Laila Al Habash: “Quello di Israele è un genocidio, ma qui l’odio per gli arabi non è visto come un problema”

Giovane e piena di talento, si spende da sempre per la causa della Palestina, la terra di suo padre. Questo di solito non fa bene alle carriere degli artisti – come dimostra Sanremo – ma a lei non importa. Perché quando vedi certe cose, non puoi certo stare zitta

Laila Al Habash, foto homemade
Laila Al Habash, foto homemade

Laila Al Habash è un’artista fantastica. Per capacità di raccontare sé stessa e gli altri nei propri testi, per quello che fa con la propria voce e con la propria chitarra, per come rende sempre personale, contaminato, originale il suo pop, per il modo in cui veicola emozioni con ogni movimento sul palco. È nata nel 1998 a Roma, nel 2018 questa testata l’aveva inserita nella sua lista dei CBCR, i giovani artisti su cui scommettere per gli anni a venire. Da quel momento di lei si sono accorti in molti, grazie a un ep – Moquette – e un disco – Mystic Motel – che possono vantare le produzioni di Stabber e Niccolò Contessa. Alla scorsa Notte dei CBCR, un paio di mesi fa a Milano, l’abbiamo voluta celebrare: questo sarà il suo anno, lo auguriamo alla musica italiana.

In questi ultimi mesi, però, la testa di Laila non era tutta per la musica. Inevitabile, visto quello che sta succedendo in Palestina dal 7 ottobre. In quella terra ha le sue radici. Sempre rivendicate come qualcosa di prezioso. 

Laila Al Habash è italo palestinese, e ha sempre cercato di usare la propria voce e il seguito di cui gode per raccontare quello che succede al di là del Mediterraneo e che in pochissimi sanno, complice un’informazione che arriva parzialissima alle nostre case. La ricordo al Festivaletteratura di Mantova, dove era ospite, felicissima per aver potuto raccontare la situazione di molti loro pari età a Gaza e in Cisgiordania alle ragazze e i ragazzi che l’ascoltavano.

Era settembre. Allora la situazione era gravissima, come sempre. Ora è un dramma di proporzioni enormi. Ogni giorno o quasi sui suoi canali social racconta dal suo punto di vista le atrocità subite dalla popolazione civile palestinese, le ingiustizie cui è sottoposta. Fornisce canali comunicativi “alternativi” e storie che è bene conoscere.

Non per tutti, però. Come dimostrano le polemiche seguite alle dichiarazioni di Ghali e Dargen D’Amico durante il Festival di Sanremo, rei di aver chiesto lo stop al massacro. Un caso che non doveva esistere – chiedere la pace non dovrebbe essere un caso – e che invece non smette di montare. Che il clima sia pessimo, d’altra parte, lo dimostra il comunicato letto durante Domenica In da Mara Venier, assurdo e inquietante allo stesso tempo.

Laila non aveva ancora mai parlato di queste cose in un’intervista. Lo fa per la prima volta ora, a conferma che oltre al talento di certo non le difetta il coraggio. 

Laila a La Notte dei CBCR 2024 - foto Luca Secchi
Laila a La Notte dei CBCR 2024 - foto Luca Secchi

Da dove viene tuo padre?

Mio padre è di Nablus, una delle città più grandi della Cisgiordania, la zona che insieme a Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza compone quelli che sono i cosiddetti territori palestinesi. La vita quotidiana a Nablus è cambiata radicalmente dall’inizio del conflitto, prima le persone riuscivano a condurre una vita normale, andavano a lavoro, a fare shopping, in palestra, uscivano la sera e partecipavano alle manifestazioni culturali. Tutto sommato una vita simile alla nostra, solo con molti meno diritti e con le implicazioni che può dare un esercito straniero occupante perennemente tra i piedi.

Come sono cambiate le cose a Nablus negli ultimi tempi?

Nablus è a 100 km a nord dalla Striscia di Gaza, ma la vita ora è difficilissima anche lì, quello che ci raccontano i miei zii e cugini è terribile. Nessuno può uscire da Nablus. La viabilità è sempre stata complicata, tra check point e strade chiuse, ora lo è cento volte di più. Le strade per raggiungere le altre città sono bloccate, nessuno va a lavoro, nessuno va ai campi, il carovita è alle stelle, nessuno dei miei cugini va a scuola da ottobre - e questo è togliere il diritto allo studio a dei minori, economicamente le famiglie sono distrutte e si vive in un clima costante di terrore. I coloni armati e l’esercito irrompono nelle case dei palestinesi e nei campi profughi di notte e li arrestano, distruggono i loro terreni, i loro animali, fanno irruzione nelle città con carri armati e bulldozer. Tutto questo andava avanti da ben prima del 7 ottobre, anche nei campi profughi.

