Larsen - Milano, 17-11-2008

(Foto di Davide Pepe)

Un carriera lunga 15 anni, per la gran parte condivisa con molti dei personaggi più importanti dell'avanguardia sperimentale mondiale. I Larsen sono un nome pesante per la musica di ricerca in Italia, ciò nonostante l'attenzione su di loro da parte della stampa specializzata continua ad essere risibile. Stefano Fanti e Marco Verdi hanno fatto una lunga chiacchierata con Fabrizio Modonese Palumbo: dall'ultimo "La Fever Lit" fino ai tanti progetti paralleli e alle collaborazioni nate in tutto questo tempo passato a scrivere dischi e a suonarli dal vivo.



Quali tappe e quali relazioni artistiche e umane consideri imprescindibili nel percorso dei Larsen?
Otto dischi come Larsen, due come XXL, ep, dvd, ma soprattutto sono trascorsi 15 anni, per cui faccio fatica a rimettere a fuoco ogni cosa. Anche se c'era già stato un album antecedente, per noi l'inizio di quella che può essere un'attività 'professionale' avviene con il secondo album, registrato con Michael Gira per Young God Records. Questo non tanto per l'esposizione che "Rever" ha avuto, ma proprio per come durante il processo di elaborazione di quel disco il nostro approccio allo scrivere, comporre, suonare, usare lo studio e proporsi dal vivo è cambiato. Se dobbiamo segnare delle tappe, quella forse è la più determinante, perché indubbiamente Michael ci ha dato gli strumenti per essere noi stessi; più che quel disco, Michael ha prodotto proprio noi!

Da quanto tempo eravate formati, prima di "Rever" (del 2002, NdR)?
Tre anni, però c'è stata una lunga sospensione, tra i cambi di formazione e la necessità di mettersi a fuoco. Nel primo disco, che avevamo registrato a New York con Martin Bisi, avevamo una fascinazione per quello che all'epoca era il noise-core; in qualche modo volevamo essere così, ma dal momento in cui provi ad essere qualcosa che non sei, il risultato è... discutibile? Non lo trovo un disco brutto, però non lo trovo un disco mio. E' da "Rever" in poi che Larsen è Larsen. Il resto è una progressione, un processo, e nonostante non siamo giovani - né anagraficamente né come carriera - abbiamo ancora tante cose da fare.

Nessun altro artista con cui avete collaborato successivamente è riuscito a darvi qualcosa di paragonabile al contributo di Michael Gira?
No, perché noi non avevamo più bisogno di 'prendere'. Michael era per noi la figura del produttore - e dopo lui di produttori non ne abbiamo mai più avuti, escluso Marco Milanesio che consideriamo parte della crew. Le collaborazioni da lì in poi hanno una natura diversa: ci hanno dato tantissimo, ma nella stessa misura in cui noi abbiamo dato agli altri. Ogni interazione ha funzionato a modo suo. Con David Tibet l'idea era sostanzialmente quella di avere una voce narrante, anche se in realtà ha fatto anche più di quanto il suo ruolo prevedesse. Con Jamie Stewart e Caralee McElroy di Xiu Xiu abbiamo creato un gruppo, XXL. Julia Kent da ospite su un paio di brani alla fine è diventata quasi a tutti gli effetti un quinto membro di Larsen, e poi ancora con Paul Beauchamp e Julia abbiamo fatto i Blind Cave Salamander. La collaborazione diventa anche un rapporto umano che ha una sua continuità.

("Mother", dal vivo sul palco del Donau Festival - Krems, Austria, 2007 - insieme a Baby Dee, Johann Johannssonn, Julia Kent)

Come nascono queste collaborazioni? Siete voi che cercate loro, sono loro che cercano voi?
Ognuna è nata in modo diverso. Nel caso di Little Annie, è lei che ha cercato noi. O meglio: noi siamo sempre stati suoi grandi fan; ci siamo incontrati diverse volte ma senza parlare mai di musica. Poi lei ha visto un nostro concerto e alla fine ha detto di voler cantare con noi. "Le porte sono aperte, quando tesoro?"! Con lei, più di ogni altra, credo di avere trovato 'una voce', e quindi non penso che la storia con Annie finisca qui.

