Kobenhavn store - Mail, 01-02-2008

( I Kobenhavn Store - Foto di Paolo Proserpio)

Si parla da un po’ dei Kobenhavn Store, in uscita questo venerdì con il loro disco d’esordio, “Action, Please!”, pubblicato dalla 42 Records. Di sicuro, l’imponente parterre a supporto del progetto, che vede le voci di Alessandro Raina (ex Giardini di Mirò, Amor Fou), Jonathan Clancy (Settlefish, A Classic Education), Fabio Campetti (Ed Wood) e Simone Magnaschi (Stinking Polecats), ha contribuito ad amplificare le attese intorno a questo album. Nessuno, però, sembra sottolineare il dato più importante. I Kobenhavn Store fanno post rock. E spaccano. Manfredi Lamartina li ha intervistati.



Nella scheda di presentazione del disco voi scrivete: “Chi ci conosce bene sostiene che sono tre le caratteristiche che ci rendono compatibili come essere umani e uniti come band: istinto, disordine e cuore”. Come si fa a tenere unite queste caratteristiche? E soprattutto, come si fa ad incanalare il disordine in arte e non in anarchia creativa?
Chi ha mai detto che l’anarchia creativa non può essere arte? Certo, ci vuole un po’ di ordine per la composizione dei brani altrimenti si rischierebbe di essere troppo dispersivi, ma abbiamo un nostro metodo molto istintivo. Riguardo al disordine, fa parte di una nostra impostazione mentale… siamo caotici, confusionari e ci piace riversare questa cosa anche nella nostra musica. Siamo di quelli che nel casino della stanza trovano tutto e si sentono a proprio agio. Amiamo i suoni sporchi e lo-fi e i nostri pezzi hanno una media di sessanta tracce l’uno per tutta la roba che abbiamo voluto infilarci dentro. Giacomo (Fiorenza, il produttore, Ndr) in studio è davvero impazzito!

Vi avevamo conosciuto che annegavate nello shoegaze, e ora vi ritroviamo persi nelle nebbie del post rock. Che cosa è successo?
Uh! Questa è una domanda parecchio epica. Dunque prima annegavamo ed ora siamo dispersi nella nebbia? Beh, se non altro stiamo migliorando la nostra condizione meteo/ambientale. In realtà un tempo giocavamo molto di più con l’elettronica, c’erano pochi interventi acustici e reali. Oggi è una continua lotta (per mantenere il filone medioevale) di equilibri tra i nostri strumenti e le “macchine”, ma rimangono mille contaminazioni, dall’hip hop allo shoegaze, dall’elettronica glitch al pop, dall’indie al post punk e così via.

Due anni di lavoro per “Action, Please!”. Siete contenti? C’è qualcosa che non rifareste?
Due anni di lavoro per “Action, Please!”. Questo non rifaremmo. Il prossimo disco probabilmente sarà più rapido ed istintivo, almeno quanto lo sono le nostre sessioni creative. Comunque sì, siamo soddisfatti. Ha un suono molto personale ed era quello che volevamo. In realtà appena concluso eravamo pieni di paranoie e di cose che avremmo voluto rifare. Penso che sia normale e crediamo che in quei casi bisogna avere la capacità di ascoltare i propri pezzi in maniera distaccata. Non è facile.

Quanto è stato importante l’apporto della 42 Records? C’è ancora bisogno delle etichette musicali oppure ormai una band emergente può farne tranquillamente a meno?
L’etichetta ideale è quella che si innamora davvero del progetto e ci mette anima e cuore per sostenerlo. La 42 è esattamente così. E’ gestita da due persone fantastiche che vivono di/per la musica da anni e che ci stanno facendo crescere nel migliore di modi. In questo senso sarebbe davvero dura e soprattutto stupido farne a meno. Non sono indispensabili invece quelle realtà estemporanee che non fanno altro che “inquinare” un ambiente che, oltre ad essere già abbondantemente saturo, è spesso ricco d’improvvisazione.

“Post core” come titolo sembra una dichiarazione d’intenti.
In realtà non abbiamo pensato molto al nome di quel pezzo. Era un titolo che avevamo dato a caso per nominare il file audio della versione demo e lo abbiamo tenuto. Sì, può rendere l’idea. Su quel pezzo abbiamo spinto molto sulle distorsioni e sul noise ispirandoci ai fratelli Reid, ai My Bloody Valentine e ai Flying Saucer Attack mantenendo comunque la nostra vena post rock “emozionale”.

Di che parla “Black Rebel Trycicle Club”? Di un gruppo rock quasi omonimo?
Crediamo sia un pezzo abbastanza visionario. Il testo lo ha scritto Simone Magnaschi (uno dei nostri ospiti) e il significato dovreste chiederlo a lui. Non pensiamo che riguardi il gruppo quasi omonimo in quanto si riferisce a quel film degli anni ‘50 “The Wild One” con Marlon Brando.

