Nidi d'Arac - Intervista tratta dalla rivista Cous Cous, 11-10-1999

Intervista apparsa su Cous Cous n.7

"Dovevo conoscere i Nidi d'Arac, e volevo capire e spiegarmi la loro musica. Forse non ha senso seguire il mio istinto, così come non ha senso considerare ciò che segue un'intervista (tecnica o biografica). In questo caso i presupposti dell'intervista sono svaniti in fretta, parola dopo parola. Quando della musica si racconta la vita, e quando della vita si affronta una tradizione forse troppo distante da come vorremmo in realtà vederla, allora ci si accorge che si è andati oltre le premesse iniziali. La musica dei Nidi d'Arac prende forza in un luogo surrele, in un mondo magico;è più di quanto si possa carpire dalle note delle loro canzoni, anzi è proprio tra quelle note che è possibile leggere la vita dei ragazzi della terra del rimorso. Alla fine ci si rende conto che in tutto questo non c'è poi tanto di cui parlare, loro "sono" come i loro suoni, le loro terzine. Dietro al rifacimento di una tarantella, c'è un profondo rispetto per la terra; c'è la rabbia di una generazione che viene da lontano pur essendo vicina; ma c'è soprattutto la consapevolezza di poter comunicare una cultura che per troppo tempo ha vissuto nel silenzio."



Molti antropologi e sociologi hanno guardato e continuano tuttora a guardare al Mediterraneo come centro del mondo. Le parole: se conosci la storia sai da dove viene il sangue che ti scorre nelle vene... sembrano proprio ricordarne l'importanza culturale.
Alessandro Coppola: Nel sangue, nelle vene... è lì che scorre l'energia dei ragazzi del Sud, degli artisti del Sud. Io parlo perché ho qualcosa da dire, lo dico attraverso la musica, quella che più mi appartiene, e cioè quella del popolo, della mia terra. E dico del popolo perché oltre ad avere una tradizione legata alle radici culturali del Salento, di me fa parte tutta quella popolarità del quotidiano, dei miei parenti dei mie amici, della mia gente, che ormai è nel mio sangue, nelle mie vene...

Da questo partiamo per un discorso sulla musica popolare, e su come pensate la vostra musica.
Alessandro: La musica popolare innanzitutto è lo specchio della gente. Nel mio caso, la musica del Salento fa parte del mio essere quotidiano. Se scrivo una melodia, non penso al gospel o al blues, ma penso alla mia idea di melodia, quella che si sente nella mia terra. L'improvvisazione, o la composizione sono della mia terra...

Marco Viale: Quando ho conosciuto Alessandro e mi ha parlato del suo progetto di musica popolare mi ha conquistato. Mi sono così avvicinato alle tarantelle e alla cultura salentina. A ripensarci adesso, ho conosciuto lui, e ho conosciuto il Salento, che per me non c'è poi tanta differenza. Da lì in poi mi sono documentato sempre più fino a farne una passione. Ho trovato poi nella musica qualcosa che va al di fuori della stessa musica italiana. Ripenso anche al lavoro che hanno fatto gli Almamegretta, o gli Agricantus, musica che ha valorizzato senza dubbio la loro gente, quella che non viene studiata nei progetti commerciali fatti a tavolino.

E in questo credete che la concezione della musica in Occidente abbia in qualche modo violato la musica dei popoli non occidentali?
Alessandro: Secondo me sì, in qualche modo. E' il codice che forse ha condizionato le altre musiche. L'intonazione non è che una convenzione europea, una convenzione per fare ciò che chiamiamo musica. Tutto ciò che non rientra in questo codice è considerato stonato. Fra un tono è l'altro eppure esistono un'infinità di suoni. Nella musica del Salento ad esempio il violino non è mai perfettamente intonato. E' più vicino al sitar indiano che al violino occidentale. Eppure da noi un anziano che va a suonare non si preoccupa tanto dell'intonazione ma di come mentalmente il suo violino rientra nel ritmo terzinato.

