Mahmood, un Narciso che scappa dal suo riflesso

Il mito, la strada, Netflix, Hot Wheels, il Sahara, le radici sarde (e le lacrime della madre): il musicista italo-egiziano ci racconta il suo "Ghettolimpo", in cui tenta "di arrivare a un punto d'incontro" tra pop raffinato e urban e tra la fatica e la gioia del successo

Mahmood - foto stampa
Mahmood - foto stampa

Pochi mesi dopo aver vinto la 69ª edizione di Sanremo con Soldi, Alessandro Mahmoud si affaccia dal finestrino di un aeroplano in volo e vede sotto di sé il Sahara. Non lo ha mai visto così, e forse non è l'unico momento in cui prova la sensazione di trovarsi più in alto di quanto avrebbe mai creduto possibile anche solo qualche anno prima, mentre scriveva i primi pezzi come Mahmood a bordo dei mezzi pubblici di Milano.

Milioni di streaming e 15 dischi di platino dopo, quello del cantautore italo-egiziano è oggi il nome di un hitmaker da singoli globali, emblema di un urban pop di grande successo anche come autore, da Nero BaliAndromeda per Elodie ai ritornelli per i maggiori rapper italiani (Luna per Fabri Fibra, Doppio whisky per Gué, Non sono Marra per Marracash), fino al ritorno dietro le quinte sanremesi 2021 nella scrittura di Glicine per Noemi e Chiamami per nome per Francesca Michielin e Fedez.

Oggi, dopo i singoli Rapide, Moonlight popolare (feat. Massimo Pericolo) e Dorado, il ritorno con Ghettolimpo: un album su cui era al lavoro da due anni, con 14 tracce popolate da divinità greche ed eroi quotidiani. E che ha nel proprio nucleo le relazioni: quella con noi stessi e con il nostro riflesso più oscuro e distorto di cui gli altri ci svelano a volte l’esistenza, ma anche quella dei rapporti di coppia e dei legami con le proprie origini e con la propria famiglia, in un olimpo permeato da una tensione verso l’irraggiungibile, dove convivono echi di muezzin e ispirazioni manga, attraverso diamanti, cobra e viaggi da Parigi alla Tunisia.

Un disco dalla produzione variegata – MUUT, Dardust, Francesco Fugazza e Francesco Catitti, con Davide Petrella e Salvatore Sini a figurare invece tra gli autori – e featuring –  pochi, ma molto precisi (Elisa, Woodkid e Sfera Ebbasta), che molto dicono delle ambizioni dell'album. Ne abbiamo parlato con Alessandro, per approfondire le diverse metà che convivono nel suo Ghettolimpo, dove “nessuno è immortale e nessuno è un semplice umano”.

Ghettolimpo è un disco che trae ampia ispirazione dalla mitologia greca. Perché ti sei rivolto a questo mondo?  

È sempre stata una mia passione fin da quando avevo sette o otto anni. Mia mamma mi aveva comprato un’enciclopedia per ragazzi, che alla fine aveva un dizionario mitologico. Ricordo che la leggevo spesso, ero propria in fissa. Ne parlo nell’intro di Dei: il pezzo si apre con una filastrocca sugli dei dell’Olimpo proprio per partire da questa mia parte infantile, quando chiudevo gli occhi e mi immaginavo proprio di viverlo, questo Ghettolimpo.

Che è “un universo popolato di dei, insieme alle esperienze di eroi moderni, che vivono la loro quotidianità”. 

Ho iniziato a giocare su questo mescolare quotidianità e mitologia già in Rapide, dove dico: “Il ricordo è meglio dell’Ade”. Il trip è partito lì. Tra tutti, il mito di Narciso è forse quello che mi rappresenta di più, anche se in maniera contraria.

Cioè?

