Raf - Padova, 02-12-2004

C’è chi avrà un colpetto al cuore. Ma intervistare un cantante pop inquieto e profondamente sincero con se stesso come Raf, ha non pochi punti di interesse: per le sue radici profondamente “alternative”, ad esempio, o per le cose che ha da dire sul mondo della musica di oggi, o ancora perché ha sempre avuto una grossa attenzione per il “nuovo che avanza” (nel 1997, ai tempi di “Confusa e felice”, si portò in tour Carmen Consoli, ben prima del successo commerciale della catanese). O semplicemente, anche se “qui ci piace l’alternative”, perché il mondo non è in bianco e nero.



Una delle cose che ho sempre invidiato all’Inghilterra è il fatto che tra la cosiddetta scena alternativa e il mainstream ci siano una minore distanza e una maggiore comunicazione. E il fatto che da noi non sia così, credo sia un danno.
Questo è dovuto al fatto che gli inglesi hanno verso la musica un approccio diverso da quello cui noi siamo abituati. In Inghilterra c’è un’istituzione che vuole dare più importanza alla musica in generale. Poi ognuno fa le sue scelte e decide se ascoltare alternativa o mainstream. Certo noi siamo colonizzati da una cultura musicale che non ci appartiene e che sol con gli anni è diventata nostra, ma non abbiamo mai avuto un’istituzione per cui la musica sia così importante come in Gran Bretagna. Già negli anni 60, dai tempi dei mods e dei rockers (basta guardare “Quadrophenia”), lo stato finanziava lo sviluppo di questa cultura, della musica tra i giovani, tramite un ministero. In Italia invece la musica è sempre stata presa sottogamba, specie quella non ritenuta colta come la classica e certo jazz. per il pop, il rock, e l’alternativa non c’è mai stato nemmeno un tentativo in questo senso.

D’altro canto questa scarsa comunicazione tra mainstream e alternativa in Italia causa anche una stagnazione della musica di largo consumo. Che è sempre la stessa.
L’altro giorno un dj si lamentava del fatto che in radio il mio album “si digerisce poco”. Ma se il mio disco non è facile da seguire puoi immaginare come siamo ridotti.

In realtà io penso che la gente sia pronta a capire e recepire della musica diversa. Che è quello che cerco di fare io, nell’ambito del pop. Tento di uscire dal pop convenzionale, fatto di ritornelli che arrivano a un minuto dall’inizio, di trucchi per attirare l’attenzione e adescare l’orecchio delle persone. Mi diverto di più a scrivere senza limitazioni. Anche se quando fai canzoni che non rientrano in certi cliché ti scontri con le radio che fanno fatica a uscirne. Ma di loro mi interessa fino a un certo punto: certo non al punto di fare la musica che vogliono.

Chi fa musica non deve lasciarsi coinvolgere nei meccanismi delle radio. Se chi fa un disco dovesse farlo perché le radio non abbiano problemi a trasmetterlo, allora dovrebbe cambiare mestiere. Io non ho nessuna libertà. Se non faccio canzoni che entrino nel cuore della gente, non va bene. Oggi in Italia nessuno si può permettere di fare un disco ed essere sicuro che sarà un successo. Quindi uno lo fa al meglio della sua creatività, essendo sincero con se stesso. Poi se le radio lo passano, bene. Altrimenti fa lo stesso. Se vuoi dire delle cose, non puoi scendere a compromessi.

Andando ai tuoi inizi, com’è che ti sei trasferito da Margherita di Savoia, provincia di Foggia, nella Firenze della new wave?
Beh, sono andato a Firenze per una ragione che ha poco a che fare con la musica: per amore di una fanciulla. In Puglia suonavo già, durante i Settanta: facevo progressive. Una volta a Firenze ho cercato di suonare anche lì: ma erano arrivati il punk e la new wave. Il punk ha stravolto, spezzato l’eccesso di virtuosismo cui era arrivata la musica prog allora, ormai piatta: un discorso esaurito. Per molti musicisti il punk era brutto e inaccettabile: un bassista che era cresciuto nel culto di Jaco Pastorius non poteva accettare il modo di suonare – o di non suonare – di Sid Vicious. Io invece ne sono rimasto affascinato. Sono diventato punk e poi ho vissuto tutte le varie evoluzioni new wave. Ho messo su un gruppo con Ghigo Renzulli e Renzo Franchi, i Café caracas. Suonavamo nei locali alternativi di allora, come il Tenax.

Che musica facevano i Café Caracas?
Avevano uno stile che a molti ricordava i primi Police, non era proprio così: forse ci ascoltavano male. C’erano dei critici molto alternativi, ma poco attenti. Eravamo molto vicini in realtà ai Jam, a quella specie di beat-punk inglese in cui introducevo qualche elemento di reggae. E forse era quello che ci faceva avvicinare ai primi Police. Ma noi eravamo più vicini al beat-punk, ripeto.