Altre collaborazioni, invece, siamo stati noi a cercarle. Ma più che cercare, sono forse cose che capitano, dopo 15 anni che suoni e ti muovi in un certo ambiente, incontrando gente con cui c'è il piacere reciproco di fare qualcosa. Un mio sogno è lavorare con Marianne Faithfull; volendo potrei anche farlo, nel senso che potrei chiamarla. Ma non ha tanto senso perché dall'altra parte ci sarebbe un "ma voi chi siete?" tale per cui diventa difficile 'collaborare' veramente. Mentre lavorando con David, Michael, Annie, c'è una continuità che per noi è più naturale.

Ci siamo accorti che quasi non esiste materiale critico sui Larsen scritto in lingua italiana. Forse perché come ci stai raccontando è vero che siete più rivolti verso l'estero?
...o a dire il vero, è l'estero che è molto rivolto a noi! (ride, NdA) Non ci siamo mai posti il problema, ma io non sono neanche così sicuro che all'estero prestino più attenzione a noi rispetto all'Italia... non è che fuori ci siano i tappeti rossi. Credo che ci siano realtà che per natura del suono hanno più continuità culturale con l'estero che con l'Italia; noi suoniamo allo stesso modo in cui può farlo Bruno Dorella con uno dei suoi progetti, o i 3/4HadBeenEliminated. Nel caso dei Larsen, credo ci siano almeno due cose che influiscono: siamo prevalentemente strumentali, e in Italia la gente ha ancora molta voglia di un messaggio, però neanche si pensa che un messaggio possa arrivare dai suoni ed essere critico o morale allo stesso modo. C'è una storia culturale dell'Italia, quella disperata e disgraziata del cantautorato, che continua a fare disastri. Una cosa tira l'altra: Larsen non è un prodotto di mercato e non fa musica di genere, quando se ci pensi i gruppi italiani che hanno successo sono tutti 'di genere'. Siamo una nazione populista, dove è importante fare numeri, dove non ha credito politico chi ha idee o capacità gestionale, ma chi dice alla gente ciò che la gente vuole sentirsi dire. L'atteggiamento nella politica poi echeggia su cultura, arte e musica, e quindi... perché mai la stampa italiana dovrebbe prestare particolare attenzione a Larsen, quando questo si rinchiude in un interesse di realtà che sono al di fuori del mercato? Ma dire che noi siamo 'vittime' di questo sistema suona male: i dischi li facciamo, la gente li compra o li scarica, abbiamo una reputazione solida. Il problema c'è ed è gravissimo ma, tutto sommato, non è tanto un problema nostro. (ride, NdA)

Torniamo in Inghilterra. Hai già citato Tibet: oltre al lato musicale, ti senti vicino anche al complesso culturale sviluppato da quel gruppo di artisti? Mi riferisco alla performance art, al misticismo e all'aspetto puramente visivo.
In realtà quasi più a quello che alla questione musicale, quasi sempre relativa. Per quanto io ritenga i Throbbing Gristle un momento fondamentale della storia della musica, da tutti i punti di vista, e mi emozionano e mi onora conoscerli e lavorarci assieme, in realtà ciò che ha fatto la differenza non era tanto il suono, quanto più un loro modo di porsi rispetto al suono, a produrlo e metterlo sul mercato. Noi siamo cresciuti su quelle cose, quella è la nostra generazione e il nostro imprinting, è ciò che ci ha dato una direzione sull'approccio al fare musica e a vivere la musica, alle relazioni con gli altri musicisti e con il mondo dell'arte.

