John Qualcosa e il destino del rock

Le chitarre non sono mai morte, l'attitudine nemmeno. Il rock sta tornando, ne abbiamo parlato con Raffaele D'Abrusco e AmbraMarie, che hanno appena pubblicato un album tanto fuori moda quanto interessante

Raffaele D'Abrusco e AmbraMarie in una foto promozionale
Raffaele D'Abrusco e AmbraMarie in una foto promozionale

I John Qualcosa sono un duo formato da Raffaele D'Abrusco e AmbraMarie. Il 15 aprile è uscito il loro album Sopravvivere agli amanti, che mostra talento e volontà di fottersene allegramente della musica che funziona in radio o in classifica. Chitarre elettriche e acustiche, qualche eco del songwriting sporco all'americana tipo Mark Lanegan quando cantava con Isobel Campbell (ma qui sotto scoprirete che ce li sentivo solo io) e un'anima decisamente rock. Ecco, la parola che viene più fuori in questa chiacchierata è proprio rock, la definizione che è passata alla velocità della luce dal rappresentare ribellione e libertà a diventare sinonimo di conservatorismo e chiusura, specie nell'epica lotta tra boomer e gggiovani con almeno tre g.

La verità probabilmente sta nel mezzo: il rock non è mai morto, ogni tanto prende delle pause di riflessione e si contamina con quello che c'è là fuori, e diventa volta per volta un po' elettronico, un po' acustico, un po' pop o un po' più selvaggio del solito, ma ha le fondamenta talmente solide da resistere alle intemperie. Certo, spesso avrebbe bisogno di qualche corso d'aggiornamento, ma finché in giro ci sono progetti solidi come John Qualcosa, sembra che gli amanti della chitarra possano dormire su due guanciali.

 

Per prima cosa vorrei sapere il motivo del vostro nome

Il nome è nato dopo una risata, per caso, ancora prima delle canzoni. Da tempo avevamo in testa l’idea di questo “duo acustico”, finché un pomeriggio, mentre eravamo sul nostro furgone, Raff mi chiede: “Senti Ambra, ma chi è quel tizio che stavi ascoltando prima, che mi ha fatto venire il latte alle ginocchia?” (prendendo “simpaticamente” per il culo i miei soliti ascolti da taglio-vene) e io ho risposto “Uhm...non mi ricordo... John...Qualcosa!” come quando butti lì un “qualcosa” perché non ricordi la parola che vorresti dire. Ci siamo guardati ridendo, abbiamo capito che avevamo il nome e la sera stessa abbiamo scritto la prima canzone, Questioni irrisolte, contenuta anche nel disco.


La vostra musica mi sembra prenda da un certo rock ricercato all’americana, con suoni sporchi e atmosfere cupe. Chi vi ispira in particolare?

Un po’ ci spiazza questa “definizione di ispirazione”, però è sempre interessante capire cosa sentano gli altri nel tuo disco, perché a volte non riusciamo a definirlo nemmeno noi. Dentro ci sono riferimenti vari: Radiohead, Jeff Buckley, Damien Rice, fino a Verdena, Afterhours, Iosonouncane, Marta Sui Tubi e Niccolò Fabi. Poi sicuramente qualcosa dei Beirut: nelle ultime canzoni che abbiamo scritto ci siamo spostati più su un sound che si avvicina alla “world music”, a quei suoni che ti porti a casa magari dopo essere stato in viaggio a Tangeri, o dopo aver ascoltato il fado a Lisbona. Un disco che ci ha segnato molto, specialmente per il singolo Sopravvivere agli amanti (che è anche il titolo dell’album) è la colonna sonora di Only Lovers Left Alive di Jim Jarmusch, che lui ha realizzato con la sua band (gli SQÜRL). In realtà il titolo stesso del disco è un omaggio al film e alla sua poetica.                                                                                                       

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Che fine ha fatto il rock in Italia? Perché da un certo punto in poi in alcuni ambienti sembra diventato sinonimo di sfiga?

In realtà, nella nostra bolla mentale che ci costruiamo per sopravvivere alla trap e al reggaeton, il rock continua a esistere. Ci affiadiamo ai Verdena, agli Afterhours, ai Ministri, a Marta Sui Tubi... e di certo non li associo alla parola “sfiga”, anzi. Il problema è che tanti il rock lo scimmiottano, senza trovare una chiave evolutiva personale che è alla base di qualsiasi tipo di approccio musicale: odio le band che ripetono lo stesso disco per 20 anni, che sia rock o no. Diventi un po’ la caricatura di te stesso e, forse, il problema di certi rockettari è proprio questo. Troviamo che i Verdena siano l’esempio di una carriera evolutiva musicalmente perfetta nel rock italiano: dignità, sperimentazione e personalità.

E voi, vi siete mai sentiti alieni a suonare rock mentre fuori andava il pop sintetico come negli anni ’80?

