "In Primavera" ci sono pezzi con influenze dub, altri molto sperimentali, in un sacco di pezzi c’è il sax, uno strumento che non siamo abituati a sentire in questo tipo di musica. Da dove vengono tutte queste influenze? 
È musica che noi abbiamo sempre ascoltato, semplicemente ora è uscita fuori. Il nostro lato nero, quello della musica black, l'afrobeat, il dub, il reggae lo abbiamo sempre considerato.

Quindi non siete tra gli "indierocker" che ripetono il ritornello del "il reggae mi fa schifo"
Ma manco per il cazzo! (ridono). Se mi metti davanti un disco dei Joy Division e uno di Bob Marley, tre anni fa avrei scelto il primo, ora invece lo butterei dalla finestra. Insomma sono cose che abbiamo quasi sempre ascoltato, ma adesso sono veramente entrate nella nostra composizione. Il sax e i violini li abbiamo usati perché volevamo fare un passo in avanti. Sono opera di Davide Rossi, un violinista molto bravo che ha lavorato con Goldfrapp, Coldplay, Alicia Keys, che ha diretto l’orchestra di Sanremo. Siamo entrati in contatto con lui perché suonava nei Mau Mau; noi siamo di Torino, lo abbiamo conosciuto, era interessato alla cosa e si è preso bene, ha fatto degli ottimi arrangiamenti e il risultato è che abbiamo tenuto solo lui. Questi arrangiamenti erano talmente belli che li abbiamo valorizzati anche a discapito di basso, batteria e altre parti che avevamo.

Quindi tutte queste influenze sono cose che avete sempre ascoltato in passato e stavolta vi siete sentiti liberi di integrarle.
Andiamo spesso andati a serate dub. Mentre prima ci sentivamo legati al nostro ambiente torinese, con l’ondata indie rock/new wave, post punk, questa volta ci siamo detti che quella roba ormai l'avevamo fatta, ci eravamo stancati, volevamo suonare qualcosa che fosse del sud, più Africa, più Mediterraneo.

Siete entrati nella comune dell'albero con questa idea di sud?
Sì, siamo andati nella natura per sentirci in Africa. Ovviamente è una similitudine che lascia il tempo che trova, ma anche se non eravamo lì, la nostra mente andava a quei paesaggi là: cieli enormi e aperti.

Di fatti ci sono delle influenze molto "etniche" e mi ricordo quando mesi fa avete fatto uscire il singolo “Dejeja”, molto sperimentale e cantato in arabo. Perché non lo avete inserito?
Non lo abbiamo inserito innanzitutto perché ci piace fare dei lavori coesi, quindi già la lingua araba usciva da questo concetto: o fai un disco poliglotta, oppure non c'entra niente. Poi anche perché quel pezzo rappresentava il ponte fra “Concordia” e “In Primavera”. C’è il dub che è il nostro nuovo elemento, ma sotto ha una base ritmica che rimaneva ancora legata alla new wave.

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Voi siete mai stati in Africa?
No, magari! Proprio per quello vorremmo essere là, non ci siamo mai stati. Non siamo mai usciti dall’Europa, tranne due volte: in America e Nuova Zelanda. Però quello è un mondo culturale che ci interessa molto, soprattutto per la musica perché un nero che suona un basso o una batteria, ce l’ha nel sangue, si sente che è un’altra cosa, è l’espressione del posto in cui vivono loro.

Ricordo questa storia molto bella su di voi: eravate in un bar torinese a suonare, e una volta partita “Dejeja” i ragazzi stranieri che erano per strada sono entrati e si sono presi bene, e hanno iniziato a cantare con voi. Forse questo vostro interesse dipende anche dal fatto che a Torino c’è una forte comunità straniera?
Sì, sicuramente. Tra l’altro quel locale lì a Torino è a Porta Palazzo, che è il mercato più grande d’Europa e proprio per questo ha una percentuale di stranieri molto elevata, a noi piace molto. Se vuoi un attimo "staccare" dall’occidente, ti basta andare lì.

Ci sono serate in cui questi ragazzi stranieri propongono la loro musica? Questa è una cosa che mi sono sempre chiesta: l'Italia è piena di stranieri ma quasi mai riescono a tirare fuori la loro cultura e a mischiarla con la nostra, soprattutto dal punto di vista musicale.
Sì a Torino ce ne sono un sacco, ci sono serate jamaicane o dub, roba brasiliana. Poi una è cosa che funziona tanto perché alcuni centri sociali come l'Askatasuna o il Gabrio sono molti aperti a questo tipo di musica, e quindi attirano anche molte persone non-occidentali. È una cosa molto bella di Torino, se hai voglia riesci a sentirti davvero in un altro posto.

Siete molto giovani e si può dire siate appena partiti: avete un obiettivo a cui puntate, un festival, un palco in particolare dove vi piacerebbe suonare?
Quello che vorremmo fare sono dei tour veri, ovvero suonare un mese e mezzo non-stop. Non ci interessa dove suonare, ma vorremmo suonare tanto. Non abbiamo l’idea di un punto di arrivo perché nella musica non c’è mai, non si smette mai di studiare ed imparare. La cosa che ci interessa più di tutte è fare musica che abbia tanta richiesta dal pubblico, avere la possibilità di suonare tanto, magari anche fuori dall’Italia. Adesso sta prendendo corpo il tour estivo; abbiamo preso un ufficio stampa estero e il disco girerà anche nel resto d'Europa ed abbiamo in programma di chiudere delle date fuori per il prossimo inverno. Finora suonare qui è stato un po' difficile, se canti in inglese in Italia sei fottuto.

In arabo, poi!
(ridono) Eh, figurati!

Abbiamo parlato delle tante influenze africane, ma la copertina sa di una cosa un po’ spaziale.
Infatti c’entra anche lo spazio: di fianco al dub e l’afrobeat c’è comunque una presenza occidentale che non si può negare. Tutta quella scena che va dai Tame Impala, ai Django Django, agli Animal Collective, noi la definiamo “psichedelia controllata”: qualcosa che vaga nello spazio ma che con la mente poi sa che tornerà sulla terra. La copertina in particolare l'ha realizzata Francesco dei Drink To Me che l'ha definita "hippister", a metà tra hippy e hipster. Mette in luce anche una componente mistica per certi versi, molto controllata. L’esagono starebbe a rappresentare una forza, un'energia, un qualcosa di astratto che si ammira nella contemplazione. È un disco che verte anche molto sulla solitudine e la malinconia, e ci piace così.
 

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L'articolo Foxhound - Per il sud, il Mediterraneo e l'Africa di Nur Al Habash è apparso su Rockit.it il 2014-03-26 00:00:00

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