HĒIR, meno follower e più femminismo

La sua è una biografia straordinaria: russa di origine, cresce a Napoli, diventa una super influencer di moda. Ma non smette mai di cantare e ora pubblica "Daddy Issues", con St. Vincent nel cuore

HĒIR, foto Matt Joi
HĒIR, foto Matt Joi

HĒIR è una ragazza italo-russa, di origine indiane, ma napoletana di adozione, canta in inglese e vive a Londra. Conosciuta col nome di Patricia Manfield, a sua volta un nickname che "inglesizza" il suo cognome russo, si è costruita una certa notorietà diventando una delle più quotate “influencer” nell’ambito fashion. Parallelamente a questo percorso, ha sempre coltivato la passione per la musica – i genitori sono entrambi musicisti classici – sino a trovare il coraggio per pubblicare il suo primo Ep, Daddy Issues, un lavoro interessante, che ricorda da vicino Lana Del Rey e St.Vincent, rielaborate in una chiave elettronica e cosmopolita. 

Ci racconti la tua storia?

I miei sono musicisti di musica classica, a causa del loro lavoro ho iniziato a girare il mondo da quando sono nata. In qualsiasi posto andassimo m’iscrivevamo alla scuola internazionale, motivo per il quale scrivo ancora le mie canzoni in inglese. Quando si sono separati, mia madre si è innamorata di un bel napoletano: ero ancora una bambina, mi sono trasferita con lei in Italia. Napoli è la mia città. La mia prima vera casa, dove ho iniziato a frequentare una scuola normale, dove ho conosciuto i miei primi amici fissi. Molta gente, guardandomi, mi dice che ho dei tratti partenopei: è divertente, Napoli ormai fa parte della mia persona, pur provenendo da tutt’altra parte.

Ti sei avvicinata alla musica per volere dei tuoi genitori?

Volevo far musica sin da bambina, mi svegliavo con mamma che suonava il flauto in bagno e papà che componeva sinfonie in cucina. Insomma, sono stata molto influenzata, ma in realtà non mi hanno mai spronato a fare musica. Non perché non volessero, ma si preoccupavano del mio futuro, la ritenevano una carriera troppo labile, così mi hanno indirizzato verso un percorso più canonico: liceo classico, Giurisprudenza all’università.

Il tuo ruolo da influencer ti ha aiutato nella musica, o al contrario è stato fonte di pregiudizi?

Mi sono trasferita a Milano per l’università, ho iniziato a lavorare nella moda per caso. Il mio primo obiettivo però era la laurea, inizialmente, ho preso l’ambito fashion come un passatempo. In ugual modo la musica era un hobby, ogni fine settimana mi dedicavo alla composizione di una cover o un mash-up, registravo dei piccoli video col cellulare. Il mio fidanzato dell’epoca mi consigliò di pubblicarli, in fondo, condividevo tutti sui social. Insomma, il mio pubblico è sempre stato abituato a questa mia anima, anzi, mi ha spronato a gettarmi in questo progetto. Da parte loro ho ricevuto solo feedback positivi. A livello lavorativo, invece, ho preso molte porte in faccia. Non biasimo nessuno, credo sia una reazione naturale. Io stessa per riconoscere un talento ho bisogno di molto contenuto. Partire con un seguito del genere poteva, anzi doveva, inevitabilmente suscitare qualche dubbio. È un’arma a doppio taglio, pur essendo un ottimo punto di partenza, ho dovuto faticare il doppio per provare che ci fosse qualcosa oltre l’apparenza.

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Quindi i tuoi pubblici coincidono?

