Motta: faccio musica sinnò me moro

Per raccontare un disco come “Semplice”, il cantautore toscano usa le parole di Gabriella Ferri (o piuttosto il Colle der Fomento). L’urgenza fortissima che ha mosso il lavoro – dopo mesi bui a sognare i soundcheck e il “fantasma” di De Gregori – si sente tutta: il risultato risplende

Francesco Motta, foto di Claudia Pajewski
Francesco Motta, foto di Claudia Pajewski

"L'emozione di tornare a fare le prove con gli altri è stata una roba pazzesca". Chi parla è Francesco Motta, che esce dopo tre anni con un album di inediti che ha il sapore di un manifesto: Semplice. Francesco lo conosco fin dai tempi dei primi Criminal Jokers, quei tre matti che suonavano sui palchi e per le strade, con strumenti di fortuna e tanto spirito folk punk. Una formazione da cui sono usciti il Maestro Pellegrini degli Zen Circus e Simone Bettin dei Campos.

Ne ha fatta di strada, da quegli esordi: la seconda formazione dei Criminal in italiano, con in aggiunta la sorella Alice e Luciano Turella, il tour come musicista con Giovanni Truppi, quello insieme agli amici di sempre Zen Circus per accompagnare Nada, il fortunatissimo esordio solista La fine dei vent'anni prodotto da Riccardo Sinigallia, un tour infinito e infuocato di più di 100 date in giro per l'Italia, poi il secondo album Vivere o morire, altro tour lunghissimo, quello insieme a Les Filles de Illighadad, una band di Tuareg tutta formata da ragazze, e un po' di pausa, che poi pausa non è mai: il matrimonio con l'attrice Carolina Crescentini, la sovraesposizione mediatica, il libro Vivere la musica, l'album live Motta dal vivo, la cover di De Andrè Verranno a chiederti del nostro amore per l'album Faber Nostrum e la partecipazione a Sanremo 2019 con Dov'è l'Italia

Quando inizia a comporre il suo terzo album, arriva il covid e lo tiene un anno e mezzo fermo. Lui, che è uno che il palco se lo mangerebbe, scalpita. Poi riesce a convogliare questa energia nelle registrazioni delle 10 nuove canzoni che compongono Semplice, il suo nuovo disco che ha prodotto insieme a Taketo Gohara, contenente tantissima musica diversa, arrangiamenti funambolici e un sacco di novità rispetto al suo percorso solito. Sperimenta tantissimo insieme alla sua band e a una serie di ospiti illustri, riuscendo nell'intento di creare un album che trabocca suoni ed esperienze diverse, sempre in movimento, con uno sguardo inconsueto verso il futuro, che è un po' come tornare a casa.

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Come hai vissuto questo periodo di stop forzato dal palco?

Male. È stato un periodo nero, che ho vissuto in una situazione ovviamente molto più fortunata di altri e molto più sfortunata di altri ancora. Io ce la sto facendo e mi ritrovo a programmare un tour per questa estate con gente che ha fatto il backliner per 15 anni a livelli pro e si è trovato a cambiare mestiere durante la pandemia. È difficile parlare del mondo dello spettacolo in questo momento, se non fosse stato possibile fare concerti quando è uscito La fine dei vent'anni, magari non sarei stato in grado di fare più questo mestiere. Con pazienza mi sono detto di voler conservare un bel ricordo da quest'anno, quindi ho fatto un lavoro su me stesso e mi sono trasferito dei mesi in campagna a respirare e lavorare alle canzoni. Nel 2020 avrei dovuto fare il disco e, quando i tempi si sono prolungati, a differenza di Vivere o morire ho trovato il modo di mettermi lì a centellinare qualsiasi cosa. È stato stimolante ma anche molto faticoso.

Per uno come te, che il palco vorrebbe mangiarlo, stare così tanto senza fare un concerto è un dolore...

Sì, c'è stato un periodo in cui mi chiamavo con Andrea Appino e ci accorgevamo che non solo ci mancavano i concerti, ma che ci sognavamo i soundcheck! Mi manca anche andarli a vedere: anni fa ho preso la decisione di vivere in una grande città per tutte le occasioni che mi poteva offrire anche in quel senso e purtroppo in questo periodo la grande città mi sta mostrando in faccia tutto quello che non posso fare. 

La copertina di
La copertina di

Veniamo all'album: Semplice è una specie di manifesto?

Beh, forse nessun essere umano è semplice, quindi questo titolo può risultare strano. La pandemia mi è servita in qualche modo non pre raccontare il presente: sono sempre stato abituato a raccontare l'oggi o quello che è successo ieri, il mio passato, la mia famiglia, mentre stavolta ho voluto immaginare qualcos'altro nel futuro. C'è stato un momento in cui ho chiamato la direttrice di Sugar mentre stavo facendo la colonna sonora di un film di Claudio Cupellini che deve uscire e le ho chiesto 'Cosa succederà adesso?'. Lei mi ha risposto: 'Ce lo dovete dire voi quello che succederà'. Questa frase mi ha ispirato.

