il Pan del Diavolo - Tutto intorno è nostro

Abbiamo incontrato Il Pan del Diavolo per farci raccontare il nuovo album "Supereroi", un disco autentico e carico di speranza

Il pan del diavolo intervista
Il pan del diavolo intervista

Nel 2017 compiono 10 anni di carriera e lo fanno con un disco fortemente rock, su cui hanno lavorato con Piero Pelù. Abbiamo incontrato il Pan del Diavolo in occasione della pubblicazione di "Supereroi", e ci hanno raccontanto quali sono gli ingredienti che gli permettono di suonare ancora così autentici e credibili.

Sembra che negli anni, seppur con le dovute eccezioni presenti nei vari dischi, abbiate abbandonato una certa idea di “suono primitivo”. Siete anche diventati meno irruenti e più riflessivi, come se lo storytelling avesse preso il sopravvento.
Alessandro: In parte è così, perché quell'effetto primitivo a cui vi riferite non è sempre dato solo dagli arrangiamenti, dipende da una serie di cose. Lo storytelling si è evoluto di parti passo con la musica, descrivendo e suonando episodi diversi di album in album. “Supereroi” ha una potenza sonora più forte rispetto a “Folckrockaboom”, una parte rock più spiccata e una grossa componente autoriale. Gli elementi sono rimasti quelli, ma abbiamo fatto uno sforzo in più.

Da dove arriva questa voglia di chitarre elettriche?
Gianluca: Quello che facciamo ci viene abbastanza naturale, non c'è nulla di calcolato. Le chitarre elettriche ci sono semplicemente perché ci andava così. Le abbiamo sempre avute ma questa volta sono più in faccia, perché per ogni disco scegliamo la gente con cui lavorare e questo crea un “alone” sul sound totale. Quando abbiamo registrato con Fabio Rizzo per esempio, in “Sono all'osso” aveva portato la sua impronta, molto blues e folk. Con “Piombo, polvere e carbone” avevamo la band, quindi un suono più polveroso. Adesso con Fabrizio Simoncioni, che è un grandissimo ingegnere del suono, abbiamo ottenuto questo sound molto potente.

Qual è stata la cosa migliore di lavorare con lui?
G: Simoncioni è un'entusiasta del suono e ama i dettagli. Per esempio quando su “La finale” dovevamo mettere il suono della frusta, lui è stato mezz'ora a cercare il timbro giusto. È una persona attenta, ha il banco customizzato per le chitarre, per i fusti ecc., ha lavorato in America a El Paso e anche con band come Ligabue e Negrita. Quindi quello che passa sotto le sue mani ha un ottimo suono, che mescolato alle nostre scelte produttive e a quelle di Pelù ha restituito questo disco.

Come l'avete conosciuto e come siete finiti a lavorare con Piero Pelù?
A: non siamo stati noi ad andare da Piero. È stato lui ad avvicinarsi a noi, a sviluppare un interesse, a esprimere degli apprezzamenti nei nostri confronti. Questo ti fa aprire verso un'altra persona, e lui non si è limitato ai complimenti, ha continuato a dimostrarsi interessato, ci abbiamo suonato insieme, siamo arrivati alle famose minacce di cui parla nel video teaser che abbiamo lanciato per presentare il disco. Non lo conoscevamo da un punto di vista produttivo, non immaginavamo di poter far un disco con lui, perché ora è impegnato con i Litfiba, ma abbiamo scoperto una persona che si è rivelata una colonna per noi.

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Ma a voi i Litfiba piacciono?
G: sì, li ho conosciuti con mio fratello, ascoltavamo i primi brani come “Apapaya” o “Tex”, poi ho sempre avuto dei loro dischi in casa. Sono un punto di riferimento, è un gruppo che rappresenta il rock italiano. È una bella rock band che porta avanti una certa idea di suono rock.

Ci sono stati dei dischi importanti per questo disco, album che vi eravate dati come riferimento o come obiettivo?
A: l'influenza rock ed elettrica viene da dischi anche abbastanza recenti, per esempio l'ultimo di Iggy Pop, “Post Pop Depression” ha ispirato molto il lavoro di Gianluca. Io comunque non sono meno appassionato di chitarra elettrica anche se non la suono sempre, ma se Gianlu mette una distorsione non stiamo facendo qualcosa di diverso da quella che è la nostra musica, è nella natura del duo.

Avete fatto una scelta desueta, quella di mettere nel disco la traccia fantasma, una breve strumentale che riprende il tema di "Qui e adesso". Perché?
G: Questa è l'ennesima conferma che noi cerchiamo di divertirci quando facciamo un disco, e siccome “Qui e adesso” è un pezzo molto positivo, uno dei pilastri del disco, ci piaceva l'idea di tornare su quel pezzo e addolcire la fine del disco che si inasprisce a livello musicale con “Gravità zero”. È come l'amaro dopo la cena, una firma.

Confrontandoci in redazione sui testi del disco, ci siamo accorti che le interpretazioni erano quasi agli antipodi:  per alcuni sono presi male, per altri invece sono carichi di positività e di speranza, per esempio quando dite che il sole si può ancora guardare dritto negli occhi. Chi ha ragione?
A: fondamentalmente le due cose sono consequenziali. È vero che è un disco carico di disillusione, però la speranza, il sorriso, ci devono essere sempre.
G: sì, è un disco pieno di speranza e positività, poi le orecchie di chi ascolta devono saperle carpire. Quando riascolto questo disco io mi sento bene, credo che l'abbiamo scritto con molta positività, in maniera del tutto naturale.



La figura dell'aquila solitaria sembra suggerire che la solitudine possa essere una soluzione, se si impara a conviverci.
A: se vogliamo entrare nella psicologia della cosa sì, la solitudine non è una cosa brutta.
G: generalmente si dice che chi convive bene con se stesso, convive bene con gli altri, quindi sì, cercare un po' di solitudine ogni tanto fa bene.

