Casino Royale - Milano - Royality, 20-11-2006

(Zitto e suona - Foto di Lorenzo Barassi)

Milano, Alioscia, leader storico e ora anche unica voce dei Casino Royale, siede su un gradone di cemento fuori la sede della Royality, l’etichetta che loro stessi hanno fondato. Lo raggiungo. Io e lui: quasi vent’anni di differenza da colmare in un’ora scarsa di conversazione. Un mattino per parlare di “Reale”, il loro ottimo rientro discografico dieci anni dopo il seminale “CRX”; dei loro vent’anni e di Milano; della scena e delle scenate. Un mattino solo? Ci abbiamo provato.



A 14 anni di distanza avete fatto un altro “Dainamaita”. Stesso groove. Tutto suonato. Generi che si mischiano. Perchè?
Il paragone con “Dainamaita” a me fa un casino piacere, poi ogni disco dei Casino Royale ha avuto una sua storia a sé stante, una sua importanza, sia per noi che per tanta altra gente. Dal punto di vista stilistico penso sia uno dei dischi, o il disco, con cui siamo cresciuti. Un disco fatto di getto, simile a questo “Reale”. Prima c’era gente che faceva musica, con metedologie di produzione e di composizione differenti da quello che può essere entrare in una salaprove e suonare. I pezzi di “Dainamaita” sono nati in sala, lì dentro. E’ lo stesso è per “Reale”. Poi, per “Dainamaita”, eravamo noi a far i produttori, con 87 stili differenti. Oggi, invece, c’è un produttore e quindi pur spaziando nei generi c’è un suono riconoscibile. Un disco di canzoni molto diverse che hanno però un loro suono specifico. Penso sia una cosa positiva, fa parte di una crescita. Di “Dainamaita” apprezzavi che era pieno di idee, diretto, pam!

Secondo te suona “vecchio” questo disco?
Ma vecchio nel senso buono. Sai, anche quest’ansia del nuovo, alla fine, non penso sia una cosa così positiva. Per la dance forse può avere un senso. Per un gruppo come i Casino Royale è meglio che il disco suoni “vero”. Si, penso che suoni un po’ vecchio. Non è sicuramente una rivelazione per le sonorità. Se ascolti “Sempre più vicino” dici: “wow!” O ascolti “Crx”, trovi questa forma hip hop oscura. Certo, quello era un suono nuovo. Quello di “Reale” è un suono classico, anche troppo secondo me, io avrei fatto una cosa più spinta. Ma quando sei in studio devi fare i conti con il produttore e il produttore, forse, questa volta, ha proprio capito cosa ci serviva. Perché, a dirtela, la cosa non era così chiara: io volevo una cosa, Micky ne voleva un’altra...

Il titolo è stato scelto appena finite le registrazioni?
No è venuto prima, quando avevamo finito “Crx”. Era un momento creativo abbastanza buono, continuavamno a tirar fuori cose, volevamo andare a Londra e metterci a lavorare subito sul nuovo album e avevamo deciso che il titolo doveva essere “Reale”. Per cui è un titolo vecchio di 10 anni.

Howie B – il produttore di “Reale” NdI - cosa ha spinto maggiormente?
Pulire, dovevamo essere più essenziali e solidi possibili nelle bassline, nel groove. Pochissime parti doppiate e cercare di costriuire uno spettro sonoro che fosse, comunque, pieno. Occupare tutto un certo range di frequenze. E poi di farci suonare insieme in collettivo. Il terzo giorno mi ha detto: “Forse non te ne rendi conto ma hai una band della madonna”. Si è esaltato tantissimo, a tutti gli effetti era uno dei Casino Royale. Ci ha fatto riscoprire un po’ il piacere di suonare, di suonare insieme. Per cui sono tutti take presi dal vivo, un procedimento molto live. Penso che sia stato un grande, sopratutto come coach. Ad esempio, le altre volte, con il vecchio produttore ad esempio, era molto bravo tecnicamente, certo, ma non eravamo stati così contenti. Noi eravamo molto più giovani e più incazzusi, eravamo abituati a suonare e lui ci aveva fatto suonare poco. Ci erano girati abbastanza i coglioni. Umanamente è stata un po’ una deriva. Invece con Howie, pam! Super bene. E’una grande persona, super-sensibile.