Chi hai oggi in Palestina?

Alcuni dei miei parenti sono lì, la maggior parte di loro vive ad Amman, in Giordania, dove quasi il 70% della popolazione è palestinese o di discendenza palestinese. 

Sei mai stata in Palestina?

Sono stata moltissime volte in Giordania ma una sola in Palestina, quando ero molto piccola. È difficile per me tornare perché ho avuto entrambi i passaporti e le cittadinanze, quella palestinese e quella italiana, e per entrare in territori controllati da Israele questo è un problema. Ci tengo a sottolineare che è difficile tornare per me - e per tantissimi altri nel mondo - perché i palestinesi non hanno libera circolazione in Palestina, per entrare e uscire c’è bisogno di un permesso militare che spesso e volentieri potrebbe non essere accordato, o potrebbe arrivare con settimane - se non mesi - di ritardo.

Insomma, quel tipo di viaggio è fortemente disincentivato.

Alcuni italo palestinesi come me hanno avuto esperienze terribili in questo senso, un mio amico è partito dall'italia per raggiungere la sua famiglia in Palestina nelle vacanze estive e all'arrivo lo hanno fermato ai controlli e lo hanno tenuto per tre giorni in detenzione, senza nessun motivo dichiarato, con pochissima acqua e cibo a disposizione, senza poter avvertire neanche i parenti che lo stavano aspettando all'aeroporto. I palestinesi subiscono pesanti restrizioni e violenze e non hanno diritto alla circolazione: ecco perché a Gaza c’è la densità di popolazione tra le più alte al mondo, non possono entrare né uscire, a meno che non ci sia un permesso militare. Tutto questo dipende anche dal momento e dalla situazione politica in corso, ma non è detto che io possa arrivare ed andarmene quando voglio. Non hai tempi certi. 

Laila a MI MANCHI 2021 - foto Starfooker
Laila a MI MANCHI 2021 - foto Starfooker

Da sempre dici di te di essere “italo palestinese”. Perché usi questa definizione?

La parola italo palestinese penso sia quella che rappresenti meglio la mia identità: sono cresciuta con genitori di due culture diverse, mia madre è italiana e mio padre è arabo, dunque ho sempre avuto dentro casa la possibilità di attingere a una diversità culturale molto ricca da entrambe le parti e assorbirla, ascoltarla, osservarla, viverci dentro. Nonostante io sia nata in Italia, abbia studiato e vissuto qui, per me la Palestina è un tema enorme attorno al quale la mia vita ha sempre inevitabilmente gravitato intorno, ed è una cosa comune per i figli di palestinesi della diaspora, che in Palestina non ci sono mai andati o non parlano neanche arabo ma sentono ugualmente la causa.

Cosa significa per te essere figlia di un palestinese?

Essere figlia di un palestinese vuol dire di fatto essere figlia di una persona che non ha uno Stato, che ha passato la sua infanzia e adolescenza sotto l'occupazione militare senza aver mai avuto alcun diritto assicurato, e dunque inevitabilmente porta con sé una ferita, anche solo per il fatto di vivere per necessità in un altro Paese, sapendo che la propria famiglia continua a resistere e lottare in condizioni difficili. I miei genitori, che in Palestina ci hanno vissuto per diversi anni da appena sposati, mi hanno raccontato moltissimo della storia di quel territorio, di com’era la vita sotto l'occupazione, il coprifuoco, le prepotenze dell'esercito e di com’è diventata ora: questo ha avuto un ruolo importante nel mio pensiero, legato alla mia identità. Se sai che c'è questo dietro la tua storia, se sai che se sei qui è grazie a qualcuno che è dovuto scappare da una situazione di violenze, abusi e repressione, tutt'ora in corso con una violenza e gravità estrema, è difficile restare indifferenti, è difficile non chiedere giustizia. E a me sta a cuore perché voglio continuare a credere e lottare dei diritti che ritengo giusti, per una libertà e una giustizia che riguarda tutta l'umanità e la storia, non solo i palestinesi. 