Pensi che i tuoi dischi siano legati in modo particolare a qualche avvenimento della tua vita?
Salvo un'unica eccezione - un mio disco solista come (r) - nessun altro ha dei riferimenti a storie personali specifiche. Tendenzialmente non mi piace quel tipo di approccio. Di "In Pink" (il suo disco solista, NdR) sono incredibilmente soddisfatto. Ma spero di non dover ritrovarmi nella mia vita a un punto così da dover tirare fuori certe cose... dovevo farlo, anche perché sennò davo un po' di testa io.



(Palumbo dal vivo con il progetto (r) )

Come nascono i tuoi progetti paralleli, e quali sono le differenze con Larsen?
Non mi piace chiamarli 'paralleli', perché non li ritengo tali: ognuno ha la sua identità e le sue motivazioni, per me sono tutti altrettanto importanti. Così anche per Paolo Dellapiana con le sue installazioni d'arte, o Marco Schiavo con Fovea Hex. Per quanto mi riguarda, questi progetti nascono da diverse esigenze: il piacere di lavorare con gente di cui ho stima, ma anche il fatto che Larsen dopo 15 anni ha una sua identità. Non è limitante e non abbiamo pregiudizi rispetto al nostro stesso prodotto o quello che vorremmo fare, ma siamo quattro teste e non tutto ciò che io voglio fare nella musica starebbe dentro a quell'identità. Il progetto solista è il contesto dove poter fare veramente quello che mi pare. E poi, per quanto molto secondaria -non voglio essere cinico- è un'esigenza, perché sennò non ci vivo. E' un piacere immenso, siamo fortunati, ma noi musicisti per primi ci dimentichiamo che è un lavoro.

Ci parli di Blind Cave Salamander?
Volevamo lavorare assolutamente assieme, Paul Beauchamp ed io: è un po' un progetto di vita, perché lui è anche il mio compagno nella vita. L'idea era anche abbastanza romantica - un po' come lo era per Stefania e Bruno con gli Ovo - dato che altrimenti non riuscivamo neanche mai a trovarci nello stesso posto insieme. Mancava un suono organico, e ora con Julia Kent al violoncello siamo un "power trio" (ride, NdA).

(Blind Cave Salamander dal vivo)

In "La Fever Lit" ho notato una circolarità nei temi e nelle sonorità. Non si tratta di semplici assonanze ma qualcosa di più organico: il disco è un concept?
C'è indubbiamente un progetto organico anche se non vogliamo raccontare nulla. Forse è anche dovuto alla genesi del disco: tre quarti sono nati come una sonorizzazione per un progetto a metà tra architettura e cinema che ci è stato commissionato e che poi è stato realizzato all'interno della Mole Antonelliana di Torino, presso il Museo del Cinema. Quella parte del disco nasce quindi come uno studio di architettura. In realtà il progetto era più ampio, un discorso sull'architettura nel cinema di fantascienza, nell'immaginario urbano. Comunque c'era un tema che ha dato l'origine ai brani, di lì in poi però il disco ha preso le sue strade.

Come mai poi vi siete sentiti di fare un disco, con questi pezzi?
Perché erano belli! Nella loro prima forma erano compiuti per quella che era la destinazione d'uso, ma non come brani di un album o a sé stanti. Potevamo tirarci fuori qualcosa ed era ora di fare un disco, c'era altro materiale ed è stato messo assieme. Alla fine non c'è un vero concept perché poi sono intervenuti diversi fattori, ma indubbiamente c'è una direzione complessiva.

("Tu Ark", dal vivo sul palco del Donau Festival, a Krems, Austria 2007)

Il titolo della sonorizzazione a Torino era "Da Metropolis Ad Afterville", se non sbaglio...
Sì. "Afterville" è un mediometraggio di fantascienza con produzione SGI, con gli alieni che atterrano su Torino. Le persone che ci hanno lavorato sono arrivate al prodotto finale attraverso una serie di tappe: hanno voluto rendere pubblico tutto il loro processo e quindi anche le fascinazioni architettoniche che arrivano dalla fantascienza e dalla città di Torino. Hanno realizzato una serie di incontri e conferenze su questo tema, per inquadrare la visione delle città del futuro, e hanno chiesto a Larsen di creare un sottofondo sonoro per uno di questi incontri.