Marco: Io invece credo di no. Non credo che la musica occidentale abbia violato tutta la musica. I giovani ascoltano la musica dell'occidente, questo è vero, ma se vai in un mercato di Algeri trovi la musica indigena così per com'è. Tutt'al più fanno come facciamo noi, utilizzano la musica occidentale per far conoscere la loro cultura.

Ma siete coscienti anche di far parte della musica italiana? E se si perché vi ritenete poco conosciuti e proprio nella vostra terra?
Alessandro: Già il fatto di parlarne con amore e odio vuol dire che non possiamo essere i portatori ufficiali di questa cultura. E' ben diverso pensare invece alla mia gente, ai ragazzi che come me vivono, soffrono e amano questa terra, sono i ragazzi della terra del rimorso a cui dedico il disco, e che considero i veri portavoce del salento. Noi suoniamo ciò che abbiamo dentro, il resto conta poco.

Molti nostri gruppi considerati etnici o popolari hanno comunque dei riferimenti a musiche non proprio della loro terra come ad esempio il raggae, il dub, il rock... Voi nella vostra musica invece insistete sulle terzine, tipiche della vostra terra...
Alessandro: Noi siamo innanzitutto un gruppo che viene dopo quei gruppi di cui parlavi. Il fenomeno delle Posse ha usufruito di "altra" musica per vari motivi, il riferimento al dialetto come lingua cantabile su una musica raggae ad esempio riguarda la quotidianità propria dei musicisti, la sua immediatezza, una contestazione se vogliamo rivolta alla propria gente, al gruppo di appartenenza. Noi abbiamo utilizzato quel canale ottenendo i vantaggi di chi viene dopo, di chi guarda dal di fuori e rifà il proprio gioco.

Poi nella vostra musica c'è tanta tradizione quanta tecnologia... ci tenete...
Alessandro: Tanto, ma è importante innanzitutto utilizzare le macchine con criterio, altrimenti si corre il rischio di non distinguere più la parte del musicista da quella del dj. Adesso stiamo assistendo alla scalata nella musica mondiale dei disc jockey, ma bisogna pur tener conto che la musica non va riprodotta ma creata. La distinzione in questo va fatta, oggi il campionatore è utilizzato per qualsiasi cosa, facilita il lavoro. In Iou e Ssignuria ad esempio abbiamo campionato un pianoforte a coda che difficilmente potremmo trovare su di un palco. Per farlo abbiamo impegnato tutta la memoria del computer, ma alla fine abbiamo catturato il suono vero. Oppure, sempre attraverso il campionatore abbiamo registrato la traccia audio della preghiera di una donna rivolta a lu Santu Paolu, (proveniente da un video del regista Gianfranco Mingozzi, della troupe di Diego Carpitella), e poi abbiamo fatto un lavoro di collage, aggiungendo prima uno strumento percussivo, poi il violino e così via. A pensarci dal '50, periodo del video, al '99 l'effetto del brano è lo stesso, anzi lo riproponiamo ai giorni d'oggi, lasciando la sua efficacia intatta. In merito all'uso degli strumenti... se io suono a casa il tamburello o il campionatore esprimo comunque me stesso. Faccio uso di quello che ho a disposizione e attraverso quello che ho esprimo la mia realtà che è poi quella popolare.

Marco: La grande differenza tra uno strumento acustico e uno elettronico, non credo che oggi risieda nella timbrica o nell'impiego. Occorre tener presente che in sé lo strumento non ha un'anima, è il musicista che gliela conferisce. Lo strumento acustico o elettronico intanto va "suonato" dalla creatività umana. Il bello del campionatore è che riesce a catturare estratti di realtà e poi a restituirli. La musica è un'arte nel tempo, ma il campionatore allo stesso tempo è in grado di renderla statica. Cattura la realtà come fa una macchina fotografica, imprimendola; cattura i suoni i e poi li fa scivolare nel tempo. Fra gli strumenti che noi usiamo vanno ricordati anche il groove box che lavora sugli arpeggi, e il loop inteso come ripetizione ossessiva (melodia, percussione). Tutti questi strumenti uniti al nostro gusto, creano il mondo magico delle mmacarìe.