Come siete entrati in contatto con gli ospiti del disco?
Beh, Simone Magnaschi lo conoscevamo bene. Viviamo nella stessa città ed è un ex componente dei defunti Stinking Polecats, una delle realtà punk rock più fighe che abbiamo avuto in Italia. Gli altri sono stati contattati personalmente e fin da subito si sono mostrati entusiasti e disponibili a collaborare con noi.

Non temete che quella degli ospiti sia una mossa che tenda a camuffare l’identità di una band come la vostra? Non era meglio dotarsi in organico di un cantante a tempo pieno? Dal vivo come farete?
Potrebbe accadere se, appunto, si trattasse di una “mossa”. Ma non è andata cosi. Molto più semplicemente non sentivamo l’esigenza di adottare un cantante a tempo pieno. Le canzoni sono nate strumentali, le voci sono state registrate in seguito. Sinceramente non abbiamo mai pensato di comporre brani per questo o quel artista, ma esclusivamente per Kobenhavn Store. Poi abbiamo deciso di provare. Siamo sempre stati affascinati dalla possibilità di collaborare con artisti “esterni” al nostro progetto. Pensiamo che sia un approccio piuttosto eclettico, una grossa forma di arricchimento e non un modo per nascondersi. Effettivamente la cosa ha suscitato parecchia curiosità, forse anche per i nomi in questione e per la loro “eterogeneità”. Nel mondo dell’hip hop ad esempio, tutto questo è una prassi abbastanza diffusa. Se il progetto è solido e le cose avvengono spontaneamente e senza “premeditazione”, il pericolo di “scomparire” non sussiste. Anzi, in questo senso il fatto di essere un gruppo strumentale che si appoggia a collaborazioni per la voce non potrebbe essere una forma d’identità? La gente è abituata forse alla classica formazione da band. A noi, un po’ per necessità un po’ per volontà, piacerebbe staccarci da questi schemi e canoni e poter fare quello che ci pare essendo apprezzati in ugual modo per la nostra musica e i nostri dischi. Dal vivo fino ad oggi siamo sempre stati esclusivamente strumentali e… assordanti.

Gli ospiti del disco possono espandere la visibilità di “Action Please”?
Come dicevamo non è stato il fine ultimo, ma a questo punto speriamo di sì! Dici che forse sarebbero state meglio quintalate di bulletin su Myspace?

Per carità. Ma allora, che cosa vuol dire identità nel mondo della musica? Significa essere sinceri con se stessi. Prendiamo Franco Baresi, non si sarebbe mai sognato di fare la mezza punta nonostante facesse più figo, anche se poi sappiamo bene com’è finita tra sua moglie e Ruud Gullit.

Questo è un disco molto bello. Gioca col post rock, flirta con l’elettronica, in certi punti è puro indie rock. Quanto è stato difficile dare coerenza ad un disco tecnicamente complesso come questo?
Grazie mille, quello che dici è fondamentale ed è quello che speravamo di ottenere. Sinceramente pensiamo che questo lavoro sia coerentemente incoerente. Ci sono sempre piaciuti gli album poco lineari. Stranamente, appunto, disordinati. Sicuramente l’attitudine con cui è stato concepito funge da principale collante. In verità i pezzi sono molto diversi ma le note sono sempre le stesse e probabilmente anche per questo ti risulta omogeneo!

Quello che sembra mancare oggi è un movimento musicale in grado di segnare una generazione, come in passato è stato il punk o il grunge. È così?
Sì è così. Potremmo risponderti con tanti luoghi comuni come per esempio il fatto che gran parte della musica oggi sia fortemente influenzata da mode fin troppo passeggere e veloci, più concentrata sul “come apparire” che sul contenuto. Ci sono aspetti della società attuale che ci ricordano molto gli anni ’80. Effettivamente allora ci pensarono i punk e l’eroina a rovinare tutta quella facciata. Adesso non sappiamo davvero cosa ci si potrebbe inventare. Ma sicuramente la soluzione è già stata trovata e scritta da qualche blogger.

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L'articolo Kobenhavn store - Mail, 01-02-2008 di Manfredi Lamartina è apparso su Rockit.it il 2008-02-06 00:00:00

COMMENTI (2)

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  • enver 16 anni fa Rispondi

    Black Rebel Tricycle club è un pezzo molto bello, che cambia spesso al suo interno

  • seymour 16 anni fa Rispondi

    scusa!
    l'ho preso in anteprima al mei! io amo questi suoni!
    ma sembrano i gdm senza idee ma con le tastiere!
    scusa! non volevo smorzare! sigh! volevo anzi che mi piacessero ma!