Perché non c'è la tua foto in copertina?

Sono in un periodo in cui non avevo bisogno di esserci, ho sempre detto che sono molto più importanti le canzoni di chi le scrive. Ecco: ora più che mai. Molti artisti quest'anno non hanno ricevuto le solite 'pacche sulle spalle', quindi ritrovarsi di fronte a un pianoforte e domandarsi il perché si sta creando è stato doloroso. Mi sono messo alla prova, ho avuto dei momenti di nero in cui sono quasi arrivato a mettere in gioco il mio mestiere. Il processo di andare a togliere era ricorrente in tutti i nuovi pezzi, 'semplice' è la parola che forse ripeto di più in tutte le canzoni, in tutte le declinazioni. È stata una ricerca verso l'essenziale.

Foto di Claudia Pajewski
Foto di Claudia Pajewski

 

Dall'altra parte però gli arrangiamenti sono tutt'altro che semplici: in un'epoca di pocket pop fatto in casa, questo mi sembra un album di ore e ore di studio, no?

Questo sottolinea quella ricerca, perché gli arrangiamenti sono complessi, ma danno spazio a un messaggio vocale che, quello sì, è semplice. Mi serviva veicolare questo concetto tramite arrangiamenti più corposi. C'è stato un momento durante il tour de La fine dei vent'anni, quando facevamo 120 date l'anno, che durante i soundcheck provavo le canzoni nuove e andava talmente tutto bene che quando ho iniziato a fare il secondo disco mi sono detto 'Io devo ricominciare tutto da capo, non sento nessun senso di vertigine'. Con Semplice ho sentito veramente che mi mancava la condivisione della musica con le altre persone, poi sono passati 5 anni e con la band c'è un rapporto di totale sintonia, con Giorgio Maria Condemi (chitarra), Cesare Petulicchio (batteria) e Carmine Iuvone (archi) abbiamo creato un suono insieme, e per la prima volta li ho coinvolti anche nella registrazione. Questa cosa si sente, perché mi sono ritrovato a fare dischi in passato che erano troppo lontani da come suonavano dal vivo. Volevo avvicinare il disco al suono che cerco sul palco, soprattutto in questo momento storico.

Non solo la tua band storica però: quali sono gli altri musicisti nel disco?

C'è Mauro Refosco, percussionista brasiliano che suona con David Byrne e ha suonato sia coi Red Hot Chili Peppers che con gli Atom for Peace di Thom Yorke, che era presente in minima parte anche nello scorso disco. Poi sono andato con Carolina (Crescentini) a New York prima della fine del mondo e abbiamo visto questo concerto pazzesco sempre di David Byrne, in cui c'era questo bassista che si chiama Bobby Wooten, che suon anche con Jennifer Lopez e la prima idea era quella di andare a fare una jam ritmica con loro per poi continuare il lavoro qua. Col covid non si è potuto fare ma registrare a distanza per certi versi ci ha permesso di lavorare di più, loro hanno dato tanto, Refosco ha fatto anche fatto qualche produzione elettronica dal suo studio. Nell'ultimo pezzo del disco c'è Kety Fusco all'arpa

Foto di Claudia Pajewski
Foto di Claudia Pajewski

Stavolta hai potuto registrare in studio quanto volevi?

Sì, io ho sempre registrato in casa e gli studi erano direttamente proporzionali alla grandezza della casa, cioè poco. Su La fine dei vent'anni lavoravo in due metri quadrati praticamente. Per la prima volta ho uno studio fuori da casa e questa cosa si sente tanto, c'ho passato tre anni dietro al disco e l'ultimo anno e mezzo sempre in studio. Vicino allo studio c'è un liutaio che è un grande percussionista, si chiama Mohssen Kasirossafar e ha lavorato in passato con Morricone e Branduardi, ho voluto anche lui nel disco, proprio nella canzone Semplice

Nella canzone Qualcosa di normale duetti con tua sorella Alice. Perché tra tutti i featuring che avresti potuto fare hai scelto lei?

