Alessandro Grazian - Padova, telefonica, 10-08-2006

(Alessandro Grazian - Foto da internet)

Intervista agostana per Alessandro Grazian, quando aveva appena finito il suo tour di quaranta date, che in Italia per un indipendente fan sempre notizia. Nonostante il ritardo, molto attuale. Nel frattempo Grazian ha fatto in tempo a farsi un po’ di vacanza in Francia, sfidare a calcetto balilla (di cui è drogato) Cesare Basile a Milano e perdere in modo nettissimo (“ho fatto solo un gol”), oltre a smarrire il cd dei provini alla stazione di Bologna. Mettetevi sulle tracce.



E allora, com’è andato questo tour? Quaranta date per un cantautore, indipendente, al primo disco, non si vedono tutti i giorni…
Il bilancio è positivo. Ora volevo fermare questa cosa perché tutta una serie di aspettative e di cose che inseguivo e volevo realizzare le ho raggiunte: le date in Italia, non solo in Veneto, fare degli incontri positivi, suonare in posti di cui avevo solo letto. Il fatto che queste cose siano accadute mi ha dato serenità. A questo punto potevo permettermi di rallentare, di fare dei bilanci e pensare a un progetto nuovo. È stato positivo essere partito senza aspettative precise, però: il disco è stato una produzione assolutamente indipendente, slegato da un serie di risorse economiche tipiche di produzioni più alte. Gli stessi concerti sono venuti con molta improvvisazione: alcune volte sapevo dove avrei suonato ma non dove avrei dormito. Ma il calore del pubblico ha reso molto bella l’esperienza di suonare in giro. La sensazione è questa. Son partito senza sapere bene cosa sarebbe successo. Il disco era un progetto particolare, non allineato ad abitudini musicali né major né indie. La possibilità di suonare dal vivo è stata preziosa e mi ha permesso di girare tutta l’Italia fino a Napoli, e questo con una produzione indipendente è un bel traguardo. Avevo però sempre più l’esigenza di pensare a scrivere cose nuove e presentarle. Quaranta date rappresentano un giro di boa: ora era il momento di staccare la spina e raccogliere le idee per un progetto nuovo. Diciamo che mi sono molto nutrito.

Com’è andata a Napoli, dove so che è stata una giornata particolare?
Sono felice di averci suonato perché rappresenta una specie di punto più lontano in Italia per me. Ho fatto un doppio concerto, il pomeriggio alla Fnac e due ore dopo in un locale. È una città molto bella, e c’ero già stato. Napoli mi piace molto, ma quando ho detto che ero veneto c’è stata un sensazione un po’ strana nel locale. Ma poi è stato bello intrecciare discorsi con il pubblico, molto diverso da quello cui siamo abituati qui, più irriverente, capace di spezzarti una canzone a metà perché ti deve comunicare la sua sensazione. Alla fine ho venduto anche i dischi che avevo dietro e il proprietario del locale mi ha detto che non è mai stata una cosa facile. È stata una data di confine, ma davvero un bel ricordo.

Ma spiegami sta cosa che hai detto che eri veneto…
Non ero certo il primo veneto che suonava da quelle parti. Però ero il primo cantautore veneto in quel locale e ho pure nel cognome la “n” tronca tipicamente veneta. Ho fatto il primo pezzo, mi sono presentato, e nell’aria sentivo un punto interrogativo. Il tintinnio dei piatti e delle birre si è fermato. Lì ho pensato: “E adesso che succede?” Allora ho sentito che dovevo dimostrare tutto, che c’era la pressione di tutta la storia musicale di Napoli. Insomma, vieni con la chitarra dal Nord e devi dimostrare non solo di saper suonare, ma tracciare linee e conquistare la gente. Il biglietto da visita “veneto” non mi spianava la strada. Ma poi è finito tutto bene. È un bel ricordo, e poi è stato molto bello conoscere gente.

Ecco, questa cosa della tradizione… tu hai una serie di riferimenti non usuali per un musicista italiano di oggi: affondi nella tradizione italiana con orgoglio e ne trai cose niente affatto banali. E siete in pochi a farlo. Cosa che è invece normale per un musicista anglosassone con la sua tradizione musicale. Perché è così strano per un musicista italiano?
Credo che il mio approccio quando ho cominciato a interessarmi di musica sia stato simile al percorso che fanno tutti: ho ascoltato molta musica, e mi sono accorto che certe cose erano giù state fatte. Da qui mi è nata un certo tipo di curiosità verso la tradizione pur mantenendo un piede nell’attualità. La tradizione è – senza spararla troppo grossa – cultura popolare che nel tempo è andata via via deformandosi perché le persone non riconoscono che in certi elementi di tradizione, nelle cose del passato ci sono cose fresche ed attuali. In Italia le cose sono sempre molto divise.

