Relazione a distanza tra due, uno in Norvegia e uno in Italia, che continuano a mandarsi mail al fine di costruire un suono, e a quel punto è difficile capirne la nazionalità. Loro sono affascinati dal french touch, dicono, e da molto altro. "These Days" si posiziona tra i migliori dischi dell'anno e rappresenta un nuovo punto d'arrivo, partito ormai tempo fa dove l'elettronica era tutta sbagliata e senza una direzione e precisa. Ci raccontano come siano riusciti a farla andare dove volevano loro. L'intervista agli M+A.
Cosa state facendo?
Alessandro: Io sono a Bergen, sto scrivendo la tesi.
Michele: Io sto mettendo a posto le valigie. Domani (lunedì 7 Ottobre, nda) partiamo per il tour in Inghilterra.
Se vi avessero detto tempo fa che avreste diviso il palco con grossi nomi come Moderat, Pantha du Prince, Nicolas Jaar, che avreste detto?
A: Se ci arrivi è perché si tratta di parte di un processo, quindi in un certo senso te lo aspetti perché lo hai voluto.
Andiamo a gamba tesa: quanto vi sentite italiani.
M: Ascoltando questo disco ci sono tante cose di certa musica italiana degli anni '70 da poterci trovare, però non è assolutamente ragionato, abbiamo ritrovato questo sapore dopo molti ascolti.
A: Il nostro essere italiani magari in quest'album qui si è visto per il colore, un tantino più esotico, il primo album era più nordico come atmosfere. Poi, come diceva Michele, per noi è difficile da percepire, magari da fuori invece si, ce l'hanno scritto anche in diverse recensioni inglesi. È un po' quello che succede ai Phoenix, agli Air, che comunque mantengono sempre degli elementi francesi, però per loro è difficile ammetterlo. Alla fine è la stessa cosa che guardarsi ad uno specchio, gli altri riusciranno sempre a elencarti meglio le tue caratteristiche.
Spieghiamoci, essere italiani può diventare un più o un meno?
A: Probabilmente il fatto di essere italiano all'estero può aiutare ad essere riconosciuto subito. Dal punto di vista del fare viene invece a metterci i bastoni fra le ruote. A nostro avviso se l'album fosse nato e promosso in altri territori avrebbe avuto altri sviluppi.
Forse quello che più cercano all'estero è la tipicità, dire “sentiamo la musica elettronica italiana”.
A: Per questo ti dico che sentire nel disco questo calore esotico per loro è notevole e interessante, non è stata una scelta, è venuto fuori perché siamo cresciuti in Italia, tra atmosfere, culture, c'abbiamo queste radici. Non siamo Erlend Oye che lo facciamo per forza, ci viene indiretto, così come esce indiretto a qualsiasi producer inglese buttare nella sua roba il background pop col quale è cresciuto.
Allora proviamo a dire tre dischi italiani pop che avete sottopelle, magari anche contro la vostra volontà.
M: Guarda, se è entrato di sfuggita non lo so. Anche pensando ai vecchi lavori, ti dico compositori come Cipriani, Cordio, la musica vecchiona, quella da colonna sonora. Pop non so, magari c'è ma non me ne rendo conto. Facendo un inventario non mi viene in mente tanto.
A: Io quando mi buttavo anche da piccolo sul pop era sempre roba che veniva da fuori, mai italiana. Che ne so, 5ive, Backstreet Boys...
Dipende anche da che cosa uno intende per pop. Per quanto riguarda quello italiano, vengono in mente figure come Battiato, Battisti...
A: Mai ascoltati. Almeno personalmente...
M: Sì, sentiti perché passavano per casa ma mai veramente ascoltati.
A: Esatto.
Quali sono allora le band vi hanno aiutato ad approcciarvi a questo tipo di musica?
M: Al primo posto sicuramente gli Air. Anche quando non li riascoltiamo, ci ritorniamo sempre.
A: Siamo molto abituati a non affezionarci a grupponi o santi, non per scelta ma perché siamo fatti così... Poi ci sono alcune cose che rimangono nella libreria di iTunes e gli Air sicuramente sono fra queste. Ultimamente mi verrebbe da dire anche i primi Blur, o forse proprio Damon Albarn che è bizzarro come personaggio con tutte quelle produzioni legate all'Africa che ha fatto.
“These Days” è una sintesi del vostro percorso?
M: Prima di “These Days” avevamo avuto un periodo di ripensamenti. Pensavamo ad una pausa che alla fine non c'è stata perché siamo andati avanti a mandarci delle gran mail, cercando di togliere anche dei paletti che avevamo messo nei vecchi lavori. Da qui siamo arrivati ad una cinquantina di bozze che suonavano tutte in maniera diversa, il che è stato un gran delirio quando siamo entrati poi in fase di scrematura. Sembra un disco infarcito di occhiolini a questo o a quello, in realtà è il meno meditato e il più autoreferenziale che abbiamo fatto.
Come siete organizzati a livello produttivo?
A: In realtà l'unica cosa davvero bizzarra di questo album è che è stato pensato per essere suonato con un'orchestra. Ci sono chitarre, violini e pochi strumenti elettronici. Alcune cose sono suonate, altre campionate; il sound bizzarro viene anche da lì. Batteria, voce e piano sono registrate in studio, il resto è fatto in casa.