In "Mmacarìe", che è poi il vostro primo album, (CNI, 1998), con "No. Nu bbè morta!" è già chiaro il manifesto degli aracnidi, o meglio, è già chiaro il progetto che intendete realizzare... "E' questo ritmo di fondo, che ti porta lontano in un luogo profondo."
Alessandro: Sai... se ci pensi bene il ritmo è la vera colonna sonora della vita. La stragrande maggioranza della gente non può sottrarsi dal vivere ogni giorno nel ritmo, dal ritmo delle stagioni a quello del lavoro, dal ritmo nel parlare al battito del cuore. Poi che esso sia lento o frenetico poco importa... è ritmo! La vita è troppo legata al ritmo, e volendo ragionare in termini tecnici, i b.p.m. (battute per minuto) dipendono proprio da come affrontiamo la vita. Prendi ad esempio le pizziche tarantate. Le suoniamo a 92/93 b.p.m. che è un tempo veloce, sfrenato... sono quegli stessi b.p.m. che davano il ritmo catartico alla tarantolata... è lo stesso ritmo che permetteva una volta di sfogare tutta l'energia negativa trasmessa dal mondo circostante. Oggi gli stessi ritmi creano in noi lo stesso meccanismo, ci portano in un luogo surreale, aprono un varco che la nostra società non dà, non siamo più dei soggetti di una società moderna, ma ritorniamo a far parte di una società tribale. Questo è il luogo profondo a cui ci riferiamo, e dove alcuni di noi riescono ad arrivare. Il ritmo è un filo conduttore storico che va al di fuori del progresso umano, nel tempo è rimasto pressoché simile. E' questa la grande similitudine tra il Mondo Magico di De Martino e la nostra società di fine millennio.

Comunque scavare nella tradizione della propria terra, credo che vada oltre la semplice passione. C'è dell'altro...
Alessandro: Come ben sai con la propria terra spesso si ha un rapporto di amore e odio. Essere innamorati della propria terra, rinnegarla, è come tentare di dimenticare qualcosa, alla fine è più forte la voglia di parlarne, di descriverla, di usare le sue espressioni tipiche, il dialetto... Non si può cancellare quello che alla fine fa parte del tuo essere te stesso.

Poi magari c'è il mare, il vento, il sole...
Alessandro: Touchè! Il mare, il vento e il sole rappresentano la vita per il Sud. La canzone, Sciurnate e fatia (Ronde Noe, CNI, 1999), narra la storia di un usuraio e di un pescatore. L'usuraio chiede al pescatore di vendere la barca per avere i suoi soldi e il pescatore prova a convincerlo che non può perché quel legno non ha prezzo. La barca rappresenta la vita, uscire in barca è dolore, sofferenza... Eppure la barca offre in cambio al pescatore il mare, il sole, il vento, un bene immenso che oramai è un tutt'uno col pescatore. Queste cose sono dentro ad ogni persona del Sud, è difficile da spiegare, si toccano sulla pelle. L'acqua di mare è asciugata dal sole, la salsedine poi è accarezzata dal vento... Noi del Sud queste cose le abbiamo saggiate fin troppo bene per dimenticarle, fanno parte di noi e non possiamo liberarcene.

Ritornando alla vostra musica... Il modo in cui canti, e non solo quello che canti, forse può sembrare a tanti "anomalo", "monotono", "piatto", eppure è uno stile comunissimo nella canzone popolare del Sud...
Alessandro: Anomalo? Dipende dal punto di vista... Per me è naturale proprio come l'improvvisazione. Questa musicalità deriva dal fatto che l'ho sentita cantare agli anziani nelle feste di paese. Capisco quanto la mia terra è presente in questo stile, e tengo a tenerlo vivo affinché non diventi museale. Spero di cuore che la mia musica venga cantata dai giovani della mia terra, in dialetto così per com'è. Sarebbe qualcosa di meraviglioso. Se qualcuno della mia terra, si rispecchia e si sente parte della mia musica per me è l'appagamento massimo, la gioia che mi può dare una tale constatazione non può trovare parole: vuol dire che ho trasmesso qualcosa, vuol dire che ho fatto e ricevuto del bene, vuol dire ... che mi sento bene... soddisfatto..., insomma felice di fare il mio lavoro. Un motivo per vivere... e per credere in ciò che faccio. Indipendentemente dai progetti, dalle previsioni, dalle promesse discografiche, attraverso la gente tocchi con mano il risultato del tuo lavoro. Preferisco che qualcuno mi fermi per strada e mi dica che ascolta le mie canzoni, piuttosto che un articolo d'una pagina, del miglior critico e nel miglior giornale.

