Giorgio Poi: "Le nostre vite esplodono, io ho deciso di lasciarle fare"

E proprio di questi brandelli è composto "Schegge", il nuovo disco - forse il più bello - del cantautore romano, fatto da solo in casa dopo un periodo molto doloroso, con l'orecchio di Branco dei Phoenix come aiuto. Sabato 24/5 lo porterà a MI AMI: l'intervista del direttore artistico Carlo Pastore

Giorgio Poi - tutte le foto sono di Ilaria Magliocchetti Lombi
Giorgio Poi - tutte le foto sono di Ilaria Magliocchetti Lombi

Ci ho pensato a lungo, ma infine sono tornato alla primissima impressione: Schegge di Giorgio Poi è un disco di Giorgio Poi. Il più bello, forse? In assoluto è un complimento. Elegante, peculiare come il timbro della sua voce, irrorato da una strana forma di malinconia che lo rende sempre un po’ avulso dal presente, dalle mode, persino dall’ironia con cui è sano affrontarle.

Dopo le esperienze a Londra con i Vadoinmessico e a Berlino con i Cairobi, ha debuttato come solista nel 2017 facendo base in Italia. Ma sempre con lo sguardo squintato, un cappellino poggiato sulla testa, gli occhiali fumè. Sempre un po’ lontano: altrove, qui (come spesso ci è capitato di dire per descrivere la nuova venue del MI AMI 2025, dove Giorgio si esibirà sabato 24 maggio). 

Provare a sviscerarlo è quasi controproducente. Va cantato e lasciato libero, sempre inseguito e mai acciuffato. Giorgio canta per essere, non per esporsi. La musica per lui è un gesto quotidiano, un atto inevitabile. Scrive musica per vivere, non sembra vivere per avere cose di cui scrivere. Sono piuttosto le cose a capitare nelle sue canzoni, ed è suo compito farle risuonare.

Penso a “Giro con il dito sullo scotch”, la frase che apre Giochi di gambe, l’ultima canzone scritta per Schegge; meraviglioso, frizzante, ciondolato secondo singolo. “Stavo cercando il punto in cui aprire lo scotch, sai quando giri e rigiri e non riesci a trovarlo”, mi spiega in un affusolato pomeriggio. “C'avevo perso 10 minuti. Non lo trovavo, non c'era più. Ecco non c’era molto da aggiungere, se non che alla fine quel gesto è diventato una metafora: trovare il bandolo della matassa”.

Vestito con una polo “color giallo isabella” (sua definizione), lo incontro in un giardino tra i palazzi di zona Udine, Milano. In un bel pomeriggio primaverile decidiamo di sederci all’esterno, di fronte ad una palestra che suda un devastante sound a 180bpm interrotto sovente da motori Euro 4 per niente educati. “Siamo i fiori sui vulcani, i cinema nei centri commerciali”, canta.

Qual è l’ultima e quale la prima canzone che hai scritto per questo disco?

Giochi di gambe è l’ultima. Un aggettivo, un verbo, una parola è la prima.

Di che cosa parla Schegge?

Non scelgo mai una tematica a tavolino. A volte alcune frasi si completano pur essendo completamente slegate fra di loro. Prendono un senso corale, collettivo. C’è mio padre che è mancato. C’è un amore finito ma anche una storia d’amore successiva. 

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È il tuo disco più autobiografico?

Mai in maniera esplicita. Se mi conosci, riconosci quello che è successo. Però non so se voglio parlare così tanto della mia vita privata. Non vorrei presentare questo disco con la semplificazione della rinascita: ho sofferto tanto e adesso sto meglio. Ho paura che possa sembrare un atto un po' retorico. 

Lo scrivi tu stesso: “È mio padre che dice che mi protegge”.

Il pezzo prosegue dicendo “Di questa esplosione siamo le schegge”: significa che qualcosa si è rotto, e le schegge - i detriti, o anche quello che ti colpisce - siamo anche noi. Le nostre vite esplodono e io ho deciso di lasciarle fare. La consapevolezza oggi è che è inutile cercare di tenere questi fili legati. In passato ho cercato metaforicamente di controllare quello che facessi. Questo non è possibile a livello psicologico. I capisaldi a cui ero aggrappato sono scomparsi nell’arco di pochi mesi. E' successo tutto assieme, come un’esplosione appunto. 

Tra le cose che hai cambiato: la città in cui vivi. Da Bologna, dopo anni all’estero fra Londra e Berlino, sei tornato a Roma.

Questo è il mio primo disco interamente romano. Sono contento di essere tornato dopo 17 anni proprio nel quartiere dove sono cresciuto dagli 8 ai 20 anni. 

Che tipo di ragazzo eri?

Molto estroverso, esuberante, da bimbo. Poi alle medie mi sono molto chiuso, ero diventato schivo e insicuro. Quando ho cominciato a suonare in terza media è come se avessi trovato un'identità. Quindi ho acquisito via via sempre più sicurezza. E poi negli anni del liceo c'era un equilibrio fra questi due lati di me che coesistono ancora in realtà.

Dove hai registrato il disco?

Ho fatto lo studio in casa, registrato tutto lì. Ho scritto e prodotto tutto io. Ho suonato tutti gli strumenti. Sulla batteria - una Sonor degli anni 60 che avevo comprato a Berlino - ho messo un Big Fat Snare per attutire il rullo. Ho usato una Stratocaster del 1972 e un Precision Bass della Fender. C’è anche dell’elettronica: il Moog e il Korg MS-20.