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Sui tuoi canali hai sempre cercato di raccontare quel che succede in Palestina, proporre fonti diverse da quelle tradizionali per informarsi. Perché porti avanti questa attività di “controinformazione”?

Tra tutte le atrocità che accadono, secondo me una delle più gravi è che Israele non lascia libero accesso alla stampa né in Cisgiordania né a Gaza, e dall'inizio del conflitto i raid israeliani hanno ucciso tantissimi giornalisti mentre facevano il loro lavoro e le loro famiglie. Si è sentito parlare molto di Wael Al-Dahdouh, il capo dell'ufficio della corrispondenza di Al Jazeera nella Striscia di Gaza, che ha appreso in diretta tv della morte di 12 familiari rifugiati perché sfollati da Gaza. A pochi giorni di distanza i droni inviati dall'esercito israeliano avevano ucciso di proposito anche suo figlio, giornalista per Al Jazeera. Dunque è anche per questo che sui miei canali cerco di dedicare da sempre uno spazio alle informazioni e le notizie che provengono da quei territori, le testimonianze di irruzioni e prepotenze atroci dei coloni e dell’esercito che mi raccontano i miei parenti non sono documentate quasi da nessuno sulla stampa generalista, a parte qualche telegiornale arabo o qualche pagina di informazione che ogni tot viene bannata e chiusa. Spesso e volentieri, Israele fa oscuramento di internet e dei telefoni quando vuole nei territori palestinesi. Un trattamento ampiamente al di sotto dei diritti umani. 

Di seguito Laila ci ha consigliato alcune delle pagine Instagram che considera migliori per informarsi su questo tema. I post di alcune di queste pagine li trovate anche all'interno di questo articolo

Let's Talk Palestine
Eye On Palestine
Giovani Palestinesi
Life Gate Radio
Middle East Eye
Al Jazeera English
Palestinian Videos
Palestine On A Plate

Ti senti un'attivista? 

No, non sono un’attivista, io sono una musicista. Ma penso che chiunque usi l’arte per esprimersi ha un ruolo politico.

Che tipo di commenti ricevi alle tue stories su Instagram? 

Ecco, questa è una cosa curiosa. Durante i primi mesi del conflitto ho ricevuto decine di messaggi di insulti o di provocazioni, ma quasi solo da parte di altri sostenitori della Palestina. Anche se per me è distopico persino riportarlo, c'erano delle persone che mi chiedevano con tono recriminante perché non stessi postando tutti i giorni contenuti su quello che stava succedendo a Gaza. Qualcuno è arrivato a dirmi "cancella dalla tua bio che sei palestinese se hai deciso di stare zitta", perché magari era appena capitato sul mio profilo e ha trovato il cerchio della mia foto profilo tristemente spento, non illuminato da un alone arancione-rossiccio. Sia chiaro, io ho sempre postato informazioni ed espresso la mia posizione a riguardo da ben prima l'inizio del conflitto, ma in pratica se non avevo postato storie nelle ultime 24 ore questo per alcuni era sbagliato e denotava una mia mancanza di interesse ai fatti.

Deve essere stato abbastanza straniante.

Questa sorta di aspettativa di “performance social” nei miei confronti mi ha davvero preoccupata, per mille motivi che non finirei mai di elencare. Innanzitutto ero spiazzata dal fatto che per alcune persone se una cosa non passa per i social allora non è successa: io tutte le volte che riesco partecipo sempre ai presidi, manifestazioni e proteste a Milano e non posto sempre sui social dove sono o cosa sto facendo. Se non pubblico un’immagine che dura 24 ore allora la mia presenza e il mio impegno non esistono? E poi la mancanza di tatto: ovviamente ero e sono estremamente in pensiero per i miei cari che sono lì, non ce la facevo a vedere nel telefono le immagini live di un genocidio in corso tra una foto ed un'altra, facevo fatica ad aprire qualsiasi social perché mi prendeva la tachicardia, desideravo restare informata ma allo stesso tempo diffondere immagini di ospedali bombardati con dei bambini morti era una cosa che disturbava tantissimo me in primis, e la gente mi accusava di fregarmene se per poco più di un giorno mi prendevo una pausa dal condividere informazioni (informazioni che tra l'altro cerco sempre di verificare, quindi postare questo tipo di contenuti a me richiede sempre del tempo per fare un minimo di ricerca). 