Qui c'è una storia da raccontare: faccio questo sogno assurdo in cui ero con mio padre in una casa che non era la mia, e lui mi dice 'Ci si vede tra poco che m'ha appena chiamato Francesco De Gregori, sta tornando...', e io esco di casa per andare con Carolina da qualche parte quando mi ricordo e le dico che dovevo incontrare De Gregori. Faccio questa corsa, rischio di andare a finire in un burrone per prendere l'autobus con nessuno che mi voleva tirare su per via del covid, poi ci entro, litigo con tutti perché stavo a morì, torno a casa e faccio sentire Qualcosa di normale e un'altra canzone a De Gregori. Fine del sogno. Il giorno dopo chiamo Caterina Caselli (di Sugar) e le dico che in qualche modo, eticamente, devo passare da De Gregori, non per chiedergli un featuring, ma perché quella canzone ha un suono molto suo. Lui mi manda un messaggio bellissimo in cui alla fine mi dice: 'Anche se non mi hai chiesto niente, io ti consiglio questa canzone di cantarla con una donna', e ho pensato 'La mia voce femminile preferita è mia sorella', quindi tutto tornava, faceva parte della ricerca dell'essenziale, era una questione di famiglia. La canzone con Alice, rispetto a un'altra voce, fa sì che gli stessi significanti abbiano un altro significato.

 

 
 
 
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Ti sei confrontato con qualcuno sui testi? 

Nei dischi precedenti è stato davvero faticoso, in questo meno, forse anche mi ha aiutato il fatto che ci sono alcune canzoni che hanno un occhio più esterno sulle immagini. Ho fatto quelle che chiamo "le sedute" con Gino Pacifico e, in Quando guardiamo una rosa, c'è lo zampino di Dario Brunori.  Ci sono stati dei momenti in cui ho cercato di arrivare nella profondità di me stesso, ma anche altri in cui mi sono seduto un attimo per osservare, e questa cosa è stata rilassante, mi sono divertito di più. Mi piace mettermi in una situazione in cui cerco di fare quello che non so fare, e questa cosa non l'avevo mai fatta.

Ti provoco: anche cantare? In questo album sei un cantante fatto e finito, sfoderi degli acuti che mai avevi tentato...

Questa cosa è partita da Caterina Caselli. Dopo che ha ascoltato un pezzo mi ha detto: 'Perché non provi a fare cose diverse?', e lì ho avuto il senso di vertigine bellissimo che ti dicevo prima. Ho provato a cantare in modo diverso, a non entrare sempre nel solito loop, a sperimentare con la voce e mi ha intrigato tantissimo.

Foto di Claudia Pajewski
Foto di Claudia Pajewski

Nel disco c'è davvero di tutto, dalla canzone con la struttura sanremese alla cavalcata rock, fino alle code strumentali sperimentali. Nella canzone finale accenni addirittura un rap! 

Ahaha, non mi permetterei mai di chiamarlo rap! Come dice Giovanni Truppi, 'La pipì si sente di più proprio quando stai arrivando nel bagno', e io arrivato alla fine del disco ero sfinito. Come ti dicevo prima, avevo proprio l'urgenza di una struttura esterna, e in quella ho avuto la necessità di confrontarmi con uno che fa il mio stesso mestiere, Brunori appunto. Non è facile per uno che scrive, cantare pezzi di altri, ma quella canzone serviva proprio così, come la coda strumentale che dura sette minuti solo per i limiti di durata del disco, altrimenti sarebbe potuta anche durare una settimana. Era necessario per me costruire una scaletta con un racconto che avesse un inizio e una fine, e quando le parole si fermano, dare il segnale che la musica può continuare a essere narrazione anche senza testo. 

Il tour con la band di musiciste africane Les Filles de Illighadad ha influito in qualche modo nella ricerca sonora di questo disco?

Assolutamente sì, così come il lavoro live col violoncello fatto con Carmine, che è entrato a far parte della band proprio in quel tour. A un certo punto ho ascoltato un pezzo di Angel Olsen, Lark, che ha un arrangiamento di archi diverso da quello che avevo fatto in precedenza, mi ha ispirato molto e abbiamo lavorato in quel senso. Tornando a Les Filles de Illighadad, quel tour è stato davvero formativo come individuo e come musicista. Armonicamente sono successe delle cose assurde. Ricordo in fase di prove, mentre suonavamo È quasi come essere felice che è in do minore (mi sembra), noi diamo per scontato di fare la terza minore. Loro in alcuni punti la suonavano maggiore e questa cosa non si fa, se la provi in un'Accademia ti arrestano. Invece ci stava bene, mi sono accorto che si poteva fare. Nella musica non esiste il non poter fare qualcosa. L'aver messo insieme due mondi così diversi mi ha aiutato tanto come approccio alla composizione.

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Quando riparti per il tour?

Guarda, nonostante tutte le limitazioni che ci saranno, ho deciso questa estate di fare un tour con la band intera e non in acustico o in trio. Per me tornare a suonare con loro è fondamentale. La band è la stessa che mi accompagna da anni, è cambiato il bassista perché quello che c'era prima è andato a vivere a Dublino, abbiamo inserito al suo posto Francesco Chimenti dei Sycamore Age.

