We were OnOff - Mail, 22-01-2008

(Gli We were OnOff dal vivo - Foto da internet)

Alla fine del 2007 è uscito su Green Fog records "What does a fish think about water?" l'album di debutto degli We were onOff, Il gruppo - mezzo veneziano, mezzo padovano - dimostra di possedere ottime abilità nel tessere intrecci noise e ritmi math, accenni melodici e una voce urlata e acida. Una delle tante nuove speranze della scena sperimentale italiana. Ester Apa li ha intervistati.



Chi sono gli We Were OnOff e come siete arrivati a questo disco?
Tutti noi ci conosciamo da molto tempo, chi dagli anni del liceo, chi fin da bambino. Abbiamo cominciato a suonare insieme a vent’anni circa, sondando i territori musicali dai quali ognuno proveniva. Successivamente ci siamo separati e ripescati più volte, dando vita ad altri gruppi e a fasi che sono state segnate da differenti approcci musicali, che di fatto ci hanno portato fin qui: ad avere trent’anni e ad essere un pò più coscienti di quando ne avevamo venti.

Questo lavoro è un riassunto del nostro percorso più recente, degli ultimi cinque anni della nostra musica.

Il vostro primo album sulla lunga distanza: “What does a fish think about water” è un lavoro che fa della varietà musicale e testuale la sua migliore qualità. E’ un disco che prevede differenti chiavi di lettura. Ne privilegiate una?
L’intento è di dar risalto ad aspetti meno visibili e spesso paradossali o meno scontati di quello che riguarda la nostra quotidianità. I pezzi “suonano” in modo diverso perché sono stati concepiti in momenti diversi. Non c’è un aspetto della nostra musica che amiamo più di un altro, ogni canzone è un capitolo a sé e intimamente ha un grande valore emotivo, soprattutto quando ripensiamo a come è nata e in che fase esistenziale eravamo.

“Che stavamo facendo in quel periodo?”, “Eravamo tristi o allegri?”, “Come si chiamava quella ragazza che ti ha lasciato per tuo cugino?”. Ognuno di noi, come gran parte della gente, ha una personalità frastagliata e complessa, spesso instabile. Credo che ogni sfaccettatura di cui fa mostra questo disco ne rappresenti l’esistenza.

Ascoltando le dodici tracce di questo album si percepiscono sonorità spesso differenti fra di loro: c’è l’acidità degli anni ’70, l’utilizzo dei fiati ma soprattutto c’è quel suono strumentale tecnicamente elaborato che fa accostare la vostra musica al math-rock. Pensate che la commistione fra stili sia un valore aggiunto o un elemento che possa disorientare chi vi ascolta per la prima volta?
Probabilmente disorienta e questo rende meno facile l’approccio all’ascolto, ma mi piace anche immaginare che la destabilizzazione, allo stesso tempo, incuriosisca.

Non mi sono mai domandato con troppa preoccupazione che effetto possa scaturire negli altri la diversità che contraddistingue i pezzi di questo disco. Penso onestamente, con un po’ di arroganza, che l’eterogeneità di “What does a fish think about water?” e della nostra musica, più in generale, sia un elemento positivo. Una peculiarità alla quale sarebbe innaturale rinunciare.

Ci sono diversi modi per esprimere un concetto, la stessa frase pronunciata con rabbia piuttosto che con dolcezza, con ironia o sarcasmo, aggressività, timore, indifferenza, assume un significato completamente diverso. Immagino che lo stesso valga per quello che facciamo. Raccontiamo alcune cose usando di volta in volta linguaggi differenti, non reprimendo l’atteggiamento che ci viene naturale assumere.

Rispetto ai vostri inizi cos’è cambiato dal punto di vista dell’approccio musicale con la pubblicazione di questo nuovo lavoro?
Ci siamo sempre impegnati in progetti diversi e questo ci ha consentito di avere un orientamento musicale quanto più allargato possibile. Quando abbiamo iniziato a vent’anni avevamo un’ingenuità compositiva che ci portava sostanzialmente ad emulare le sensazioni piacevoli che ci davano i nostri gruppi musicali di riferimento. In questo disco abbiamo raggruppato le nostre derivazioni musicali, spesso molto differenti fra di loro, siamo partiti dalle radici ma provando ad andare oltre. Ne è uscito fuori una sorta di calderone musicale, una sperimentazione in continuo itinere, che riteniamo però sia una qualità solida della nostra musica.

La trasversalità è un elemento che vi accompagna unicamente nella musica o il discorso si estende anche alle diverse tipologie d’arte?
E’ la scelta di non aver etichette dal punto di vista musicale, di non portare avanti progetti scritti a tavolino, che muoino ancora prima di nascere, ma soprattutto l’idea che l’arte sia sostanzialmente contaminazione. La multimedialità è un elemento presente fin dagli esordi nel gruppo, ma con il passare degli anni e soprattutto in quest’ultimo periodo ci siamo concentrati esclusivamente sulla musica e l’abbiamo un po’ messa da parte. In realtà ci piace fare delle sperimentazioni video, improvvisazioni artistiche che invadano la nostra musica. L’espressione visiva in particolare è una componente forte dei nostri live, ci accompagna spesso. La commistione dei linguaggi è assolutamente una vocazione a cui tentiamo di dar corpo costantemente.