Ho scelto di raffigurarlo nella cover proprio perché da piccolo era uno dei miti preferiti. Però, mentre Narciso si innamora della propria immagine, morendo, io non mi riconosco nel mio riflesso, anzi, vedo proprio un’immagine distorta. È quello che è successo dopo Sanremo: in un primo periodo, amici e familiari facevano un po’ fatica a relazionarsi con me. Non sapevano come farlo, erano strani nei miei confronti, perché mi vedevano diverso, cambiato. Io mi guardavo allo specchio e mi vedevo sempre lo stesso. La cover e tutto il disco si riferiscono agli ultimi due anni e mezzo.

Proprio in Ghettolimpo scrivi: “Del mio Narciso è rimasto il sorriso più brutto”.

Esatto, però “giuro che lo cambierò”. Ghettolimpo è un disco molto scuro, io tendo spesso ad essere un po’ negativo. Ma, alla fine, cerco di trovare il lato positivo. Anche nel pezzo Ghettolimpo in sé, nonostante tutta la canzone parli di periodi difficili e complicati, alla fine scrivo: “Nel buio guarda tua madre, ti dirà l’amore è ciò che ti resta”. È un po’ il risvolto positivo del disco. Come in Icaro è libero: nel pezzo paragono il mito di Icaro, che è la rappresentazione della cosa che non si può fare, cioè toccare il cielo, ad un carcerato, a colui che ha fatto ciò che non si può fare, finendo per questo in carcere. Anche in una situazione di disagio mi ha fatto trovare una parte positiva. Infatti alla fine del pezzo parlo del volo: anche se sei dentro quattro mura e tutti ti dicono che è impossibile volare e vedere il cielo, se tu chiudi gli occhi e senti il vento sulla faccia, puoi anche immaginartelo.

Il disco è stato anticipato da un singolo già disco d’oro, Inuyasha: una ballad ispirata a un manga giapponese (e da cui è nato un fumetto per la rivista Manga Vibe, realizzato con il fumettista Redjet e di cui Mahmood è protagonista, ndr), in cui il protagonista rinuncia a diventare un demone completo per proteggere i propri compagni di viaggio, riuscendo a contenere la propria parte più oscura, mettendola dentro una crisalide. Questa incompletezza non è anche un rischio?

Inuyasha parla anche di equilibrio. Tutti possediamo una parte negativa e una positiva, vanno bilanciate. Nel pezzo parlo proprio di quando la parte oscura non è bilanciata, ma sovrasta l’altra parte. Parlo proprio di equilibrio, che ogni tanto si perde, soprattutto durante le relazioni. Che è un male, perché non si dovrebbe rigettare sull’altra persona tutto questo male.

Hai citato la difficoltà del periodo che ha seguito la tua vittoria a Sanremo. Di quel periodo racconti anche in Baci dalla Tunisia: un pezzo scritto a Cannes, in cui ti confronti con la complessità del successo. 

Si tratta comunque della via di mezzo di cui ti parlavo prima. Da un lato, c'è il lavorare in un mondo dove sei impegnato tutti i giorni, non sei mai a casa, prendi due aerei al giorno e viaggi tanto. La drammaticità negli affetti che non puoi vedere, dai tuoi amici alla famiglia. Però, c’è anche la parte positiva: viaggiare, conoscere nuovi posti, vedere il Sahara dall’aereo come non l’avevo mai visto. In questo disco convivono sempre un lato positivo e un lato negativo. È proprio come mi sentivo in quel periodo: un po’ stanco ma allo stesso tempo felice, al punto che ogni tanto mi svegliavo e pensavo fosse tutto un sogno. È un disco che sta sempre nel mezzo. Il significato di Ghettolimpo sta proprio nella parola: da una cosa altissima come l’olimpo a un luogo bassissimo come il ghetto, credo che questo disco rappresenti il tentativo di arrivare a un punto d’incontro.

Nel disco è presente anche un brano meraviglioso, T’amo, dedicato a tua madre e alla Sardegna. È la prima volta che celebri questa parte delle tue origini in modo così compiuto. 

