Pieralberto Valli - Cerco un centro di gravità permanente

Pieralberto Valli ci racconta genesi, percorso e punto d'arrivo del suo "Atlas", tra suggestioni marittime e tradizione cinese

Pieralberto Valli, Foto di Enrico Mambelli
Pieralberto Valli, Foto di Enrico Mambelli

Giovedì 25 maggio Pieralberto Valli porterà le sonorità misteriose e affascinanti del suo debutto da solista "Atlas" sul palco Raffles Milano del MI AMI Festival. Ci siamo fatti raccontare genesi, percorso e punto d'arrivo del suo lavoro, tra suggestioni marittime e tradizione cinese.

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“Atlas” è un disco intenso, la cui intensità trasporta passo passo attraverso una minuziosa cura dei suoni, degli strumenti e delle singole parole. È stato giustamente definito un “viaggio iniziatico”, ma da dove hai colto lo spunto per partire per questo viaggio e dove ti ha condotto?
Le premesse e le conclusioni di questo viaggio sono le stesse dell'I-Ching, il Libro dei mutamenti della tradizione cinese. L'idea non è finire da qualche parte, ma trovare un punto in cui poter stare fermi, in cui poter ritrovarsi. Quando i solidi e teneri sono ugualmente distribuiti, i solidi hanno raggiunto il centro, e allora si accetta la via del superiore. So che può suonare assurdo, ma questo disco, questo progetto, sono il risultato di un processo inevitabile, che ho semplicemente dovuto seguire, appuntare, ricopiare, perché così doveva essere. Non ci sono conclusioni da apprendere, non ci sono mete da raggiungere. La meta è nella premessa stessa.

Lo consideri più un viaggio “simbolico”, che percorrendo esperienze reali svela nuovi significati delle cose, oppure è più un viaggio “onirico”, in cui è la dimensione dell’inconscio a suggerire la strada?
Non credo ci sia tanta differenza. Jung, per dire, non prestava troppa importanza alla differenza tra reale e onirico. Quello che conta è il nostro piano simbolico, perché mette in voce ciò che abita nel nostro inconscio. Per questo i testi evitano volutamente ogni riferimento biografico, ogni relazione stretta con la realtà di chi scrive. Non mi interessa essere dietro ai testi, esserne il protagonista. Sono immagini che ho visto, a volte mentre guidavo su un'autostrada, a volte mentre chiacchieravo con i miei gatti. Molto prima che gli uomini imparassero a formulare pensieri, i pensieri vennero a loro. Lo ha detto Jung. E io lo sento mio.



Il percorso che si sviluppa lungo i dieci brani sembra prendere le mosse da alcuni tuoi lavori precedenti con i Santo Barbaro, in particolare da “Navi”. Come mai, però, hai sentito l’esigenza di riprendere il cammino con un disco solista e non con la band?
La socialità mi toglie forza, è una dispersione di energie che ora non posso più permettermi. Credo sia un fatto anagrafico, ma la solitudine mi ricarica, mi aiuta a centrarmi, a focalizzare il messaggio che voglio trasmettere. La democrazia di un gruppo è molto bella, ma preferisco la mia dittatura personale, perché mi lascia la totale libertà di scegliere il canale che sento più mio. Quello che dici è vero: ci sono molte analogie tra "Atlas" e "Navi". Questo, probabilmente, significa che non sono tanto vario a livello compositivo e testuale, ma forse è un modo per riprendere in mano il passato per analizzarlo sotto una nuova luce. E così siamo tornati al tema dell'analisi.

Cosa rappresenta per te la suggestione (fisica e metaforica) del mare, imprescindibile per l’intero ascolto di “Atlas” ma che d’altra parte ti accompagna sin dal primo disco dei Santo Barbaro, “Mare morto”?
Il mare è un simbolo a due facce. Pensa, ad esempio, al tema del battesimo, almeno a quello originario. Le persone venivano fatte entrare in acqua – poteva essere un fiume, un lago, o il mare – e lì venivano immerse completamente fino a morire metaforicamente, fino quasi ad affogare. Era Dio, era la fede, a riportarle alla luce, a donare loro nuova vita. Il mare è questo: è la metafora di un passaggio dalla vita alla morte, e dalla morte alla vita. È la rigenerazione del rito, in cui veniamo ricreati come nuovi Golem. Anche la musica è questo. Fare un disco è morire e rivivere, è lasciare una parte di sé per sempre, per guardare di nuovo avanti.