Non ci siamo mai posti il problema di sentirci alieni o di cavalcare un determinato sound in voga in quel momento. In modo molto banale ti diciamo che abbiamo sempre suonato quello che ci sentivamo di suonare. Essere démodé ha pur sempre il suo fascino, a volte. Certo è che spesso ci domandiamo come sia possibile che tra tutte le mode che potevano ritornare - tipo la psichedelia degli anni ’60/’70, o il grunge degli anni ’90 - dovessimo sorbirci proprio il sound di quegli anni ’80 che abbiamo sempre detestato! Ma evidentemente ce lo meritiamo per qualche “sgarbo da vita precedente”.

Il rock è morto, quante volte abbiamo sentito dire. Poi invece sembra che gli altri generi che vorrebbero affossarlo, durino al massimo un paio di primavere e che il rock risorga dalle ceneri. Cosa serve al rock per entrare negli anni 20?

Noi ci fidiamo di quello che dice zio Neil Young (“Rock and roll can never die”). Forse sarà un concetto un po’ “anzianotto” quello che stiamo per dire, ma effettivamente il rock non è moda, quindi non passa, rimane sempre lì ad alimentare in qualche modo la sua stessa leggenda, grazie alle personalità che l’hanno reso immutabile. Facciamo fatica ad immaginarci un futuro in cui la gente pensi a Jim Morrison come ad uno sfigato. E se lo pensa vuol dire che non ha capito un cazzo. (ridiamo eh!) Forse per entrare negli anni ’20 ci servirebbe un nuovo Jim, qualcuno che abbia quel genere di ipnotismo, così potrebbe riportare le giovani menti sulla retta via con una sorta di rito sciamanico. Ma è una risposta poco lucida, perché quella che te la sta dando è una che si è tatuata la sua faccia sul braccio.


Cosa deve lasciarsi alle spalle per tornare ad essere competitivo nelle classifiche, in cui manca da tempo?

Innanzitutto rock+italiano=amore complicato, storicamente parlando non è una nazione legata al rock. E già questo potrebbe essere un ostacolo non da poco. Poi personalmente facciamo fatica a rispondere a una domanda del genere. Ci viene un po’ in mente la citazione di Zappa, ovvero “Parlare di musica è come ballare di architettura” nel senso che (in questo caso) si rischia sempre di fare pipponi sociologici-musicali senza mai arrivare al dunque. Non ci piace pensare a cosa dovrebbe fare il rock per tornare nelle classifiche, non sempre fare parte di queste classifiche è sinonimo di qualità, men che meno in questo periodo storico. L’anima del rock probabilmente si scontra un po' con la cultura “mordi e fuggi” di oggi, con l’essere competitivi, il ritornello dopo 30 secondi sennò non ti passano in radio, che significa? Il rock è profondità, è sopravvivenza, è un viaggio che pretende il suo tempo. La nicchia di qualità probabilmente rimane il suo rifugio più adatto.

Quali sono le band che ci consigliate di seguire in Italia?

Lasciando da parte certezze ovvie come Verdena, Afterhours e soci, il problema attuale è che non c’è stato un vero ricambio generazionale. L’ultima ondata di rock- mainstream, fatto davvero con le chitarre, arriva dai Ministri e da lì si è sviluppato un sottosuolo di indie-rock-band che si sono ispirate moltissimo a loro e continuano a tenere vivo il rock nell’underground, però forse manca qualcosa di “diverso”. Uno dei dischi più interessanti dell’anno scorso per noi è stato Cornucopia di Carmelo Pipitone. Ci piace molto Daniele Celona, e poi c’è questa band emergente di Brescia, si chiamano Listrea: sono giovanissimi e dal vivo ti pettinano. C’è speranza, forse.

AmbraMarie, quanto ci vuole per sdoganarsi da un talent? Per la tua carriera ha fatto più bene o male?

Alla mia salute mentale probabilmente male, dato che sono 11 anni che devo rispondere a questa domanda! Comunque posso dirti che i John Qualcosa sono nati esattamente come una sorta di esperimento: volevo vedere come avrebbe reagito un determinato tipo di pubblico “snob” ascoltando un progetto dove non c’era il mio nome, quindi “quella del talent”. Nelle prime registrazioni che abbiamo buttato su YouTube anni fa io avevo deciso di non comparire, nemmeno fisicamente. Quando ho letto alcuni commenti sotto ai nostri video che come sunto riportavano “Questi sono i veri talenti! Mica quelli che escono dai talent!”, ho capito che avevo fatto centro con l’esperimento. Mi piacerebbe che la gente imparasse ad ascoltare con le orecchie. Pregiudizi a parte, che comunque mi toccano a tratti, non so se senza tutta la visibilità di X Factor mi sarei ritrovata a fare tutti quei concerti, pagandomi un furgone, l’affitto e il cibo in questi ultimi 11 anni. Certo, mi sono data molto da fare e una volta uscita da X Factor mi sono slegata subito dal contratto che probabilmente mi avrebbe tenuta lì per anni a vegetare, però ho sfruttato il meccanismo per poter fare quello che desideravo come lavoro.

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L'articolo John Qualcosa e il destino del rock di Simone Stefanini è apparso su Rockit.it il 2020-04-23 10:20:00

Tag: album

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