Tengo molto a questa canzone, che credo sia un po’ il DNA del disco. La mia radice vera e propria, dove tutto ha iniziato. Ho sempre parlato della mia origine araba ma mai di quella sarda, che è quella che in realtà mi appartiene maggiormente, se pensi che a casa con mamma parlo sardo. 

Nel pezzo ti accompagna anche un coro sardo.

L’idea mi è venuta l’estate scorsa: vado sempre in una spiaggia vicino al bar di mia cugina Antonellina, quando le ho detto che avrei voluto realizzare questa canzone con coro sardo mi ha risposto: "Alessà, ma guarda che io canto in un coro sardo (ride, ndr)". È un coro femminile del mio paese, Orosei. Non avevano mai cantato con un click o con una base, per sei mesi ci siamo sentiti con l’insegnante del coro e con i miei musicisti. È un coro bello anche perché è composto da ragazze giovani, ma anche da signore di una certa età, che erano molto divertite. È stata una sfida che è uscita bene: volevo creare un mood quasi di preghiera, ma di una preghiera senza religione. Anche in Ghettolimpo scrivo: “Pregherai da solo fuori da una chiesa”. Una frase che sta a definire una preghiera verso qualcosa che non conosci di altro, quasi di olimpico. Questo sapore di preghiera si sente anche un po’ verso la fine di T’amo.

Dove hai anche cantato A Diosa (No Potho Reposare).

Ne sono davvero felice e anche appassionato. Per me, è l’inno sardo per eccellenza.

Oltre a questo, come dicevi è un brano dedicato a tua madre e alle difficoltà che avete attraversato insieme. Di lei dici: “anche quanto non ti sento, il tuo giudizio mi pesa”.

Siamo cresciuti nella stessa casa fino ai miei 27 anni. Sento molto l’imprinting della sua educazione: qualsiasi cosa faccia, è come avessi sempre un grillo parlante nella testa.

Come ha reagito quando ha sentito T’amo?

Si è messa a piangere. Mi fa anche un po' ridere parlarne, in questo momento c’è qui lei che mangia il pollo (in sottofondo si sente una voce di donna che ride, ndr).

Nel disco sono presenti anche alcuni featuring, tra cui quello con Elisa in Rubini. Com’è nato?

Non è il primo pezzo che abbiamo scritto insieme. Ho collaborato con molti artisti sia italiani che stranieri. Ho scelto lei e Woodkid perché sono le collaborazioni a cui ho partecipato di più, anche a livello di lavoro. Il pezzo con Elisa è nato da un provino che mi ha fatto sentire Klaus (Claudio Bonoldi di Universal, ndr), scritto da lei per altri e che mi era piaciuto e che alla fine ho preso per me. Ho riscritto e rilavorato più volte la strofa: siamo partiti da una produzione più pop e in seguito abbiamo aggiunto delle chitarrine per renderla più r'n'b. Un tipo di lavoro realizzato anche con Woodkid in Karma: ci siano conosciuti a una sfilata, in seguito sono andato a Parigi più volte per collaborare al brano, di cui ho scritto la strofa prima in inglese e in seguito anche in italiano. 

Un altro featuring è quello con Sfera Ebbasta, con cui duetti in Dorado.

Quello di Dorado è un beat videogame. Quasi tutto il concept di Ghettolimpo è stato scelto in base a questo concetto, ogni canzone costituisce un livello e un personaggio. Chiamo beat videogame quei beat che mi ricordano un po’ le sigle per esempio di Supermario (inizia a canticchiare il beat di Dorado, ndr). Ce ne sono altri all’interno del disco, è un altro carattere di Ghettolimpo. Per esempio Kobra e Talata. È una cosa ricorrente.

Dorado è brano dedicato al sogno di vivere in un mondo pieno di diamanti e di successo. Un obiettivo che sia tu che Sfera avete realizzato, ma che raccontate in modo molto diverso.