Questo disco è importante solo per i Casino o anche per la scena italiana?
(Lunga pausa, NdI) Io so quanto è importante per i Casino Royale, però… forse, per assurdo. (Pausa, NdI) Forse è più importante per la scena. (Ride, NdI) Nel senso che la sensazione che ho io è che questo disco sia un casino importante per la gente. Continuo a ripetere questa cosa perché non me l’aspettavo minimamente, sapevo che c’era gente che si era affezionata ma non sapevo che ci fosse un’attesa del genere, una felicità condivisa per il fatto che eravamo in studio e stavamo facendo un album nuovo. E sta cosa la vedo da gente che non ci ha mai visto, che adesso può avere 22 anni, o 20, e anche in gente che si è fatta tutto l’excursus da “Soul of ska” ad adesso. E penso che questo sia il vero successo dei Casino Royale. Non abbiamo avuto un successo commerciale, ma abbiamo questo successo. Se fai l’artista non c’è niente di pari ad avere tanta gente che segue la tua cosa. Questo è impagabile.

E un ragazzo più giovane, anche prima dei 20, cosa credi capisca di questo disco?
Ma io penso che l’attività dal vivo ci può aiutare molto, mi riferisco anche alla performance che abbiamo fatto per Mtv (Coca Cola Live, 30 settembre, Milano, NdR). Se io fossi uno di 17 anni mi incuriosirebbe un gruppo con una carica così, con dei suoni, con una bastardaggine tipo la nostra. Quello che mi auspico io è di far fare un click a qualcuno, magari fargli fare un minimo di percorso a ritroso. Che poi sono 10 anni, non è che in Italia siano successe grosse cose in questo periodo. Voglio dire, c’è l’hip hop, ci sono un mucchio di cose oggi, ma se un ragazzino oggi si mette su “Crx”, secondo me ci rimane. Ok, già allora non era un disco da sedicenni, magari era per sedicenni con la mente un po’ aperta. Ma non è che dobbiamo fare i Fabri Fibra della situazione. Non è roba nostra, quel tipo di disagio siamo abituati a esternarlo in maniera diversa, un po’ più costruttiva, un po’ meno senzacausa, un po meno: “Ah oddio sono in panico, che cazzo faccio, vaffanculo a tutti quanti!”. Cioè, non è la nostra scuola. Tutto quello che arriva dai media e dal resto è tutto un revival di personaggi o gruppi che, però, non hanno un background. Invece noi, alla fine, abbiamo un tipo di continuità che parte dalla seconda metà degli anni 80 e arriva adesso. Per cui, in un certo qual modo, siamo originali in ogni cazzo di cosa che facciamo. Secondo me ha il suo fascino. Me lo chiedo a volte: “scrivo per uno di 16 anni?”. E diciamo che la risposta è no. Ma alla fine siamo abbastanza adolescenziali come musicisti.

Perchè, il musicista è adolescenziale?
No, però se riesci a vivere la musica con quella passionalità, che è il tuo lifestyle, che è il tuo… Cioè, se io ascolto i Clash mi esalto come quando avevo 16 anni, proprio senza nessuna differenza. Quella roba li penso sia sana, cazzo, è una figata.

Non vi ho mai visto come dei gran di ricercatori. Più degli ottimi fotografi. Credi che “Sempre più vicini” e “Crx” possano essere delle fografie dei ’90 Italiani?
Si, forse non siamo questi grandi sperimentatori, ma ricercatori secondo me si. E per la questione degli anni ’90... Cioè non lo dico io, lo dice la storia (Ride NdI). Da “Dainamaita” in poi, sono uscite un po’ quelle che erano le urgenze di quel periodo, chiaramente sono dei dischi molto ingenui, non sono dischi perfetti. Penso che siano, come si dice… Seminali.

Citazioni:

“Tutto quello che sei ogni cosa che fai” (da “Tutto”, NdI) l’avete preso dai muri dello S.q.u.a.t.t di Milano?
Si, in viale Blignì.

"Lui al sicuro pensa perchè è ricco" (da “Milano Double Standard” NdI), Basquiat?
No, l’ho visto scritto all’ingresso della metropolitana in via Pepe. Era scritto con una calligrafia quasi da analfabeta, e quella roba mi ha flashato. Era palesemente un segno di rabbia di qualcuno dell’est. Mi ero immaginato questa persona con una rabbia inimmaginabile dentro che scriveva questa cosa.

Esistono i Casino Royale senza Milano?
Beh, si. Secondo me questo disco è molto milanese ma c’è anche una parte molto più intima. “Protect me” è un pezzo dove sono riuscito a dire delle cose che quando devo dirle non ce la faccio mai. In quel pezzo, pur essendo molto confuso ho raccontato uno stato d’animo che, mi rendo conto, può essere molto comune. Si è aperto un filone un po’ più intimo, che c’era già anche in “Crx”. Chiaramente noi siamo a Milano e, come dire, “può esistere un gruppo a prescindere da?” Uno si guarda in torno e scrive di quello che vede.