Come gestisci la coesistenza tra tutto questo e il tuo lavoro?

Essendo i social uno dei mezzi principali con cui comunico le mie uscite, le date dei concerti, gli appuntamenti per talk o le interviste, per me è stato un tema reale quello del trovare un balance lavoro-genocidio. Anche perché l'algoritmo di Instagram non ti prende proprio in simpatia se continui a postare cose a riguardo, tutti i miei contenuti hanno visualizzazioni minori rispetto a prima di ottobre. Sia chiaro: non me ne importa niente e continuerò a farlo, tutta l'industria musicale esiste da ben prima dei social e comunque ho altre vie per comunicare con chi vuole rimanere aggiornato sulle mie cose. Dico solo che a volte questa situazione per me ha influito oltre che sul piano psicologico, anche su altri aspetti della mia vita e del mio lavoro. Ed è stato difficile, o per lo meno avvilente. Mi rincuora tantissimo, però, tutto il supporto e la vicinanza che ricevo da tantissime persone, sia online nei messaggi e nei commenti che offline, quando ad esempio vado alle manifestazioni. Forse in nessun momento storico c’è stato questo appoggio al popolo palestinese.

Pensi che questa cosa stia “facendo male" alla tua carriera?

Non lo so, non lo so ancora almeno. Ma per me non si pone il quesito perché non riuscirei a fare altrimenti. È impensabile per me non parlarne, soprattutto adesso. Se parlarne fosse un rischio, allora sarebbe un rischio che scelgo e che ho sempre scelto di prendermi.

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Cosa pensi di quello che hanno detto Ghali e Dargen a Sanremo?

Non avevo dubbi su Ghali, ero certa avrebbe detto qualcosa perché da anni sostiene la causa e ne parla. Sono stata contenta del suo intervento e di quello di Dargen. Entrambi hanno fatto appelli per la pace e l’interruzione delle violenze, è assurdo che questo scateni polemiche: dire che non si devono uccidere 9000 bambini in quattro mesi non può essere un’affermazione controversa e il fatto che per una certa parte della nostra opinione pubblica lo sia, dà la misura di quanto siano disumanizzati i palestinesi e di quanto razzismo c’è nei confronti loro, degli arabi e dei musulmani in generale. L’odio verso i musulmani non è minimamente percepito come una cosa problematica in occidente, mentre l’odio verso i credenti in qualsiasi altra religione è giustamente inaccettabile.

La parola "genocidio" è diventata un grande tabù. Perché invece è importante usarla?

Perché Israele sta facendo di tutto per far passare l'idea che lo sterminio del popolo palestinese sia dovuto all'eliminazione di affiliati ad Hamas, e che dunque è una reazione giustificata e legittima. Dalle immagini che diffonde lo stesso esercito israeliano, però, le vittime che uccidono brutalmente sono anziani, donne, ragazzini, persone con mobilità ridotta, bambini, medici e giornalisti. Se devi eliminare Hamas, allora perché devi colpire un intero popolo di milioni di persone? Sarebbe come a dire che lo Stato italiano per eliminare la mafia e trovarne i capi bombardasse a tutto spiano l’intera Sicilia. Ma essendo le vittime di tutto questo persone arabe, musulmane e non bianche, questa cosa non fa scalpore e i governi si girano dall’altra parte. Se poi non vogliamo usare la parola genocidio, allora è pulizia etnica, che forse è pure peggio.

Laila Al Habash a La Notte dei CBCR - foto Luca Secchi
Laila Al Habash a La Notte dei CBCR - foto Luca Secchi

Riesci ad augurarti qualcosa per il futuro? 

Che cessi il fuoco e che arrivino tutti gli aiuti umanitari di cui c’è bisogno, comprese le cure necessarie ai feriti e ai malati che devono essere curati in strutture e con mezzi adeguati. Le persone devono poter vivere in condizioni minimamente accettabili, con un tetto, vestiti, acqua potabile, prodotti sanitari, e poi riprendere l’attività delle scuole. Queste sono le cose più urgenti. Al gigantesco resto ci si può pensare appena queste cose avverranno. 

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L'articolo Laila Al Habash: “Quello di Israele è un genocidio, ma qui l’odio per gli arabi non è visto come un problema” di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2024-02-21 09:24:00

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