La rabbia di un ragazzo è di solito rivolta al sistema, quella di un ragazzo del Sud va anche oltre... e spesso diventa musica...
La musica è sicuramente un mezzo per sputar fuori il veleno, ma non è solo questo. Tanti gruppi del Sud hanno in sé potenza, istinto, determinazione. E l'ambiente sicuramente infonde questa voglia di riscatto. C'è una nostra canzone... Tutta la raggia ca tenimu intra che sintetizza un po' questo concetto. La rabbia è quella che ti spinge ad andare oltre , la rabbia ti sveglia e ti scuote. I problemi di un ragazzo del Sud non sono proprio quelli che possono avere i ragazzi al Nord. Non sono pochi i problemi da affrontare ogni giorno, la disoccupazione, la delinquenza, la mentalità, eppure la nostra terra accoglie chiunque arrivi col cuore in mano. Pensa agli sbarchi dei profughi...

Parliamo dell'iniziativa Fango realizzata in collaborazione con Legambiente per ricordare l'alluvione di Sarno del 5 maggio '98. Qualcuno è impegnato in campagne di solidarietà estere, nessuno o quasi nessuno invece ricorda i disastri a noi più vicini come il terremoto in Umbria, le alluvioni in Versilia o in Campania...
Alessandro: Per ricordare basta poco. Noi musicisti dobbiamo ricordare che abbiamo dei doveri verso la società. Dobbiamo riuscire a creare una coscienza attraverso l'arte, sensibilizzare indipendentemente dalle nostre scelte. Per Sarno dovevamo fare qualcosa, era ovvio, e non c'è costato assolutamente niente. Era giusto che qualcuno dicesse qualcosa, e noi l'abbiamo fatto senza pretendere di cambiare niente, semplicemente l'abbiamo fatto. Il brano Fango scritto a quattro mani con il giornalista Enrico Fontana, per questo motivo non è che un gesto d'amore, un omaggio alle vittime di quel giorno, e una speranza per chi ha perso tutto.

Marco: Oltre a questo poi non sappiamo quanto può essere utile alla fine. Che questa sensibilizzazione abbia poi un riscontro pratico nella società è un altro discorso.

Immagina di fare un sogno: fai ascoltare il tuo lavoro a De Martino... partendo da No. Nu bbè morta.
Alessandro: Penso che lui possa essere soddisfatto del lavoro che abbiamo fatto. Lui ha lasciato un messaggio importante: che la gente della Terra del Rimorso sia consapevole della propria posizione rispetto all'Italia e al mondo. Quello che gravava di più su questa terra agli occhi dello studioso era l'inconsapevolezza. Perché si dice che una ragazza è stata punta dalla tarantola? Perché si dice che il tamburello curi dal male? La posseduta ballava e non sapeva perché, noi oggi grazie a De Martino lo sappiamo e siamo coscienti di ciò che facciamo, conosciamo il ritmo, ma soprattutto ciò che siamo. Tutti gli studi non cambieranno mai la cultura del Salento. Siamo stati, siamo tuttora e rimarremo per sempre al di fuori della società industriale, al di fuori del mondo, è più che una mentalità, è più di qualsiasi cosa, ma oggi rispetto a ieri c'è la consapevolezza di essere salentini, noi lo siamo e penso che al di là del nostro lavoro De Martino potrebbe essere fiero del suo, anche perché noi forse ne rappresentiamo il risultato.

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L'articolo Nidi d'Arac - Intervista tratta dalla rivista Cous Cous, 11-10-1999 di Peppe Palazzolo è apparso su Rockit.it il 1999-10-11 00:00:00

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