Ci sono artisti che hanno migliaia di follower, ma non riescono a riempire un locale. Inversamente, autori con duemila follower e milioni di ascolti... I numeri vogliono dire un po’ tutto e un po’ niente. Il mio pubblico mi ha sempre sostenuto, è estremamente supportive, ma Spotify e Instagram non collimano alla perfezione. Ad esempio, quando ho deciso di intraprendere questo percorso, sui social ho abbandonato il mio vero nome per adottare questo moniker artistico, un passaggio che ha segnato una gran perdita di follower. Del resto cosa dovevo fare? Il pubblico che mi ha scoperto su Spotify non conosceva Patricia, non conosceva “l’influencer”, e di conseguenza mi giudicava esclusivamente per le mie canzoni, senza pregiudizi.

Sei contenta se la gente ti ascolta perché ti conosce via social?

Sarei più felice se decidessero di seguirmi perché apprezzano sinceramente la mia musica. Ci sono youtuber che finiscono nella classifica di Billboard con canzoni che vorrebbero essere delle parodie delle canzoni rap. Non è una dinamica che apprezzo: sfruttare la propria visibilità per proporre “arte”. Ciò detto, non posso negarlo, partire con questo seguito è comunque un privilegio grandissimo.

Se dovessi limitarmi a descriverti con due riferimenti citerei Lana Del Rey e St. Vincent, ma ho notato svariate influenze nel tuo primo album. Dall’r’n’b al dream pop: a chi ti ispiri, cosa ascolti?

Lana Del Rey mi piace tantissimo, St Vincent è veramente una delle mie artiste preferite. Mi fa molto piacere, però io scrivo canzoni che, tendenzialmente, sono l’opposto di quello che ascolto. La mia band del cuore sono i Nirvana. Poi ascolto James Blake, Bon Iver, roba molto differente. Credo che le mie influenze siano dovute alla mia passione per gli anni 90, passione che hai notato nell’utilizzo di diversi stilemi r’n’b. Sogno un grande ritorno degli anni 90, il termine pop negli ultimi anni ha assunto una connotazione negativa. Odio tutto quello che passano in radio, le canzoni ormai sono tutte uguali.

In diverse tracce (in particolare Soundtrack) tratti temi sociali. Il femminismo di oggi quanto è serio, e quanto rischia di essere moda?

Ho molti amici maschi, sono temi che affrontiamo spesso. Credo che il femminismo negli ultimi anni sia stato un po’ decontestualizzato. È un movimento politico e sociale nato per lottare per la parità di genere, non penso s’identifichi naturalmente in questo orgoglio “d’essere tutte donne e andare conto i maschi a tutti i costi”. Ci sono molte sfumature. È come se Instagram avesse convogliato questo movimento verso un’estetica soft porn. È un discorso complesso che deve comprendere ogni forma di libertà, qualsiasi donna dovrebbe aver la possibilità di far quel che vuole, ma non possiamo chiamare tutto femminismo. Nei miei testi il femminismo fa capolino a causa dei rapporti difficili che si sono instaurati con mio padre. Ho recuperato con il nuovo compagno di mia madre. Credo di essere diventata femminista perché la mia vita mi ha costretto a crescere molto in fretta; in molte donne, in realtà, questo sentimento manca, non vogliono realmente diventare indipendenti. Non vogliono rinunciare alla loro bolla di protezione. Allo stesso tempo, gli uomini nascono con questo preconcetto della forza, del “non dover piangere mai” che gli crea diverse ansie sociali e psicologiche. 

Cosa manca al femminismo di oggi?

Se il femminismo non funziona uno dei motivi è la competizione tra donne. Noi donne ci vestiamo per altre donne, se un ragazzo ci tradisce, ce la prendiamo con la ragazza. Se fossimo realmente unite, riusciremo a portare avanti questa battaglia in maniera sicuramente più forte. Crescendo senza un padre l’idea dell’indipendenza da un uomo si è fatta spazio in me molto precocemente. Non intendo a livello economico, ma soprattutto emotivo. Quest’atteggiamento ha comportato inevitabilmente anche degli aspetti negativi: sono sempre stata rigida, difficilmente mi lasciavo sopraffare dalle emozioni. Ripudiavo qualsiasi attenzione, in realtà non cercavo altro. Daddy Issues è una forma che si usa in Inghilterra proprio per indicare quest’atteggiamento.