Per inciso poi la prima traccia dell'album è anche contenuta nel vinile registrato dal vivo, "LLL".
In realtà tutto "La Fever Lit" è contenuto nella traccia dal vivo: la registrazione di uno dei tre brani presenti nel vinile è in realtà l'intero concerto alla Mole, che poi è stato editato, riassunto, e i brani mischiati tra di loro. Quella traccia è un po' una mistificazione di ciò che è stato l'evento.

Ma non è la vostra prima esperienza con il cinema: nel 2002 avevate già realizzato la sonorizzazione "Cartoanimalettimatti".
Sì, e faccio un'esplicita richiesta: vogliamo fare un lungometraggio, contattateci! Finora si è sempre trattato di sonorizzazioni di film muti o cartoni animati (come appunto quelli di Winsor McCay per cui abbiamo scritto "Cartoanimalettimatti"), ma sempre relative a materiale storico o di repertorio. Anche con Blind Cave Salamander abbiamo fatto una sonorizzazione, e io ho realizzato due colonne sonore per il teatro. A parte il fatto che il cinema ci piace immensamente, credo che in tutti i progetti in cui sono coinvolto la natura del suono sia molto cinematica, quindi per noi è anche molto naturale spalmarci in quel contesto.

A proposito di esperienze in stretta correlazione con le immagini e il movimento, ci racconti di "ABECEDA"?
Abbiamo fatto tanti lavori su commissione, ma "ABECEDA" è un progetto nostro, poi venduto e prodotto dal MITO Festival. Visto che spesso quel che facciamo ha un po' l'idea - come dicevamo prima - che ci sia un concetto, quando in realtà non c'è mai stato, avevamo la volontà di vedere cosa poteva capitare mettendone uno dentro alla musica. E' stato come un laboratorio aperto su noi stessi, era la voglia di sperimentare mischiando altre forme di linguaggio e coinvolgendo altre persone: musicalmente volevamo avere tante persone sul palco, in modo orchestrale, e narrativamente abbiamo ragionato sull'uso delle luci e sull'uso di una figura in scena (un'attrice/ballerina), usando poi dei visual che richiamassero ciò che accadeva sul palco, movimenti specifici sui quali la musica avesse dei tempi da rispettare.

(Larsen & Friends – "ABECEDA")

Il tema è stato sviluppato anche in prima persona da David Tibet, scrivendo i testi? Qual è la storia di "ABECEDA"?
"ABECEDA" non è un'invenzione nostra, è un poema dadaista Ceco. Noi amiamo le avanguardie storiche, ci sentiamo molto vicini a quel periodo per attitudine e intenti. L'"ABECEDA" originale era un poema sul valore poetico delle lettere dell'alfabeto, con le foto di una danzatrice che assumeva le forme delle lettere all'interno di un progetto grafico, e per ogni lettera c'era un poema. Questo era il libro, ma in realtà loro volevano spingerlo oltre: doveva essere una produzione musico-teatrale. Non è stato mai fatto, ed ecco scendere in campo i Larsen! Abbiamo contattato musicisti che ritenevamo opportuni e funzionali, anche per contrasto: proprio David Tibet, che non ha nulla a che fare con l'avanguardia storica, anzi proprio non gli piace, lui è un romantico. Ma per fare un'analisi poetica ti rivolgi al poeta e ciò che conta nasce dallo scontro di energie. Difatti il testo originario di "ABECEDA" a David non è piaciuto, e così ha scritto il suo: come tutte le cose, il progetto nasce con una direzione e poi intervengono forze interne ed esterne che lo fanno deviare. Come la complessità nelle musiche, che qui devono descrivere azioni sceniche. Per certi aspetti lo riteniamo ancora incompiuto - ogni rappresentazione è stata un po' diversa dalla precedente - ma non abbiamo al momento molta voglia di rimetterci mano. Credo che lo rappresenteremo ancora una volta per il Museo di Arte Contemporanea di Praga: visto che lì è nato, ci sembra giusto e dovuto farlo finire lì; probabilmente nella prossima primavera.