Avete mai inciso qualcosa?
Un singolo, dove sul lato A c’era la cover di “Tintarella di luna” di Mina, in una versione molto stravolta, come facevano molti gruppi allora. Sul lato B io, che ero il bassista, cantavo una nostra canzone in inglese: “Say it’s all right, Joey”.

Conoscevi altri esponenti della Firenze new wave di allora come Fiumani e Chimenti?
Ci incontravamo nei festival di musica alternativa. Spesso suonavamo assieme in minifestival: quattro cinque brani per ognuno, tre quattro gruppi in tutto. Era molto bello. erano degli anni molto eccitanti, stimolanti musicalmente. C’era qualcosa di nuovo che prima non c’era mai stato.

E forse qualcosa di così nuovo non c’è più stato da allora.
Assolutamente sì. Nei primi anni 80 è venuto fuori anche l’hip hop, che veniva dai ghetti. Oggi la cultura hip hop è rimasta e la musica nera ne è profondamente influenzata: anche agli Mtv awards a Roma ha avuto un grande spazio. Ma io non riesco a trovarci niente di nuovo: l’hip hop si ripete drammaticamente senza nessuno stimolo. Da cultura del ghetto, delle fasce sociali emarginate, è diventato musica di tutti: uscendo fuori dai suoi luoghi di origine non ha più senso. Sono stanco di vedere video di rapper attorniati da fanciulle sculettanti, mentre dicono sempre le stesse cose. Qualcosa di nuovo lo fa Eminem, ma… Insomma, l’unica vera grande rivoluzione è stato il punk.

Anche il punk però sembra aver esaurito oggi la sua carica eversiva…
È un moribondo che ripropone una storia di almeno venti anni fa. Poi ci sono i teenagers che scrivono “punk’s not dead” sul diario, come si faceva nel 1980…

Sei rimasto in contatto con le persone della Firenze new wave?
In giro vedo Piero Pelù, magari al Festivalbar. È bello ricordare i vecchi tempi, anche se non vorrei sembrare troppo nostalgico. Altri li vedo meno. Ma io vivo a Roma e mi sono un po’ imborghesito, sono un cantante pop, una volta mio malgrado e oggi felicemente. Poi tutti hanno più o meno la mia età e difficilmente li incontro.

È vero che Renzulli ha un caratterino mica da niente?
Mah, quando suonava con me Ghigo era una pasta di pane, un bravo ragazzo. Alla lunga forse ha sofferto della forza di carattere e di immagine di Piero, a cui non si può fare nessuna colpa. Ma insomma nei Litfiba era lui al centro dell’attenzione. Spesso leggiamo di queste cose a proposito dei gruppi inglesi o americani: credo che negli anni Renzulli abbia semplicemente subito la forza di Pelù e allora magari son ousciti dei lati del suo carattere che non ha in natura. Ci ho suonato per quattro anni e ci siamo frequentati per cinque-sei e non è mai stato di carattere nervoso.

Come hai preso la decisione di lasciare Firenze e andartene a Londra?
A Firenze a un certo punto i gruppi alternativi spuntavano come funghi, come avevano fatto anche in città come Pordenone e prima Bologna, gli altri centri della new wave italiana, molto fertili sotto questo aspetto. Io cominciavo invece a essere stanco di Firenze, che sentivo comunque provinciale. Fare punk o new wave in uno spazio che cominciava restringersi con dei confini non mi dava più le stesse sensazioni di eccitazione. Non era più al centro di un movimento vivo. Allora mi sono detto: “Voglio andare a Londra dove sono nate queste cose e provare a suonare con qualcuno”. Ho avuto un’occasione: il fidanzato inglese di una mia amica mi ospitava. Sono partito. E ci sono rimasto due anni.

Che hai combinato a Londra?
Il mio inglese allora era veramente scarso. Gli inizi sono stati durissimi: trovavo solo lavori dove bisognava parlare poco. Ho fatto l’extracomunitario davvero, nel senso dell’emarginato, almeno per un anno. Sono stato uno squatter, ho vissuto in delle case occupate, poi ho trovato lavoro, poi una casa: due anni così. Ho provato la durezza di Londra e nel frattempo iniziato a suonare. Il bello è che qualche mese prima di iniziare a suonare, tornando a Firenze (lo facevo periodicamente, avevo delle cose mie in sospeso) ho conosciuto Giancarlo Bigazzi, che faceva il produttore, che mi aveva prospettato di lavorare come autore e realizzare con lui dei dischi. Insomma, sai: tornare a casa, dove faceva meno freddo, trovavo degli amici… Sono tornato anche se avevo finalmente iniziato a suonare in Inghilterra: eravamo in sei, io ero il bassista del gruppo e ho fatto prove per 15 giorni, per uno show case, che poi è durato solo 40 minuti. Loro dovevano trovare un produttore. Non ce l’hanno fatta e son tornato a Firenze.

E qui?
Ho cominciato a scrivere e realizzare dischi con Bigazzi. Gli ho proposto anche “Self control”, che avevo scritto qualche anno prima. È lì che è diventata dance.