Nei testi spesso si parla di aspettare, di cercare, di ritrovarsi… e dopo un tormentato vagare le ultime parole che canti nel disco sono: “Verrà un uomo / E con esso il tempo/ Che hai atteso / E sarò io”. Si tratta di una soluzione oppure è ancora una speranza?
Per me la vita e la speranza non hanno niente in comune. La speranza è una decisione personale, è una forma di sopravvivenza. La vita se ne frega della speranza, e io con lei. Nel disco ho cercato di concentrami su un uomo, cioè sull'Uomo, qualcosa di anonimo, archetipico, apersonale. Non sono io quell'uomo. Ciò di cui sono sicuro è che verrà un uomo nuovo, verrà un nuovo tempo, e le due cose sono strettamente legate assieme. Quando arriverà quell'uomo il tempo sarà stravolto, e con lui tutti gli uomini. Le due cose sono legate a spirale, come filamenti di DNA. Però è vero, quelle frasi sono cantate in prima persona, come se stessi parlando di me. Ma è così solamente perché le ho udite in quel modo, e ho cercato di riportarle fedelmente.

Il sodalizio tra te e Franco Naddei continua ormai da anni e si è rinnovato anche in occasione di questo disco. Quali sono i punti di forza del vostro legame artistico?
Siamo molto amici e molto diversi. Ci vogliamo talmente bene che non ce lo diciamo mai e, se dobbiamo dirci qualcosa, ci diciamo solo ciò che non va. Il resto è una premessa scontata. Quando Franco è venuto a vederci live mi ha preso da parte e mi ha elencato tutte le cose che non gli erano piaciute. Poi si è acceso una sigaretta e se ne è andato. Se devo trovare un punto di forza lo ritrovo in questa immagine.

Oltre a Naddei, in questo disco hai collaborato anche con Valeria Sturba degli Ooopopoiooo. Com’è nata la collaborazione con lei e quale ritieni sia stato il suo valore aggiunto al tuo lavoro?
Credo di averlo già detto in un'altra intervista, ma Valeria Sturba è realmente un genio. Non ha nulla a che vedere con gli umani e non credo faccia parte di questo spazio-tempo. Ha registrato tutte le tracce in un pomeriggio, basandosi semplicemente sul suo istinto. Ci sono pezzi dell'album – penso a "Falso Ricordo", "La nona onda", "I nostri resti" – che sono esplosi solo dopo che Valeria ha registrato le sue parti di violino e theremin. Era la prima volta che ci incontravamo, tra l'altro, ma sembrava capisse esattamente cosa stessi cercando. Questo accade solo quando ti fidi degli eventi e accetti di seguirli senza fare domande.



Nella tua carriera hai lavorato con tanti artisti ma qual è l’artista, italiano o internazionale, con cui vorresti ancora collaborare in futuro?
Mi piacerebbe cantare "Montesole" con Giovanni Lindo Ferretti. Oppure collaborare con uno di questi gruppetti indie che hanno migliaia di seguaci per farmi spiegare come si fa. E poi mandarli a fare in culo e dimenticarmi tutto. Ma sono solo sogni, purtroppo.

Da aprile stai portando “Atlas” in tour (e suonerai anche al MI AMI). Cosa ci riserveranno i tuoi live?
Il live è stato un totale processo di riscrittura del disco. Siamo partiti da un punto e ce ne siamo allontanati gradualmente. Ora è uno spettacolo molto compatto, con poche pause, in cui le strutture dei pezzi vengono aperte e c'è molto più spazio per dare sfogo al nostro lato più fisico. In più dal vivo ci accompagna Loredana Antonelli, che è una bravissima visual artist (e autrice del video di “Atlantide”) che si occupa di tutto l'aspetto visivo del live, dalle luci ai visual stessi. È certamente uno spettacolo molto centrato sul lato emotivo del fare musica, del condividere un luogo, una emozione. Devo ammettere che la risposta del pubblico è stata molto superiore alle mie aspettative. In certi casi ne sono uscito quasi commosso, e di certo rigenerato.

Al termine della promozione di questo disco tornerai a lavoro nella musica o pensi di dare un seguito al tuo libro, “Finché c’è vita”?
Io sono sempre al lavoro. Anche se la musica non mi dà da mangiare, io le do da mangiare ogni giorno. Poi non so cosa ne uscirà fuori, non so in quali tempi, in quali modi. Questo non dipende da me, dico davvero. Arriva un tempo, come dicevamo prima, in cui la visione si rischiara e, dopo tanto lavoro, si capisce quale direzione seguire. Ma io sono solo uno strumento e non ho risposte da dare. Le risposte sono tutte lì, nel Libro dei mutamenti. Basta fare le domande giuste.

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L'articolo Pieralberto Valli - Cerco un centro di gravità permanente di Doriana Tozzi è apparso su Rockit.it il 2017-05-18 13:06:00

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