Il mio percorso personale è stato naturale. Il mio background è rock. Ma ho avuto la curiosità di non fermarmi a un genere o a un autore, trovando in alcune cose del passato cose fresche. È stato naturale avvicinare autori caduti nel dimencatoio. Non è così naturale per la gente in Italia perché da un lato c’è l’incapacità di riconoscere e apprezzare le cose che ci sono state e non sono state così fortunate da finire sotto i riflettori, anche se positive; dall’altro lato paradossalmente la gente molto colta è più attenta a seguire cose più superficiali. È un discorso un po’ banale detto così, ma è vero: si sta attenti alle cose che succedono fuori, ma è un’attenzione di superficie.

Poi ci sono altri problemi, come il ruolo dei media che mangiano tutto, spazi e porzioni di cervello. Per cui è molto difficile che a livello popolare ci sia questa sensibilità. A ogni modo è un problema che mi tocca fino a un certo punto, perché mi sono slegato da una dimensione più popolare, ho smesso di aspettarmi di trovare complicità nella gente: è come vivere in una dimensione trasversale. Tutte le direzioni sono però legittime. Alcune cose hanno più spazio e peso. In Italia a volte le cose per essere belle devono avere una certificazione che arriva da un punto alto che non è tale per autorevolezza, altrimenti la bellezza non viene riconosciuta come tale e frequentata. Alcuni progetti e gruppi come ricevono questo riconoscimento hanno credibilità, mentre fino a prima era come se non esistessero.

A proposito di riconoscimenti… hai preso un premio al festival di Mantova.
È stata una cosa inaspettata perché non sapevo neppure che ci fosse un premio. Ero là per fare un concerto. Mi hanno chiesto: “Qual è il nome delle canzoni che suoni?”, poi mi han detto che dovevo fare due pezzi soli e ho scoperto che era un concorso. Inaspettato e bello. Anche perché ho suonato in un momento fortunato: era sabato sera, intervallavano gruppi emergenti e personaggi famosi. C’erano Dolcenera, Paolo Hendel: era il momento con più pubblico. I miei due pezzi non erano così popolari e vedere che le cose sono comunque arrivate alla gente con bimbi, gelati, zucchero filato e cappellino è stato davvero bello. Considera che era gente lì anche solo per bere un caffè. Ho suonato le mie cose e ho pensato: “Bello, fatta. Dai che è andata bene”. Sul palco è stato veramente emozionante. Forse è stato il concerto con più gente che ho fatto.

I tuoi concerti sono affollati di pubblico femminile. Qual è il tuo segreto?
È pericolosa la risposta… Dovrebbe dirlo qualcun altro. Forse le cose che scrivo le scrivo in momenti molto forti, tinti di sensibilità verso le cose. Probabilmente è un tipo di sensibilità più femminile che maschile. Io mi ritrovo a parlare più in profondità di certe cose con donne, perché hanno una sensibilità verso le cose di un’intensità differente. In un uomo c’è sempre una componente cameratesca, perché dopo un po’ le cose le butti un po’ così. Con gli uomini, anche perché forse ci crescono in un certo modo, c’è sempre una concretezza davanti che mangia la capacità di trasfigurare le cose. Almeno tra le persone che frequento io, è più facile che si crei una complicità con le donne. E quindi forse c’è una sensibilità più femminile in me, per il tipo di scrittura e per la volontà di andare a fondo con le cose. Ho avuto dei riscontri molto forti dalle donne, che forse hanno più spazi… più disposizione a sentire certe cose, a pretendere tanto e a dare tutto quello che hanno. Dagli uomini ho sempre avuto un riscontro più tecnico, meno evocativo. Nelle cose che facevo c’era un forte evocazione di certe sensazioni, un affondare il coltello nella piaga: così forse quello che canto e scrivo descrive di più la sensibilità femminile. Ovviamente questa è una lettura che sto provando a dare, perché non mi ero mai posto il problema. il feedback femminile è più concentrato su questi aspetti, c’è più attenzione, più complessità. Il pubblico maschile è a un altro livello, più tecnico.

