Ketama 126: "Non so scrivere, so raccontarmi. Il mio maestro è Franco Califano"

Del nuovo disco, la Lovegang, Califano e il suo futuro

Del rap italiano, o quello che ne è diventato dopo la trap, s'è detto tutto e pure troppo. Questo vale anche per il suo esponente più sporco, assurdo, strano, scuro: Ketama126. Che è anche, probabilmente, il migliore del suo campionato. Venerdì esce Kety, il primo album con una major - Sony - e senza molti degli amici che lo hanno portato fino a qui - la Lovegang.

Però ci sono Franco126, Franco Califano e Massimo Pericolo, ma anche Tedua, Noyz, Fibra. E questo nel disco più complesso e pulito di Ketama, quello in cui usare più parole e più canzoni, e anche quello in cui parlare più spesso della morte. Ketama126 si sta evolvendo, e ne parliamo con lui, qui. 

Ho lavorato alla fine alla stessa identica maniera. Ho evitato di andare a prefissarmi un periodo in cui lavorare al disco o in cui andare in studio. Ho raccolto e canzoni scritte durante l’anno, ho registrato i pezzi a casa mia o a casa di amici. Una volta avuti i provini ci ho rimesso mano ed ho aggiunto i pezzi suonati, di cui il disco è pieno. Pieno di overdub, di chitarre elettriche, di fiati. 

Tuo padre quindi non c’è solo nel pezzo con fibra?

Anche in Denti d’oro. In Rehab ha suonato il sax di Con te. I pezzi in cui farlo suonare li ho scelti io, ho pensato che ci sarebbe stato bene. Per Denti d’oro aveva solo un campione di hammond. 

Sbaglio se dico che in questo disco c’è molta meno Lovegang?

No, è così. 

Basta guardare anche solo i featuring.

Beh quella è la parte più evidente. Avendo sempre fatto solo canzoni con membri della LoveG fino ad oggi volevo fare qualcosa di diverso, per non proporre sempre la solita formula. L’unico che ci sta è Franco, ma perché quello è un pezzo con Califano ed era inevitabile farlo insieme.

Parlami di quel pezzo: come nasce un brano con Ketama, Franco126 e il Califfo?

È nata da Don Joe, che è amico del manager di Califano. Aveva per le mani questo pezzo registrato poco prima di morire, uno degli ultimi che ha scritto probabilmente. Voleva farlo collaborare con degli artisti urban, ha chiamato noi perché ci ha trovato i più adatti. Sai, tra Roma e Lovegang e tutto il resto delle cose che diciamo.

Sembra che per la Lovegang in generale, a partire dallo stesso Franco126, Califano sia molto importante.

Se abbiamo un vero punto di riferimento forse è lui.

Perché conta così tanto lui e non, per dire, Venditti?

Venditti a me non piace. Califano è vicino ai rapper, per gli argomenti e per stile di vita, è il padre di tutti. È stato il primo rapper in Italia, anche perché poi un pezzo rap l’ha fatto davvero e prima degli altri (Si riferisce a “Razza Bastarda” - 1994, ndr.). Per l’uso che aveva del parlato, della voce, dei temi. E poi la vita che faceva, per me era lui l’esempio da seguire.

Califano quando racconta il sesso non ha la spacconeria della trap, non dice quanto scopa ma quanto sta male dopo aver scopato, o quanta malinconia c’è durante. Gli piace, ma non se ne vanta, e ti racconta più di come sta lui che di quante ne porta a letto.

Le sue canzoni sono sempre tristi, il punto è sulla malinconia e sull’ulcera. Lui ti dice che s’è scopato 100 tipe, ma ti dice anche che poi sta male e si va a sfondare d’alcol, e non sta bene a farlo. Non ha mai avuto paura di mostrare i lati peggiori di se stesso.

E ti riconosci in questo?

Sì, abbastanza. Ho sempre cercato di trasformare le cose più brutte in punti di forza, quantomeno  nelle canzoni. 

Ci sono cose di te in questo disco che avresti fatto fatica a dire prima?

Prima mi vergognavo di più a scrivere certe cose più personali, ora me ne frego e l’unica censura è se quello che faccio sia bello o meno. Oggi non mi preoccupa l’idea che gli altri possano farsi di me.

E c’è invece qualcosa che riuscivi a fare prima, quando avevi meno consenso e aspettative, che non riesci a fare ora?

No. Scrivo ancora per me stesso. Non penso al pubblico. Tanto che probabilmente è il mio disco più pesante. 

Ed è forse anche quello in cui dici più cose.

Certo, è il più voluminoso. In Rehab il mood era uno, qui ci sono tracce come Babe e poi Come Va. Anche se ci sono elementi in comune. 

Anche tecnicamente sei diventato più complesso. 

Sicuramente non ci sono extrabeat o altro, ma a livello vocale ho cercato di sfruttare la voce in maniere diverse. 

Successo e soldi: ora che hai più di entrambi come te la vivi?