(Larsen & Friends – "ABECEDA" parte 2)

Mi è rimasta una curiosità sui brani di "La Fever Lit" con Little Annie: di cosa parlano?
Tutti i suoi testi parlano molto di sé stessa. Lei ha una vita alle spalle pazzesca, è una vera sopravvissuta, altro che Tina Turner! Ha una quantità enorme di storie da raccontare e una grande capacità nel farlo, sia vocale che narrativa. Anche quando non sembra che parli di lei lo fa. Come in "Lefrak City Limits", c'è tutta una suggestione su questo insieme di motel, una città che non esiste, un luogo di transito, di fallimenti.

Lì cita anche Anna Magnani, vero?
Si, dice "ci incontreremo nella lobby dell'albergo, io avrò il vestito di Anna Magnani e tu sarai Giancarlo Giannini". Annie ha scritto i pezzi abbastanza in tempo reale, perché non voleva materiale che non fosse nato dal rapporto con noi. Io e lei eravamo appena stati a Mosca per dei concerti; siamo stati lì una settimana poi siamo tornati e abbiamo finito di registrare il disco; nei testi c'è anche un personaggio incontrato là. Lei è molto brava a fare della vita un romanzo, e viceversa!

Invece il tour da poco concluso come è andato? E siamo curiosi riguardo alla partecipazione di Attila Csihar...
Il tour è andato benissimo, addirittura oltre le aspettative, siamo molto contenti! Per scelta non facciamo molti tour: diventa difficile preservare la qualità e magari vieni percepito in maniera più scontata, ma ultimamente abbiamo avuto reazioni entusiastiche un po' ovunque, siamo molto soddisfatti di noi stessi e del nostro pubblico. Bella gente davvero, c'è stato un bel dialogo. Poi a Pavia c'erano 50 persone e a Zagabria 360, ma per noi è uguale perché l'intensità di entrambi i concerti è stata molto alta. Per quanto riguarda Attila, ci si conosce da tempo. Lui è uno che fa ridere moltissimo! E' un cantante eccezionale, il suo problema è essere percepito come cantante metal e la cosa lo stufa. A Budapest lo abbiamo invitato sul palco per un brano molto noise e psichedelico che sarà sul disco con Nurse With Wound ed è in "LLL". Con lui sul palco sembrava di avere un esercito di tastiere, invece era un solo uomo con la sua voce. Speriamo prima o poi di registrare qualcosa assieme.

Dicevi che a maggio andrete di nuovo in tour...
Si, sarà un tour diverso da quello che abbiamo appena concluso, dove eravamo in formazione a sei (con noi Julia Kent e Jamie Stewart). A maggio avremo Little Annie, non sappiamo di Julia perché c'è un'ampia possibilità che sia impegnata con Antony & The Johnsons.

Sapete già più o meno dove andrete? Stavolta verrete a Milano?
Andremo dove non siamo passati nel tour appena finito. Questa volta abbiamo fatto il giro Italia-Est Europa-Italia, a maggio ci muoveremo verso ovest, dalla Germania al Portogallo. Milano ormai è quasi completamente tagliata fuori, vive solo di grandi eventi che spesso sono autoreferenziali. Sarei contento se qualcuno mi dimostrasse il contrario, purtroppo per ora non è così. Comunque non è che non vogliamo venire, verremo di certo, dobbiamo solo organizzarci!