Tutto da solo.

Branco dei Phoenix mi ha aiutato, come supervisore. Gli giravo le cose che facevo e con il suo orecchio fine e molto sensibile era in grado di darmi consigli che ho cercato di seguire. Mi diceva: “lavora su questa parte” oppure “rimani dove stavi”.

Il contrario delle canzoni con lo squadrone di autori.

A volte ho partecipato a sessioni di scrittura collettive. Non è facile entrare in quel modo di ragionare che ti permette di esprimerti in maniera universale, andando bene per tutti. Sei costretto a rimanere sempre un po' vago mentre invece penso che la grandezza di una canzone sia proprio nella sua precisione chirurgica. 

A proposito di cose specifiche: mi sembra ci siano meno elementi dell’iper-quotidiano a te cari (ad esempio il supermercato) e più concetti. Penso aUomini contro insetti.

È uno scritto di Bertrand Russell dentro Elogio dell'ozio di cui mi era piaciuto moltissimo titolo e concetto. L'uomo ha imparato a prevaricare la Terra ma non può controllare l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo. Non possiamo proteggerci da un meteorite o da un virus che si insinua invisibile nei nostri corpi. 

Lì tornano le esplosioni, le bombe nucleari.

Il tema è ambientale. Il modo in cui trattiamo il mondo in cui viviamo. L’idea di turismo, non più sostenibile perché abbiamo ripensato le città intorno alla figura di chi passa e non di chi ci abita. Il sistema economico. Come abbiamo costruito le nostre vite. Personalmente non sento l'esigenza di andare in vacanza, mi annoio e voglio tornare a fare quello che mi piace fare. Non voglio pontificare su niente anche perché non sono un esperto di questi temi. Semplicemente esprimo le mie impressioni.

Non ti sei ancora annoiato di fare i dischi?

No. Anzi mi sembra di aver ritrovato un rapporto davvero intimo con la musica. 

Ti ho sempre pensato come un musicista più che un paroliere, però in Schegge hai scritto le tue lyrics migliori. Parti da una frase musicale che ti ispira un’immagine o il contrario? 

All’inizio farfuglio cose. Cerco la melodia. A volte escono suoni dalle parole. Ho il telefono pieno di appunti e di frasi. Pensieri. Possono stare anni lì poi magari trovano il loro posto.

Che cos'è che riesce ad accendere il tuo interesse tanto da farti scrivere qualcosa sul telefono? 

Dentro le canzoni metto miei ragionamenti, mie percezioni. Per esempio in Non c'è vita sopra i 3000 Kelvin ho scritto che non mi piacciono le luci bianche, molto banalmente. Mi affascina il linguaggio tecnico, è una metafora da elettricista. 

Schegge è anche un titolo letterario, penso a Bret Easton Ellis. Mai pensato di scrivere un romanzo?

No in realtà. Sono tanti anni che voglio scrivere e scrivo canzoni. Sto perfezionando questo. Sarebbe un po' un ripartire da zero. Ora avevo proprio voglia di fare un disco, di suonare in giro.

Quando hai sentito che il disco era pronto, chiuso?

Io i dischi li ho sempre finiti all'improvviso. Quando sono andato in tour in Cina e poi in viaggio in Giappone, avevo il giorno prima chiuso Giochi di gambe. L’ho caricata su Soundcloud e mandata a Bomba specificando che non l’avessi ancora riascoltata, sentendola calda. Dopo il lungo tragitto, arrivato di là, l’ho riascoltata e ho pensato “mi piace”. Li ho capito che il disco era finito. Se cosi non fosse stato avrei ancora avuto da lavorare e avrei potuto metterci anche mesi, e il disco non sarebbe mai uscito a maggio.

Senti la pressione del ritorno, dei risultati?

Io non credo veramente al fatto che se ci si assenta per un po' di tempo poi dopo le persone si dimenticano di te. Mi sembra anche che ci siano diversi casi che dimostrano che non è così. Quella pressione lì non la sento affatto. Poi dipende uno con cosa torna, ovviamente.

Che cos'è la bellezza per Giorgio Poi?

È una domanda molto difficile questa. Io penso che siano dei momenti microscopici in cui tu stai camminando per strada e improvvisamente l'aria ha un odore diverso. Ha una temperatura diversa. Ti giri e c'è una luce bellissima. Guardi in alto c'è la luna. E per un secondo senti un equilibrio che è inscalfibile. Quel momento lì di perfezione forse è quello che io ritengo bello.

Fra poco parte il tour: chi hai in band?

Sempre noi. Matteo Domenichelli al basso, Franz Aprili alla batteria, Benjamin Ventura alle tastiere, che però sarà anche in tour con Marco Mengoni e quindi ci sarà un sostituto molto bravo che ha imparato alla perfezione 18 pezzi in due giorni. 

Se ti dico “Il Veleno e la Cura”, che cosa ti viene in mente?

Quando succedono tutte le cose che più ti spaventano nella vita e puoi però trovare la tua pace. Non hai più paura. Ormai posso accettare qualunque cosa. Questo mi dà un senso di calma.

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L'articolo Giorgio Poi: "Le nostre vite esplodono, io ho deciso di lasciarle fare" di Carlo Pastore è apparso su Rockit.it il 2025-05-06 10:32:00

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