Bene (ride). Ci sono delle cose di questi due che mi spaventano. Ora sono nel giusto equilibrio tra l’essere uno famoso e uno sconosciuto: mi fermano sì, ma posso ancora fare una vita che assomiglia a quella di prima. Non è stressante, ma sento che potrebbe diventarlo. Se potessi fermerei tutto qui. 

Ma?

Il problema è che qui non ti puoi fermare mai. Se giochi a restare fermo caschi, il rap è una continua gara con gli altri. Per dimostrare a te stesso di esserne all’altezza devi spaccare più degli altri, anche sui numeri. Tu magari lo sai che sei forte, che sei a posto così, ma se i numeri non rispecchiano la proiezione che hai di te poi ti scatta qualcosa dentro.

Quanto gestire questa cosa, il successo e i numeri e la competizione con gli altri e la corsa continua, cambia la percezione che hai di te stesso?

Non ci devi pensare, mai, se no ti incastri li dentro. Però poi c’è questa cosa dentro di te e devi farci i conti in qualche modo. 

La trap, com’era stato il grunge, è un fenomeno enorme. Forse troppo ingombrante. Non ti viene mai paura che la cosa possa ancorarti a questo momento storico?

La trap è così, ma non mi spaventa per vari motivi. Il primo è che sono tra i pochi a mischiare con altri generi, e mi sto spostando sempre di più ad altre cose. Io voglio fare musica: nel 2020 quella più d’impatto è la trap, e per me finisce lì. Allo stesso tempo penso anche che la trap non morirà mai. Più che al grunge penso alla techno.

Cioè?

Anche quello è un genere che è esploso un po’ di anni fa, ma che esisterà sempre. Finché esisteranno le pasticche e le discoteche esisterà la techno. La trap è la stessa cosa, non passerà in un giorno. Poi i suoni cambiano, ma se la intendi come stile di vita e concetti non passerà.

Tu non ti consideri un artista trap, sbaglio?

No. Per certi versi mi considero il più trap in Italia per certe cose che dico e la vita che faccio, ma a livello musicale non credo. I testi, i concetti, in questo momento però sono vicini a quella cosa.

Però potresti anche fare cose diverse, per come sei. 

Io nasco come produttore, la cosa che mi interessa di più è fare musica. Più sto a contatto con gli strumenti e con la composizione più mi diverto.

Riesci a portare avanti anche la parte di produzione oggi?

Io parto da lì. Riesco a fare soprattutto quello, io non mi sento uno scrittore. Io posso parlare solo della mia vita, non mi ritengo uno bravo a scrivere in generale. So mettere in musica la mia vita, ma scrivere è un’altra cosa. Franco126, lui è bravo a scrivere, tanto che lo fa anche per gli altri. Io l’autore non potrei mai farlo, lì è come inventarsi una storia, mettersi nella testa di qualcuno che non sei tu, non mi sento bravo a fare quello. 

Però il discorso di evoluzione del suono oggi forse è la parte più interessante.

Anche perché a livello di testi è già stato detto tutto. 

Tanto che il maestro per voi è ancora Califano. 

Mentre se un concetto lo esprimi con un suono al posto di un altro cambia tutto. 

Cosa stai ascoltando in questo periodo?

Sto tornando a ripescare dalla mia adolescenza in realtà, più che seguire roba nuova.

E qual è la cosa a cui sei più legato?

Led Zeppelin, Black Sabbath, per il rap TruceKlan e quella roba. Sarà che sto invecchiando e mi piace ricordare quando ero giovane. Poi uno che mi piace sempre, che si rinnova sempre, è Travis Scott. Trova sempre qualcosa di originale.

E anche sul live, forse è il miglior performer live in questo momento. Ed è un live che di suonato, vocale compreso, ha poco e niente. Ti interessa quella roba?

Su di me no, anche se anche io ho la voce effettata a manetta. Ma voce e autotune per me diventano uno strumento. E gli strumenti sono una cosa che vorrei portare, vorrei fondere le due anime. Vorrei un assolo di chitarra, mio padre che suona il sax.

E tu che suoni nel live?

Sì mi piacerebbe, ma non mi sento in grado. Suono il basso ma dal vivo non funzionerebbe, dovrei riarrangiare tutte le canzoni, preferisco le 808.

Nei testi, in questo disco in particolare, torni spesso sulla morte. Lo hai sempre fatto, ma ora forse di più. È un esorcismo, un sentimento di fine più ampio che riassumi lì o qualcosa a cui pensi davvero?

Un po’ lo faccio per esorcizzarne la paura, o la prospettiva. Quando parli di qualcosa ce l’hai più chiara, togli potere a quella parola, e puoi padroneggiarla meglio. E poi ho sempre avuto il tema della morte come icona. E un po’ è che tanti miei amici sono morti, ed è una cosa che mi accompagnerà sempre. E questa cosa è anche un po’ per loro. 

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L'articolo Ketama 126: "Non so scrivere, so raccontarmi. Il mio maestro è Franco Califano" di Vittorio Farachi è apparso su Rockit.it il 2019-10-22 14:17:00

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