A proposito di prove, come stanno andando? Come sta venendo un pezzo come Via della Luce, decisamente atipico rispetto al tuo percorso fin qui?

Diciamo che ora le prove che stiamo facendo solo più per capire come sistemare i pezzi in scaletta. Stiamo mettendo canzoni che pestano di più, tipo E poi finisco per amarti, accanto proprio a canzoni come Via della Luce, uno dei pezzi uno dei pezzi che è venuto da subito bene. La prima volta che l'ha ascoltata Giorgio (Condemi), mi ha detto 'In questa canzone ci sono più accordi di tutti gli accordi messi insieme dei due dischi precedenti!'. Quel pezzo ha una scrittura decisamente differente dal mio passato. Non è facile passare dal fortissimo al pianissimo, ma è molto stimolante. Ma qual è il tuo pezzo preferito del disco?

Eh ne abbiamo già parlato, a me commuove il significato di Qualcosa di normale 

Pensa che quella canzone è stata scritta prima del covid, era un periodo in cui con Carolina stavamo più a casa e mi dicevo 'Mi sembra assurdo, sono due giorni che non vedo la stazione', e poi in realtà non l'ho vista per un anno e mezzo...

Parlavi di Carolina Crescentini, tua moglie. Quanto pensi che la sovraesposizione mediatica dovuta al matrimonio e alla sua professione abbia influito, in positivo o in negativo, nella tua carriera?

Ha influito sull'avere ancora più responsabilità. Uno può pensare che l'esposizione mediatica sia direttamente proporzionale al ritorno nel lavoro che fai, invece ti assicuro che non è assolutamente così. Magari ci sono tante persone che mi conoscono per altri motivi ma che non necessariamente hanno sentito le mie canzoni. Nell'ultimo periodo ho avuto anche l'urgenza di tornare a fare il mio lavoro, perché era un po' che non uscivo con un disco, l'ultima volta che ho pubblicato un pezzo era a Sanremo 2019, e quella la vedo una parentesi nel mio percorso, staccata dal resto per vari motivi ma anche per come era la canzone. Ora, quando salgo sul palco, mi sento la responsabilità di dire cose diverse da quelle che direi fuori.

Foto di Claudia Pajewski
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Che musica italiana hai ascoltato negli ultimi tempi?

Ahia. L'intervista era andata bene finora, lo sapevo che arrivava la domanda a cui avrei saputo rispondere! In campagna ho ascoltato praticamente musica fino al 1975, ho avuto difficoltà ad ascoltare roba nuova, quest'anno per me era difficile che qualcosa di nuovo mi potesse entrare dentro così in profondità da lasciare un ricordo. Mi sono piaciuti tantissimo Francesco Bianconi ed Emma Nolde, mi è piaciuto il disco dei miei fratelli Zen Circus. Poi ti direi De Gregori e Lucio Dalla che ci sono sempre, sempre, sempre.

Proprio per quello che hai detto, non hai paura di uscire col disco mentre siamo sempre in pandemia?

Certo che c'ho paura di fare uscire un disco adesso, ma nello stesso tempo cito una frase del Colle der Fomento che dice: 'Non lo faccio né pe’ loro né pe’ l’oro, lo faccio solamente perché sinnò me moro'. Quest'anno è stato un po' un ritrovarmi di nuovo a capire perché faccio questo mestiere, e per farlo dovrei tornare indietro di vent'anni, ma io non ho più quell'età, e oggi lo vedo esattamente come un qualsiasi altro mestiere di artigianato. Non penso che le canzoni salvino la vita alle persone, però anche questa volta hanno salvato me, quindi l'urgenza di esserci era più legata a me che a tutto il resto.

Quindi fra cinque anni come ti vedi?

Ritornare a lavorare coi musicisti é stato emozionantissimo ma anche difficile. Oggi partiamo per fare una registrazione a Torino e ieri, mentre ci organizzavamo, sembrava di non averlo mai fatto nella vita! Pochi giorni fa ho mandato a Giorgio lo screenshot delle date del tour de La fine dei vent'anni e gli ho detto 'C'avremo il fisico adesso per fare un tour di 120 concerti?'. Fra cinque anni ne faccio 40, mi piacerebbe festeggiare cercando di capire se c'ho ancora il fisico o no!

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L'articolo Motta: faccio musica sinnò me moro di Simone Stefanini è apparso su Rockit.it il 2021-04-30 09:01:00

COMMENTI (1)

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  • basquiat 3 anni fa Rispondi

    Ho letto l'intervista ascoltando l'album su Spotify. Esperienza mistica, momento esaltante, musica travolgente, scrittura superiore. Quattro pezzi su tutti: "E poi finisco per amarti", "Via dalla luce", "Qualcosa di normale", "Quando guardiamo una rosa". Complimenti!