Quando avete fatto uscire “things.yes”, nelle interviste dicevate che si trattava di un album di elettronica sbagliata. È successo pure stavolta?
A: Io percepisco che anche in questo album ci sia un margine di errore alto, cioè non è perfetto ma questo, come per “things.yes”, permette che sia apprezzato da più persone. È un disco meno schierato.
Sicuramente ci sono meno cose dentro.
M: Sì, mentre nell'altro spuntavano fuori cose “a caso”, cioè nel senso buono... Direi che più che per i suoni il discorso vale per le melodie: “things.yes” ne aveva molte che si intrufolavano di qua e di là, forse perché usavamo più strumenti elettronici.
Vi sentite di essere parte di un percorso dentro al quale il prossimo disco rappresenterà un nuovo punto di arrivo per M+A?
A: Quello senza dubbio. “These Days” ha il pregio di avere melodie che funzionano in diversi contesti, dal pezzo finito alla versione per chitarra o perfino come suoneria del cellulare. Questa è una cosa sulla quale ci siamo spesi molto. Da qui mille provini con mille versioni, che poi sarebbe l'abc del musicista ma nell'elettronica spesso questo non accade. Poi noi abbiamo proprio il problema che non riusciamo mai veramente a fermarci per goderci quello che abbiamo fatto sinora, per questo stiamo già pensando a nuove cose, nuove atmosfere.
Dal vivo come vi gestite?
A: Ci stiamo organizzando per far sì che in molti concerti ci sia anche il batterista, anche se lo spettacolo funziona bene pure senza. Il live ha una struttura più elettronica e quindi è anche più ballabile rispetto al disco.
M: Da un lato abbiamo ancora un approccio molto suonato al live, e infatti ci vorremmo portare dietro un batterista che possa però fungere più da percussionista. Nella versione ridotta siamo più performativi, ma senza strafare perché non ce lo possiamo permettere...
A: ...anche dal punto di vista logistico/tecnico, se vuoi.
Un live che vi ha colpiti particolarmente negli ultimi tempi?
A: Probabilmente siamo le persone che vanno meno ai concerti del mondo. Quando sarà stato l'ultimo, nel 2003?
M: Sì dai, i Röyksopp nel 2007.
A: Sì, capite insomma le tempistiche...
A proposito di tempistiche, quanto ci avete messo a scrivere “These days”?
M: Quattro, cinque mesi per la scrittura vera e propria dei pezzi. Poi un sacco di tempo per le registrazioni, visto che viviamo in città diverse. Il disco sarebbe potuto uscire quasi un anno fa, per dire.
A: Sì, poi ci sono stati dei discorsi interni di etichetta.
Chi scrive i testi?
A: Nessuno.
M: Sì, nel senso che questi in inglese sono improvvisati in studio senza usare un vero e proprio linguaggio.
Voi già da prima usavate infatti una specie di grammelot alla Dario Fo...
M: infatti la base è rimasta quella, l'unica cosa diversa è che io tornavo a casa con la registrazione ed associavo ogni un suono ad una parola realmente esistente. Ricorda un po' la scrittura automatica, ma la tecnica è quella dell'improvvisazione jazzistica.
A: Non sapete quanti ci dicevano "Figo 'sto testo", senza che si percepisse la reale casualità del loro stupore.
Quanto la copertina rispecchia il vostro album?
A: La copertina ha avuto molto successo sinora, ed è quello che deve fare l'artwork di un album, credo.
M: Sì, era come se ci fosse l'idea della copertina ancora prima dell'album. Un album floreale, ricco, e quindi identificante con l'artwork. L'altra copertina, invece, se vuoi era bella ma più anonima. Questa è una dichiarazione di intenti.
Avete mai pensato ad un producer che vi guidasse nella realizzazione delle vostre idee?
A: Per quanto riguarda la scrittura dei pezzi non sentivamo questa esigenza, però per quanto riguarda arrangiamento e produzione sì. Ci eravamo informati ma i prezzi erano esorbitanti. Facendo come abbiamo fatto abbiamo potuto prenderci più tempo. L'idea infatti per il prossimo album, se ci sarà, sarebbe quella di avere davvero qualcuno che possa svoltare la situazione. A questi livelli possiamo fare da soli senza sentirne la mancanza.
O puntate in alto o nulla, insomma.
A: Sì, o ci scrive i pezzi quello che lavora per Lady Gaga o non ha senso (ride, nda).
M: Abbiamo pensato a questo disco infatti come ad un'esca. Forse non si apriranno molte porte con questo disco perché non sfonderà certi tetti, però vorremmo che creasse il giusto interessamento da parte di tanti addetti ai lavori.
A: Sì, esca nel senso che già se ci portasse di fronte a nomi grossi per produrre il prossimo o a suonare live in grossi festival, avrebbe fatto il suo dovere.
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L'articolo M+A - Puntare in alto di Marcello Farno e Francesco Fusaro è apparso su Rockit.it il 2013-10-21 13:26:55
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