A domanda diretta risposta diretta: l'amore paga sempre i conti che ti lasci addosso?
A: no.

E in che modo "la confusione ci conforta"?
A: distinguiamo il contenuto dell'album in parti autobiografiche, parti di poesia in cui la scrittura cerca dei trucchi per funzionare e poi una parte di chiusura per far convivere queste due cose. La solitudine e il silenzio possono spaventare, ma io sono fan artisticamente di certe letterature e immagini futuriste e per me può avere senso anche il rombo di uno stadio.

Una delle immagini che ha creato più discussione è “Tutto intorno è nostro”. Da una parte sembra un'affermazione di forte personalità, dall'altra ci chiediamo che senso fare abbia questa affermazione davanti a una generazione come la nostra che di “nostro” non ha proprio nulla.
A: il brano è proprio un invito a riappropriarci del nostro tempo, perché ci appartiene. Per esempio quello che noi abbiamo fatto finora, anche se non è sempre tangibile perché la musica un po' si può toccare un po' no, è importante, è valido. Questo tempo ci deve appartenere perché se no ci sfugge di mano. Rischiamo di essere la generazione del non fatto, mentre io so che c'è molta gente che tiene tantissimo a quello che fa e lo fa bene.
G: "Tutto intorno è nostro" si riferisce all'intera umanità. Abbiamo la Terra, i confini, e dobbiamo romperli, dobbiamo cercare di interagire con tutto quello che c'è attorno senza limiti mentali e fisici.

C’è quest’immagine abbastanza ricorrente dei malviventi che scappano (“Strisce”, “Sempre in fuga”) Perché?
A: ci sono vari strati di ispirazione in questo album e io non vorrei sviscerarli tutti. Quello che posso dirvi è che all'interno dell'album c'è una ministoria che parte da “Sempre in fuga” e va avanti fino alle rivolte al confine in "Messico", e finisce “Qui e adesso” e poi fuori dal pianeta con “Gravità zero”. È un riferimento figo stilisticamente, nei libri e nei film di avventura queste cose succedono sempre.

Quindi come ci avevi detto qualche anno fa le tue ispirazioni sono ancora nella letteratura d'avventura, ma invece i “Supereroi” chi sono?
A: non è semplice come risposta. I supereroi nelle canzone hanno un valore, mentre come titolo del disco ne ha un altro. Tra i vari titoli che abbiamo vagliato c'era “Un lampo nel buio”, inteso sempre come invito alla ricerca di nuove capacità, voglia di fare, quindi è una sorta di richiesta d'aiuto ma non verso un superoe esterno e la speranza che arrivi a salvarci. È un richiamo alle nostre stesse forze e ai nostri stessi poteri.



Di che cosa parla “La finale”?
G: è uno dei pezzi più immaginifici del disco, già nel primo verso lui descrive una situazione molto chiara, che parla di una solitudine ma sempre nella positività (intona: "Un corvo grida la sua rabbia / pomeriggi bianchi e blu / dietro tende mosse dal vento / sei arrivata tu"). Io ci trovo molteplici interpretazioni e credo che sia uno dei pezzi più poetici, col testo più maturo e più vero, è stato anche uno dei primi che abbiamo scritto per questo disco.
A: dopo averlo scritto ci è arrivata la notizia che un nostro amico musicista aveva avuto un infarto, ma adesso sta bene. Da lì è nata l'idea di dedicargli questa canzone. Non riesco a dirti di cosa parla, perché parla di sentimento, non di una situazione definita come chessò, una canzone contro il governo. Io penso che abbia gli stessi ingredienti di tutte le nostre canzoni: passione, rabbia, desiderio.

Parlando dell'album avete detto “Un percorso che a volte sembra allontanarti dagli schemi consueti”. Da quali schemi di scrittura vi siete allontanati in particolare?
A: a un certo punto dopo 10 anni che suoni, tra proposte ricevute e non ricevute, devi capire come pagare le bollette. Quindi quando parlavamo di "schemi consueti" non intendevamo a livello compositivo, ma a livello di compromessi. A molti musicisti succede di pensare a certi tipi di soluzioni che poi sono anche il problema, tipo: ma se io ci provo, se io cambio, mi mescolo, collaboro con altri artisti più o meno vicini a me, scegliendo solo in base allo status, perché le etichette cercano tra i 20 e i 25 con personalità cantautorale e appeal elettronico, forse... noi invece abbiamo un'età per cui non possiamo più cambiare per fare un singolo che vada bene a Radio Deejay, diventa un casino.

Voi fate questo di mestiere?
G: prima ho fatto il cameriere nei ristoranti, ma ormai sono 5-6 anni, forse 7, che riusciamo a non lavorare più, parlo di lavori standard ovviamente, perché per la nostra musica lavoriamo come i matti.
A: con grandissimi sacrifici, non navighiamo certo nell'oro, ma questo ci ha permesso di essere sempre credibili.

È vero, i vostri dischi sono sempre molto autentici, si sente che fate le cose senza compromessi.
A: non cerchiamo di adattarci all'ambiente, ma speriamo che l'ambiente cambi grazie a noi.

Insomma, siete “due persone diverse abituate ad un mondo al contrario”.
G: bravi! Lo vedete che nulla è per caso?

Vi lasciamo con una richiesta di autovalutazione: dopo 10 anni di carriera come forma fisica come siete messi sul palco?
Senza dubbio ci sentiamo molto meglio di prima!

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L'articolo il Pan del Diavolo - Tutto intorno è nostro di Chiara Longo e Giovanni Flamini è apparso su Rockit.it il 2017-02-23 17:37:00

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