Credo Sfera fosse il trapper che più si avvicinava a quel mondo. Mi incuriosiva la sua voce con l’autotune, che è comunque molto melodica ma anche molto trap. Così come il modo in cui lui tratta il tema oro, argento e denaro, che è diverso dal mio: mi piaceva creare questo distacco nel racconto di due mondi che sono simili, ma sotto occhi diversi.

Nel disco è incluso anche Zero, un brano che hai scritto per la colonna sonora dell’omonima serie televisiva prodotta da Netflix (ambientata nella periferia milanese e che ha come protagonista un ragazzo di seconda generazione, ndr).

È stata un’avventura, non avevo mai scritto per una serie tv o per il cinema. Mi ha fatto piacere che mi abbiano chiesto anche di scegliere le canzoni per due puntate: è una cosa che avrei sempre voluto fare perché spesso mi immagino le musiche dei film, è quasi un gioco. Sono molto orgoglioso di questa serie, anche perché tratta un tema che dovrebbe interessare molto soprattutto un paese come il nostro, dove episodi di razzismo avvengono tutti i giorni. Il pezzo è stato scritto anche da Davide Petrella e Dardust: tra le tante persone che mi hanno aiutato a creare Ghettolimpo ci sono loro due e sono felice che questa prima volta sia stata insieme a parte del mio team. 

Prima hai citato Kobra, forse l'unico pezzo del disco così diretto verso detrattori e hating e che nel video vede una tua collaborazione con Hot Wheels.

L'ho scritta prima di Rapide. Ho voluto fare una canzone cattiva, per me la più cattiva del disco. È uno sfogo verso l'hating, verso le persone che vogliono fare le amiche, ma ti cui in realtà non ti puoi fidare, che ti vogliono mordere proprio come i cobra. Sono felice della collaborazione con Hot Wheels: da piccolo avevo la pista con il giro della morte, con cui giocavo sempre in salotto. È un altro elemento del disco che appartiene alla mia infanzia, che c’entra con me e con le cose che voglio raccontare.

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A questo pezzo fa da antagonista Klan, in cui racconti della tua famiglia.

Esatto. Per fidarti ciecamente delle persone devi affrontare con loro delle esperienze, che sono quelle di cui scrivo in questo pezzo. Klan parla proprio di questo: di inclusività, famiglia, eliminazione delle barriere sessuali e di gender. Anche nel videoclip, la scelta mia e del regista (Attilio Cusani, ndr) è stata quella di mettere ragazze e ragazzi nelle stesse docce per evitare distinzioni. A volte, cercando di salvare qualche categoria, si rischia di creare più paletti, di mettere sempre più barriere. Io penso che sarebbe bello un mondo senza barriere.

La prima intervista che hai rilasciato in prossimità all'uscita del disco è stata a Verissimo, qualche settimana fa. Commentando le differenze tra il tuo lavoro come autore per altri e il percorso di scrittura per i tuoi brani, hai dichiarato che a volte scrivere per gli altri è più facile, perché “quando scrivo per me voglio raccontare la verità, ma in un modo che mi piace e la verità non è sempre bellissima”. Pensi di esserci riuscito in Ghettolimpo?

Ci sono riuscito, perché ascoltando queste canzoni dopo due anni non mi annoiano. Quindi, in un modo o nell’altro sono riuscito ad accontentare me stesso. Sicuramente, è un disco che ha bisogno di qualche ascolto: è nato in una fase di sviluppo sonoro in cui sono andato in profondità, dovevo fare un po’ di ricerca a livello sonoro, di significato. Ghettolimpo è un disco che ha tanti lati di me, molto ricco, forse con poca sintesi. Ma si trattava di un passaggio necessario per la mia crescita artistica, che sentivo di dover fare. 

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L'articolo Mahmood, un Narciso che scappa dal suo riflesso di Giulia Callino è apparso su Rockit.it il 2021-06-14 10:11:00

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