Ho letto diverse dichiarazioni dove ne prendevi le distanze come farebbe un qualunque ragazzino alternativo.
Sai, mi nascondevo proprio. Mi mettevo gli occhiali scuri per non farmi riconoscere. Avevo ancora i capelli vagamente tirati su col gel: la mia immagine era quella di uno che voleva scomparire. Quando salivo sui palcoscenici speravo che i miei amici non mi riconoscessero. (“Self control” piacque a Laura Branigan che decise di inciderla per il mercato americano. Avuta la notizia, Bigazzi convinse Raf, che immaginava di fare solo l’autore, a cantarla e inciderla per il mercato europeo. Il successo travolse Raf che si trovò in un ruolo che non immaginava suo, visto che ascoltava ancora solo new wave e non sentiva neppure la radio. Nella sua autobiografia racconta che scoprì che “Self control” era diventata un successo partecipando per la prima volta a una trasmissione tv, su Raitre, e vedendo la gente andare letteralmente fuori di testa, N.d.I.)

Che ti dicevano i compagni di qualche anno prima?
Mi hanno preso per il culo, non sai quanto. All’inizio è stata dura: non me la vivevo bene. Ma quella canzone aveva una presa incredibile, di cui non mi ero reso mai conto.

A proposito di “Self control”, hai dichiarato: “Per Bigazzi la tossicodipendenza era solo un argomento toccante su cui provare a costruire una canzone di successo. Per me era un’altra cosa, io me la sentivo sulla pelle”. Mi spieghi questa affermazione?
Allora: ho avuto esperienze dirette di droghe leggere e indirette di droghe non leggere, che però mi hanno coinvolto molto. Di quelli della mia generazione non ce ne sono poi molti senza un amico che abbia avuto seri problemi di droga. Per Bigazzi era diverso: apparteneva alla generazione precedente, viveva il problema in modo più distaccato, per cui il suo modo di scrivere su di esso era assolutamente discutibile e, dal mio punto di vista, assolutamente non accettabile. (Il testo di Bigazzi presenta il tossicodipendente come un bighellone romantico e un po’ maudit che si diverte la notte, N.d.I.)

Un tuo singolo del 1998, “Vita, storie e pensieri di un alieno”, mi ha fatto sempre pensare a Bowie…
Bowie io lo adoravo. Da adolescente mi affascinava: era veramente diverso dagli altri. Il primo Bowie, dico: il suo fascino androgino era irresistibile, nel mio inconscio mi ha influenzato. “L’uomo che cadde sulla Terra”, il film che ha interpretato diretto da Nicholas Roeg, in particolare. Trovo che quel film abbia per me un valore che va al di là del valore cinematografico stesso: per me significa tantissimo.

Ho letto che sei impegnato come testimonial di Legambiente, nelle iniziative "Salviamo il mondo" e "Un orto per la scuola", a favore dei bambini dell'Ecuador.
Non sono membro di movimenti ambientalisti, ma quello dell’ambiente è uno dei problemi che mi crea apprensione, e dal privato sfocia nel pubblico. Ho voglia di vivere in un mondo più sano. Nell’ultimo cd ho incluso un traccia multimediale con le proposte di Legambiente: bonificare i terreni paludosi vicino alle scuole, laddove non c’è che deserto, mi pare un buon modo per insegnare ai popoli del Terzo mondo ad essere autosufficienti. Sempre che le nazioni potenti e le multinazionali li lascino liberi di esportare i loro prodotti.

Oggi Raf è felice?
Oggi sono sereno. Sono contento perché ho la possibilità di fare del pop almeno al 90% come voglio: non ho grandi condizionamenti. La mia battaglia è cercare di ottenere il più possibile facendo un pop che riesca a uscire dai ranghi della tradizione.

Per finire, il consiglio che daresti a dei giovani musicisti alternativi.
Se hanno scelto di fare musica alternativa hanno già l’approccio giusto perché non tengono conto della cultura di oggi che dà questo messaggio: “Usa la musica per diventare famoso”. Se scelgono già la musica alternativa hanno detto no a un percorso con spazi e porte aperte (ammesso che ci siano) per raggiungere la fama. È la strada giusta, perché la musica si fa per il piacere di farla. Tutto quello che ne consegue è valido. Bisogna che ci sia il godimento mentre si suona.

L’unico consiglio che mi sentirei di dare è questo. Da giovane io avevo un atteggiamento molto estremo. Compravo dischi inglesi: se solo superavano poche migliaia di copie li rifiutavo, li davo per scontati, li consideravo cose non più originali. Perfino se trovavo altre due-tre persone a Firenze che li avevano. Ecco: questo è un atteggiamento sbagliato, che alcuni si portano dietro sempre. L’importante è divertirsi, stare bene. Tutto qui.

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L'articolo Raf - Padova, 02-12-2004 di Renzo Stefanel è apparso su Rockit.it il 2004-12-02 00:00:00

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