E fuori dall'Europa?
Abbiamo cancellato due tour americani negli ultimi due anni, perché come dicevo prima non abbiamo molta voglia di farli, lo ammetto. Soprattutto in America, dove la burocrazia rende difficile andare a lavorare. Suonare lì poi è un massacro: per guadagnare qualcosa devi fare moltissimi concerti, disposto anche ad abbassare il tuo livello di qualità, e per noi non ha molto senso. Abbiamo ricevuto alcuni inviti molto buoni, ad esempio da un museo di San Francisco per curare una due giorni invitando musicisti che ci piacciono. Lo faremo una volta trovato il modo migliore. Abbiamo poi in agenda un disco con William Basinski che, teoricamente, dovrebbe essere registrato a febbraio nel Montana. Potrebbe essere l'occasione per suonare un po' in giro. Per noi comunque il mercato americano è importante perché è quello dove vendiamo di più, e sappiamo che ci vogliono bene.

Nel 2009 avete anche in programma il disco con Nurse With Wound: come è nata l'idea, di cosa si tratterà esattamente?
Ci sono due brani nostri e due loro; e poi il materiale di questi quattro brani rielaborato dai due gruppi assieme, per creare altri quattro brani che quindi sfruttano i primi come fonte sonora. Non saranno semplici remix, ma non so neppure cosa capiterà perché non siamo ancora riusciti ad incontrarci per questa cosa. C'è anche un altro progetto con NWW, coinvolge Blind Cave Salamander: sarà la messa in scena del loro triplo disco "Soliloquy For Lilith", mai proposto dal vivo. Faremo insieme una versione orchestrata dell'album, in anteprima a Milano. Verrà poi registrato e usciranno cd e dvd. Con NWW ci incrociamo spesso, è bello perché a livello sonoro non abbiamo nulla da condividere e questo rende la cosa più interessante.

Una stranezza della vostra discografia è aver coverizzato gli Autechre, stupisce perché il duo elettronico è totalmente esterno alle vostre abituali frequentazioni.
Me n'ero quasi dimenticato! In realtà è uno dei miei album preferiti dei Larsen, "Play" (2004). Ha avuto una genesi bizzarra: eravamo alle soglie di un tour, poi saltato perché la nostra bassista e voce dei tempi lasciò il gruppo poco prima. Avevamo ancora qualche data e decidemmo di fare cover. Da noi nessuno se lo aspettava, quindi cover di cosa? Autechre! Ora mi annoiano, ma in quel momento ci piacevano molto. Loro hanno impostato tutta la carriera sullo studio del ritmo, ma la nostra idea fu di prendere invece le melodie: abbiamo estrapolato una linea melodica per costituire ogni nostro brano, con uno strumento che la seguiva e gli altri liberi di divagare. Così è nato l'album "Play".

("E", dal vivo nella Cattedrale di St John, a Gdansk, Polonia 2003)

Altri buoni e cattivi propositi per il 2009?
Il disco dei Larsen con Basinski, al momento intitolato "Larson Mars". E' un po' diverso dal solito perché lui ha scritto tutti i brani... nel 1991! Sono canzoni rimaste in cantiere per 17 anni, che non ha mai pubblicato perché insoddisfatto dalla resa sonora. Ci ha proposto di collaborare dopo un nostro concerto, perché aveva individuato nel nostro suono quello richiesto dai suoi brani. C'è poi il disco di Blind Cave Salamander pronto, siamo in trattativa con diverse etichette per farlo uscire, probabilmente in tarda primavera. Vorrei fare inoltre un altro disco solista il prima possibile: l'anno scorso ho suonato da solo in Europa e mi è piaciuto molto, ma ho avuto tempo di fare solo un paio di pezzi nuovi, vorrei fermarmi e lavorarci. Con Larsen sonorizzeremo un documentario sulle cellule del corpo umano. C'è in ballo infine un disco con me e Jamie Stewart, con relativi concerti. E per il momento basta così. Vedremo che altro salterà fuori.

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L'articolo Larsen - Milano, 17-11-2008 di Marco Verdi è apparso su Rockit.it il 2009-02-16 00:00:00

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