Quindi Milano non è decisamente un “vostro” argomento?
Lo è, lo è. Se fossimo di Roma parleremo di Roma.

E questo mito di Milano, ve lo sentite addosso?
Mito, ormai è una delusione, rischierei di perdermi a parlartene. “Plastico mistico” è un pezzo che parla molto di Milano. Milanesità al 100%. In ogni disco c’è sicuramente molto di Milano. Non so se questo filone si esaurirà. Milano si sta stabilizzando in un modo abbastanza definitivo, in assetti molto deludenti per quello che mi riguarda.

In un’intervista su Rumore hai detto che a Milano la gente va alle serate electro non perchè è interessata ma solo perchè è cool. Da dove parte questa perdita di interesse?
Ma secondo me bisogna pensare a come è cambiata la città, perché non è che tutti sono sempre stati cultori delle cose o della musica. Tempo fa la gente andava nei centri sociali, e quindi, alla fine, ascoltava solo reggae o quello che mettevano lì. Non è che allora fosse meglio. Adesso è una città che vive sulle pubbliche relazioni. Dove ci sono tantissimi operatori del nulla, tantissime agenzie di comunicazione nuove. Dove c’è tantissima gente che non è della città. Dove i rapporti nascono sul lavoro. Dove uno non ha amcizie di quartiere, d’infanzia. Dove uno sta un anno, due, tre, fin che resiste e poi va via. Dove la gente stringe la mascella va avanti a compromessi e sacrifici e appena crolla e cede il posto c’è subito un altro che arriva perché sono tutti lì che aspettano un’opportunità. Perché quando si esce, la gente deve mettersi in vetrina per conoscere qualcuno che gli dia un upgrade. Gira tutto attorno a questa dinamica. E quindi l’entertainment, più che essere una necessità diventa una cosa “telefonata”. Non c’è un suono che stabilisce un filone di pubblico o un determinato movimento. L’anno scorso c’era Berlin-electro, questanno che cazzo ne so…

“Quello che ti do”, più o meno, può essere interpretata come una riflessione sul rapporto genitore-figlio?
Senza più o meno. Sembra abbastanza banale come roba, quando lo scrivevo all’inzio era un testo più sulle periferie e sul rapporto città/giovani, e poi mi sono reso conto che è diventato il solito pastume sul rapporto con la tua famiglia, e successivamente, su quello con i tuoi figli. Sembra banale però è vero. Io poi sono un genitore separato e ho sempre questa tensione, questa paranoia di essere presente, mi sarebbe piaciuto raggiungere questa immagine molto armonica di noi tutti assieme, però alla fine è un casino. E lo stesso è il mio rapporto figlio-genitore, perché al momento mi trovo ad essere allo stesso tempo genitore e figlio e mi rendo conto che i genitori non riescono a capire i figli ma che anche i figli non vogliono capire un cazzo dei genitori. E’ un bordello... e questa cosa è comunque fondamentale. La maggior parte dei problemi delle persone partono dai loro problemi con la famiglia, cosa che si ripercuote su tutto il resto.

La musica si è intromessa nella tua famiglia? E’ riuscita a conviverci?
In passato tantissimo, dai rapporti con la mia compagna, o ex compagna, al mio vivere quotidianamente in un posto con tantissime persone. Vivevamo tutti in questa casa, ne parlavo oggi con Patrick. Io ho vissuto con lui, con Alessio, come se fossimo una famiglia. Siamo un gruppo che da 15 anni ha dei rapporti del tutto intimi. Non è che la musica si è intromessa, ne ha fatto assolutamente parte. Mia figlia è nata nel 2000, adesso ha sei anni, e non mi ha mai visto suonare. Ha capito che papà fa il cantante, ma non ha mai avuto molto chiara la cosa. Ieri, ad esempio, dei ragazzi mi hanno riconosciuto al supermercato, diciamo che la mia piccola sta iniziando a intuire qualcosa. Sarà interessante questo aspetto, è strano pensare di continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto ma con dei bambini a seguito.

Nelle interviste parlate di soldi in maniera molto libera, perchè?
Cioè, raccontare i cazzi nostri?