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Come avviene la composizione delle tue tracce?

No, non riesco a partire dal testo. Scrivo molto, spesso mi appunto delle frasi o dei pensieri come in un diario personale, spunti e temi che in seguito provo a sviluppare in una canzone. Ma non riuscirei mai ad annettere la matematicità di un testo al ritmo di una base, al contrario preferisco seguire una melodia. Spesso al pianoforte mi limito esclusivamente a inventare parole, trovare una linea che solo in seguito sviluppo secondo le mie allusioni. Io non ho mai cantato in italiano, la mia voce in italiano mi fa un effetto strano. Ma adoro la musica italiana, e ci sarà la possibilità campionerò dei sample di Mina o Enzo Avitabile. Ho firmato con la Sony Italia proprio per questo motivo: volevamo esportare un format pop internazionale che nello Stivale sembra non aver mai preso piede. Pop internazionale fatto da una ragazza italiana. Io scrivo in inglese, ma i mie sentimenti sono tricolori.

In studio lavori con una band, con un produttore?

Io amo lavorare con un team piccolo, specialmente in un progetto molto circoscritto come un album o un ep. Per creare un sound coerente bisogna necessariamente lavora con qualcuno che ti capisca, cambiare di traccia in traccia non avrebbe senso. Ho conosciuto questi due gemelli indiani-british su internet, utilizzano allusioni orientali per proporre qualcosa di molto diverso. A Londra mi sono trasferita proprio per lavorare con loro, che arrivano da Manchester. Sono a tutti gli effetti la mia band.

Dai titoli delle canzoni alle allusioni a Tarantino nei video, il cinema sembra un elemento portante della tua musica.

Sono fissata col cinema, ogni canzone, nella mia mente, è accompagnata da una visual molto forte. Ho anche un agente di recitazione, magari, prima o poi, farò qualche comparsata su Netflix. Il cinema ha veramente un ruolo fondamentale della mia musica, essendo ancora molto giovane, non penso di poter vantare un bagaglio di esperienze tale da insegnare qualcosa a qualcuno. Le mie canzoni sono molto personali, ma non parlano sempre di me. Spesso cerco di trarre ispirazione dagli amici, dalle loro madri o dalle vicende che vivo, sicuramente, oltre alla vita, il cinema è uno degli argomenti che alimenta maggiormente il mio immaginario.

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Perché hai scelto Spike Lee, cui dedichi una traccia?

In realtà è una scelta comica. Alla fine di una sessione mi hanno fatto ascoltare questo beat e mi ci sono innamorata subito, motivo per il quale nell’omonima traccia lo lascio scorrere per circa un minuto. Il mio ex fidanzato ascoltandolo disse “questa potrebbe essere proprio la colonna sonora per un film di Spike Lee”. Eravamo gasatissimi, al momento e non ce ne rendemmo conto. In realtà intendeva Brucee Lee, ma ormai mi ero affezionata a questo titolo.

Certo che debuttare discograficamente in un periodo come questo...

Dovevamo uscire il 4 marzo e abbiamo rimandato l’uscita di una settimana. Sapevo che la situazione sarebbe cambiato poco, ma pensavo almeno le persone si potessero abituare mentalmente all’idea della quarantena. I primi giorni, l’uscita del mio ep non poteva essere la loro preoccupazione principale. Io stesso ero impanicata, non mi andava di presentarmi così. Io non ascolto molta musica a casa. Siamo una generazione completamente differente a livello di ascolti, non intendo come genere, ma proprio come modalità. Una volta usciva molto meno musica. E si poteva ascoltare esclusivamente sui vinili, la dimensione casalinga era quasi obbligatoria. Io ascolto musica in auto, quando vado al lavoro, se faccio jogging. A casa preferisco guardare i film.

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L'articolo HĒIR, meno follower e più femminismo di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2020-04-17 15:07:00

Tag: album

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