Quando parlate della vostra musica affermate spesso che se esiste un’attitudine nel gruppo questa consiste nella ricerca del paradosso come chiave di lettura del presente. Quanto di politico c’è in questa pratica?
Tutto è politica. La nostra dichiarazione d’intenti non è un manifesto programmatico, ma una presa d’atto di quello che siamo capaci di fare e abbiamo fatto ancora prima di questo progetto. Non è una linea ideale, ma una presa di posizione sincera rispetto a quello che già siamo. Non abbiamo stilato nessuna teoria, che crediamo possa risultare il più delle volte riduttiva rispetto alla realtà che vorrebbe esemplificare, ma abbiamo semplicemente detto quello che è nelle nostre corde. Si può fare politica in tantissimi modi. C’è chi urla, punta il dito e riesce soltanto ad essere contro qualcosa, noi crediamo che si possa prendere posizione anche proponendo tre fasi surreali che riflettono su un aspetto della vita quotidiana. E la nostra musica ne è un esempio.

Com’è stato il passaggio dall’autoproduzione alla Green Frog Records? Sono stati loro ad intercettarvi o voi a proporvi?
Lungo, difficile, tempestoso. E’ stato un percorso complesso che non è nato nel giro di una settimana e nemmeno con il semplice invio del cd. E’ un rapporto che si è concretizzato sulla lunga distanza. Questo lavoro è in realtà frutto degli ultimi tre anni di attività musicale della band. Abbiamo aspettato a lungo per farlo uscire perché volevamo essere sicuri di farlo bene, volevamo che il disco esprimesse al meglio quello che sappiamo fare. I pezzi sono stati registrati nel 2005, abbiamo indugiato un pò, pensato anche stavolta all’autoproduzione, ma poi alla fine abbiamo deciso di rivolgerci a qualcuno che potesse espandere in una cornice più ampia quello che stavamo facendo. E la Green Frog Records è riuscita a non deludere queste aspettative. Il passaggio è stato assolutamente positivo. Abbiamo trovato delle persone disponibili e competenti che lavorano nel nostro stesso modo e con cui stimolarsi a vicenda.

Alcuni dei vostri brani sono scaricabili gratuitamente sul vostro sito. E’ possibile addirittura scaricare alcune improvvisazioni del gruppo. E’ scontato chiedervi qual è la vostra posizione sul copyright, che suppongo sia non priva di criticità, eppure anche un’etichetta indipendente come la vostra non ha difficoltà a suggellare sui suoi prodotti musicali il bollino della Siae.
Siamo a favore, naturalmente, delle licenze libere. Il bollino è stato purtroppo una necessità. Se il lavoro viene fatto con un’etichetta che ha delle spese da pagare è difficile esimersi, anche se non si tratta di una major. Il costo di mercato è troppo alto e le spese di distribuzione lo stesso. Bisogna probabilmente distinguere il prodotto musicale dall’usufrutto della musica. Il primo ha una confezione che purtroppo ha dei costi, che sono esorbitanti in Italia, ma che è difficile eludere quando ti affidi ad un’etichetta, qualunque essa sia, e non ti autoproduci. Differente è la circolazione che deve avere la musica: quella deve essere totalmente libera e alla portata di tutti. Anche noi naturalmente pratichiamo il file sharing e il solo limite che ci poniamo è lo spazio. Per quanto riguarda l’utilizzo della rete, credo che questa dia grandi possibilità, soprattutto per gruppi come il nostro. Ci ha dato l’opportunità di farci conoscere e di intensificare così l’attività live, che in definitiva è quello che più ci interessa fare. Bisogna eliminare la burocrazia musicale, dare migliore riconoscimento agli artisti e spazzare via chi mangia alle spese di chi poi effettivamente fa i dischi: le band, ma è un processo lungo e sicuramente complicato.

Quanto è stato importante nel vostro percorso musicale l’entroterra veneziano? Esiste una scena, una rete di mutuo soccorso per chi è nato e si muove in quel circuito musicale?
Veniamo dall’entroterra veneziano, dai magazzini industriali adibiti a sala prove: il posto in cui siamo nati e cresciuti è stato e continua ad essere determinante. Venezia è una città strana per quanto riguarda la musica. Se escludi un centro sociale storico, presente da decenni in città che continua ad ospitare buona musica dal vivo, il resto è appannaggio di bar, locali. Essendo esercizi commerciali, non puntano sulla qualità delle proposte musicali naturalmente. La musica deve essere nient’altro che un piacevole sottofondo per bere e mangiare. Poco spazio c’è per far circolare la musica alternativa. In Veneto in generale invece il panorama indipendente è estremamente ricco, è una regione che ha sfornato gruppi come i One Dimensional Man, Il Teatro degli Orrori, i Red Worm’s Farm; è una bella realtà. L’unico limite è che a lungo andare si tende a formarsi un unico filone musicale e noi difficilmente ci riconosciamo in queste cose. Ma ci piacerebbe fare delle collaborazioni, stimiamo molto i gruppi citati.

Dove porterete in giro il disco? State pensando a un tour promozionale all’estero?
Stiamo valutando la possibilità di fare un tour nel nord Europa dove, a mio parere, c’è un’attenzione maggiore a questo tipo di proposte ma nell'immediato futuro, dovremmo continuare a fare un pò di date in Italia. Prima dell’uscita ufficiale di “What does a fish think about water?” abbiamo fatto un tour promozionale in Sicilia e da Febbraio riprenderemo a suonare nel centro-nord, parteciperemo a qualche festival interessante quest’estate, e poi si vedrà. Naturalmente il nostro intento sarebbe quello di poter girare il più possibile perché consideriamo l’aspetto live assolutamente fondamentale.

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L'articolo We were OnOff - Mail, 22-01-2008 di Ester Apa è apparso su Rockit.it il 2008-02-26 00:00:00

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