Ma si, di contratti, quote raggiunte o no, soldi che entrano o escono, è tutto così easy per voi?
Non è easy, è il solito cazzo di vuoto a perdere. Abbiamo finito il disco con 20.000 euro di overbudget, e sono 20.000 euro che paghiamo noi. Cosa dovremmo dire? Che prendiamo un sacco di soldi, che siamo strafighi. Io voglio che la gente sappia che ci rompiamo il culo, non in miniera, ma che andiamo a suonare per 300 euro, capito? Per cui quando leggo sul sito che qualcuno che ci critica se firmiamo con una major o chissà cos’altro, mi metto a ridere. Voglio che la gente sappia com’è sta cosa. E’ la nostra missione, per me Casino Royale è come tifare il Toro, una sofferenza totale. (Ride NdI)

Perchè cantate ancora in italiano?
Perché adesso è imprescindibile, l’area di riferimento è questa. Non dico che non me ne frega un cazzo di uscire all’estero, ma al massimo per quello facciamo la dub version del disco, ho la drum’n’bass version. Cantiamo in italiano perché è una figata, perché la gente ti capisce, penso che sia giusto fare così. Possimo cantare anche in Inglese? Si anche, ma i Casino Royale sono un gruppo italiano.

A prescindere da come è andata con il vostro manifesto, vi siete ricreduti sul formato disco o credete ancora che sia un formato morto?
Non è solo un’opinione nostra, il cd ha ancora una vita di un anno e mezzo e poi è andato. Ha importanza dal punto di vista della comunicazione. Se non avessimo fatto un disco che esce il 27 e per cui quel giorno arriva nei negozi ecc ecc, non partirebbe tutta una serie di cose come il video o il live. Se uscisse solo su internet nessuno se ne accorgerebbe. Poi, poco dopo che è uscito, al massimo un annetto, non interessa più a nessuno, tutti se lo scaricano o lo comprano su iTunes.

E più un biglietto da visita e basta?
Si, esatto, niente di più che un oggetto che serve a farti ricordare per un breve periodo. Ma è giusto che sia così, la musica deve essere liquida. Se fossimo in un’altra condizione, un progetto nuovo, probabilmente seguirei di più le regole del manifesto. Anche perchè è il manuale del fai-da-te, e penso che sia sano. Noi avevamo una serie di pressioni, di esigenze e di opportunità da non buttare nel cesso. Non potevamo seguire tutto, io non ce la facevamo. Perchè voleva dire farsi da soli l’ufficio stampa, la produzione ecc ecc. Poi da solo non fai mai un cazzo. Anche se uno dice “da solo” vuol dire comunque che ha una scena che lo segue e qualcuno che lavora per lui. A meno che non lo fai per hobby, ma se deve essere la tua attività, devi strutturarti, hai bisogno di tempo e il tempo sono soldi. Per cui sei indipendente ma non puoi mai essere indipendente da quello che è il mercato.

20 anni, che significato dai alla parola esperienza?
Ma, non so. Penso veramente che abbiamo fatto il giro della morte, abbiamo visto una cifra di cose e forse quello di cui abbiamo bisogno adesso è di lavorare con qualcuno che abbia voglia di rapportarsi e scontrarsi con quelle che sono le dinamiche di questo buisness, di questo mondo. Non c’ho più tanta voglia di entrare nelle logiche di quello che non so, Mtv, o cose così. Potrei farlo, ho esperienza in questo campo, tempo fa studiavo progetti per fare musica per alcune aziende. Fortunatamente ho un’esperienza della madonna. Ma non ho più voglia. Ritornando alla domanda: si, possiamo essere un modello. Abbiamo costruito veramente una cosa fatta in casa, dove man mano è confluita gente, si sono create cose collettive. E questo è quello che di solito non succede in Italia, il musicista resta per i cazzi suoi. Penso che la nostra esperienza è dovuta dalla nostra attitudine nei confronti del progetto. E’ uguale che tu metta su un gruppo, che faccia un sito, un giornale, un club, una qualsiasi attività. E’ imprescindibile: se non riesci a condividere con qualcun’altro un progetto, a creare un team, non farai mai niente.

Bilanci. Ce li vedi i Casino Royale tra 20 anni, magari come i Nomadi?
Altri 10 anni ce li facciamo tranquilli, magari facendo un disco nuovo ogni 2 anni. L’esempio dei Nomadi mi fa chiaramente cagare, con tutto il rispetto. La scorsa settimana ero a New York e ho visto un manifesto: “dopo 25 anni, ritornano a NY gli X”. Sono andato a vederli, e wow, ragazzi, wow, erano degli originali. Potevano esserci tutti gli Strokes del mondo con le loro modelline ma questi quà, minchia, avevano inventato una cosa e si vedeva. Per questo mi vedo i Casino Royale più tipo gli X che come i Nomadi.

Super Erore preferito?
Ken Parker

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L'articolo Casino Royale - Milano - Royality, 20-11-2006 di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2006-11-20 00:00:00

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