La Terra vista dallo Sputnik: Luca Carboni racconta il suo nuovo album

Alla vigilia della pubblicazione del nuovo album "Sputnik", ce lo siamo fatti raccontare direttamente da Luca Carboni

Luca Carboni
Luca Carboni

Ancora una volta si è circondato dei migliori tra i giovani autori italiani, ma non ha tralasciato di mettere in "Sputnik", il nuovo album, un brano tutto suo: alla vigilia della pubblicazione, abbiamo incontrato Luca Carboni, per farci raccontare presente, passato e soprattutto futuro della nuova musica italiana.

Partiamo dai riferimenti musicali di “Sputnik”: io ci ho sentito tanti anni ‘80 e mi ha fatto sorridere pensare che in molti casi li hanno portate nel disco gli autori con cui hai collaborato, che negli anni ’80 ci sono nati, mentre tu già facevi musica. Che effetto ti ha fatto vederti proporre riferimenti che in realtà appartengono più a te che a loro?
Sì, è vero quello che dici. Ad esempio, l’incontro con Calcutta per il brano che poi è finito nell’album, ovvero “Io non voglio” è iniziato con lui che dice: «Mi è venuta un’idea ascoltando “Fragole buone buone”». Ed effettivamente c’è un gioco molto simile: quando me la fece sentire c’era la chitarra, era una versione molto acustica, poi pian piano la canzone si è trasformata, perché io avevo una visione molto più elettronica del disco e poi è nata questa idea del testo. C’erano degli elementi “miei”, ma probabilmente se non ci fossero stati lo stesso Edoardo non mi avrebbe portato questa canzone. Devo dire che io avevo lanciato l’appello che volevo collaborare con un po’ di questi nuovi ragazzi e artisti importanti della nuova generazioni, come Giorgio Poi, Gazzelle, Calcutta stesso. Ma non lo posso imporre. Le collaborazioni sono nate perché c’è stato un punto di contatto e poi sono venute fuori tre canzoni molto importanti del disco, che sono figlie di un confronto vero autorale, quindi anche se sono riuscito a portarli tutti sulla mia visione elettronica del disco penso che appartengano anche a loro.

È una dinamica da band, come se tu avessi una band con ognuno di questi collaboratori…
I miei inizi sono stati con una band, ci chiamavamo Teobaldi Rock, era una band che cercava già all’epoca di unire l’attenzione dei testi dei cantautori al punk che arrivava dall’Inghilterra, senza trovare forse ancora una strada perfetta, pero c’era questa idea. Io ho sempre scritto con una band, non cantavo e quindi la condivisione della scrittura fa parte della mia storia. Poi questa band si sciolse, cominciai a fare l’autore da solo e da lì poi è nato anche il fatto di cantare quello che scrivevo, però sono sempre rimasto un po’ orfano della band, quindi a me piace molto la condivisione della scrittura, e anche del palco se possibile

Immagino che questa visione da autore che ti renda contento del fatto che tutti questi autori più giovani riescono a piazzare moltissimi pezzi in giro… Cosa sta succedendo? Cosa mancava prima?
Questa nuova ondata di cantautori c’è perché sicuramente rispetto a un po’ di anni fa è ritornata un’ondata di interpreti che hanno bisogno di avere materiale da dei bravi autori. Secondo me però è anche molto importante, e lo dico nonostante abbia fatto l’autore, che a un certo punto si cerchi di non svendere il proprio mondo. Se questi autori riescono a essere anche cantuatori devono stare attenti a difendere la loro identità. Il grande pop, quello di successo, ha sempre vissuto sugli esperimenti di molte realtà che poi non si sono potute evolvere.

Il disco ha un immaginario che ha radici nel periodo della guerra fredda: i CCCP dicevano che l’Emilia era la più filosovietica delle province dell’impero, cosa è rimasto di quel mondo?
Sicuramente si sta trasformando tutto. Credo che allo stato attuale sia rimasto un substrato del buono che c’era nella dimensione emiliana, ovvero un mix tra attenzione verso le persone più deboli e il tentativo di creare delle situazioni di cui tutti potessero usufruire. Una filosofia di sinistra che ha permeato il nostro territorio e che un po’ è rimasta nella nostra cultura. Naturalmente sta cambiando tutto e non ci sono nemmeno più i CCCP.

Per tutta la seconda metà del ‘900, Bologna è stata una città fondamentale per la cultura e per la musica italiana. Perché un ragazzo oggi dovrebbe venire a Bologna per cercare qualcosa?
Bologna secondo me con tutti i difetti, è una città molto viva perché c’è l’incontro tra questa emilianità e gli studenti universitari, quindi tutta l’Italia giovane che in qualche modo arriva lì e porta culture diverse. È una sorta di termometro di tutto il paese, un piccolo centro che fa presto ad essere contaminato dall’esterno, per quanto sia più chiusa di quanto possa sembrare. In realtà bisognerebbe chiedere a ragazzi come Calcutta e Giorgio Poi se sono venuti a vivere a Bologna per un fatto di viabilità, di comodità geografica o anche per un fatto di atmosfera, cultura.

Un altro autore con cui hai lavorato è Alessandro Raina, con cui avevi già collaborato nel disco precedente: mi sembra che abbiate trovato un punto d’incontro forte.
Io e Alessandro ci siamo conosciuti lavorando su “Pop-up” e abbiamo fatto insieme “Bologna è una regola”, una cosa credo molto bella e a cui sono molto legato. In questo disco ho cercato un po’ di ripetere la magia coinvolgendolo ancora tanto e insieme è nata una canzone molto importante del disco che è “Amore Digitale”, ma anche “I film d’amore”, che ha un vago riferimento a Berlino come “Bologna è una regola”. In realtà è una Berlino diversa: qui c’è il racconto dei miei 20 anni, la Berlino è quella del muro, invece la Berlino di “Bologna è una regola” è la Berlino attuale, forse una fuga pseudo intellettuale di qualche giovane che vuole vivere una nuova esperienza mitteleuropea.

“Sputnik”, l’ultima canzone dell’album, è l’unica che hai firmato da solo ed è molto diversa dalle altre, quasi un’invocazione finale, una sorta di augurio.
“Sputnik” è la canzone che chiude l’album ed è l’unica canzone quasi senza ritmica, ho voluto lasciarla un po’ sospesa, con un’atmosfera da ballata spaziale. È quella che ha fatto nascere tante idee sul resto del disco, quindi per me è difficile separarla o ritenerla un mondo diverso dalle altre. Credo che sia una canzone d’amore verso il fatto di avere cose da dirci e cose da esplorare, che è un po’ la mia filosofia.

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L'articolo La Terra vista dallo Sputnik: Luca Carboni racconta il suo nuovo album di Marco Villa è apparso su Rockit.it il 2018-06-06 16:20:00

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