Spiega al mondo cosa significa in concreto essere indipendente.
Significa essere in missione. Come cominci a presentare il tuo prodotto, cominci a confrontarti in modo intenso con il significato di questo ruolo. Da un lato è un atto di libertà perché lavori su qualcosa che è realmente tuo: c’è una forte autoresponsabilizzazione nel mantenerlo, difenderlo, dargli un’identità che sia autosufficiente. Dall’altro è una cosa molto complicata perché slegata da una serie di semplificazioni, di strade già battute. È tutto da inventare. È anche molto bello perché è tutto libertà, ma vincolato perché dipendi dalla tua indipendenza, che ha un prezzo che devi pagare in qualche modo, psicologico, umano, ecc. È una cosa che ti costringe a fare sforzi intensi. Ti ritrovi a inseguire un’idea estetica, poetica, più che un certo tipo di successo. Sono felice dei riscontri, ma disilluso perché mi rendo conto che sono inscritto in un cerchio, per cui non so bene cosa aspettarmi. Essere indipendente è un’esperienza intensa perché è tua, ma complicata, perché non ci sono tutte le cose facili che la gente si immagina. Quello che conquisti, lo conquisti da solo.

È buffo perché prima mi parlavi di una tua sensibilità per certi versi femminile e quella che mi hai dato è una risposta molto femminile.
Ah sì?

Eh, già… Che significa invece essere indipendente all’atto pratico, nella vita on the road di tutti i giorni?
È una cosa in cui devi caricarti la macchina, fare benzina, partire, passare a prendere il musicista che suona con te, andare in un posto dove non sai bene cosa troverai, suonare per il rimborso spese, con la gente che magari mangia il fritto o la pizza e non trova la cover band, e dopo qualche pezzo si accorge che non ci sono brani che conosce e si preoccupa. Dopo si può vendere qualche disco, che ti sei pagato completamente tu. Io sono un solista, non ho la band, ed è quindi anche più difficile che le persone che suonano con me mettano il concerto con me davanti ai loro progetti, visto che non posso pagarli oltre quel che prendo io. Devi quindi trovare gente sulla tua lunghezza d’onda e vogliosa di suonare anche solo per il rimborso spese. Ti potrebbero chiedere perché lo fai. Perché è una missione cercare di portare in giro le proprie cose. Poi ovunque vai c’è qualcuno che ti accoglie o qualcuno che è lì per le cover e scopre che c’è tutto un mondo che non gli passa neanche per la testa. Queste cose ti spronano.

Sono riuscito ad andare a zero con le spese. Ho fatto quaranta concerti a testa bassa, volevo suonare il più possibile. Per cui ho accettato tutte le date, anche nei posti più improbabili, trovando moltissima gente o solo due persone. Ho fatto chilometri e chilometri con la chitarra, volevo capire se potevo raccogliere qualcosa. Per farlo era necessario rinunciare alle comodità. Su quaranta date l’unica volta che ho dormito in un albergo è stato al Mi Ami, sennò dormivo in auto, o da gente che mi accoglieva. È stato bello per la quantità di aneddoti che ci sarebbero da raccontare. Così metti a fuoco delle cose e capisci se può valere il prezzo che c’è da pagare. Non è una strada così in discesa. Forse le persone si aspettano cose più confortevoli: taxi e posti dove dormire…

Come sarà il nuovo disco?
Grazie a tutti questi concerti ho cominciato a capire cosa si è esaurito con il disco precedente e cosa apparterà al nuovo. L’esperienza produce una progettualità diversa. Ora avevo bisogno di staccare la spina. Non ho un’idea precisa, ma una direzione c’è, sono esclusi alcuni aspetti del primo disco, volutamente. Ci sono delle cose che sento di aver già scritto. Prevedo non un cambio di rotta, ma diversità circa l’aspetto musicale, la scrittura, l’arrangiamento, i testi. Il primo disco aveva un certo colore e una certa autoreferenzialità protetta, era creato per una dimensione intima. Il nuovo è una finestra che si apre: quello che sento dentro spalanca finestre e mi mette in gioco. Parte del materiale c’è già, perché, uscito il primo disco, un blocco che avevo verso la scrittura si è sbloccato. In tour ho scritto cose nuove che ho infilato nei concerti. Ora devo nutrirmi con un po’ di ascolti e di letture, e poi sfrondare quello che ho scritto, scrivere le cose nuove, fare i provini, incontrarmi coi musicisti. Non ci saranno più solo strumenti acustici (e pochi sanno che Grazian è uno straordinario chitarrista elettrico…, NdI). Però sono tutte idee: è un momento assolutamente creativo. Ho scelto di partire libero, di confrontarmi con altre scritture, con altre estetiche musicali. poi dovrò livellare, decidere cosa escludere e cosa tenere. Il secondo disco ha una prospettiva modificata dal primo perché ne hai già fatto uno. Non vorrei ripetere quello che ho già scritto. Penso ci vorrà un po’ di tempo. È un altro aspetto dell’essere indie. Fai le cose con le persone che ti vogliono bene, ma non c’è oro: per cui le cose fanno quando hanno tempo.

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L'articolo Alessandro Grazian - Padova, telefonica, 10-08-2006 di Renzo Stefanel è apparso su Rockit.it il 2007-03-17 00:00:00

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