Pierpaolo Capovilla: "Non ho altra scelta se non amare"

Il cantautore veneto è tornato, dopo la fine de Il Teatro degli Orrori: ora al suo fianco ci sono I Cattivi Maestri, con cui ha pubblicato un rabbioso disco "d'amore, perché scritto per amore" verso gli ultimi, dai morti nel Mediterraneo alle vittime di ogni guerra. L'abbiamo incontrato

Pierpaolo Capovilla e i Cattivi Maestri - foto di Mauro Lovisetto
Pierpaolo Capovilla e i Cattivi Maestri - foto di Mauro Lovisetto

“Questo disco è un atto di resistenza intellettuale alla deriva della musica italiana in questi anni drammatici. Una deriva che è lo specchio di quella culturale e politica del paese”. Con queste parole presentano il loro omonimo disco di debutto Pier Paolo Capovilla e i Cattivi Maestri, il nuovo progetto del cantautore veneto Pier Paolo Capovilla, a 25 anni dal debutto artistico con gli One Dimensional Man e due anni dopo lo scioglimento del Teatro degli Orrori. E che sia effettivamente così lo si capisce dalla prima traccia, Morte ai poveri, una beffarda e caustica critica alla società in pieno stile capovilliano che colpisce dritto alle orecchie ed al cuore. Con lui Egle Sommacal, Fabrizio Baioni e Federico Aggio.

Capovilla non può fare a meno di respirare il suo tempo e trasmetterlo ai suoi brani. Ricordo la potenza della sua rabbia urlata per la morte di Ken Saro-Wiwa in A sangue freddo de Il Teatro degli Orrori, l’impatto che ebbe su noi sedicenni dell’epoca, ragazzi incazzati e desiderosi di fare la nostra parte eravamo nel pieno del fuoco dell’adolescenza. E anche se poi “la vita ci spinge verso direzioni diverse”, la sensibilità e l’empatia che ci hanno trasmesso quei brani resterà con chi li urlava e li sussurrava. Educazione sentimentale con una chitarra elettrica. L’intento primario del suo fare musica è proprio questo: parlare con l’ascoltatore e fargli sbocciare qualcosa dentro. Pier Paolo Capovilla e i Cattivi Maestri ha una forza che va oltre la musica. Una forza che viene dalla realtà cruda in cui viviamo, una forza fatta dalla rabbia e soprattutto una forza fatta dall’autenticità, quell’autenticità che per Capovilla è l’unica cosa che conta.

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Com’è stato il periodo successivo alla fine del Teatro degli Orrori?

Artisticamente è stato un lungo periodo di ideazione e scrittura delle canzoni, fra queste le stesse canzoni del disco de I Cattivi Maestri. Emotivamente è stato il momento più difficile della mia vita. E che vita.

Com’è nato questo disco?

Andammo da Manuele (Manuele "Max Stirner" Fusaroli, fondatore e proprietario dello studio Natural HeadQuarter di Ferrara, ndr) per registrare un provino di tre canzoni, ma ci lasciammo prendere la mano. La notte è lunga. È un caso? Non saprei. Forse era già tutto scritto nelle nostre intenzioni, nelle aspirazioni, nel destino insomma. In qualche modo, neanche tanto inconsciamente, sapevamo che varcata la porta del Natural HeadQuarter stavamo dando inizio a quest’avventura.

Il sound del disco sembra riportare a 15 anni fa, anche se con delle differenze che lo caratterizzano in modo nuovo. Come avete costruito il vostro sound?

Tutto ebbe inizio in un piccolo appartamento di Venezia, quello in cui vivo con Elisabetta, la mia compagna, che conosce il mio cuore e che pazientò per mesi e mesi: in casa non si ascoltò nient’altro che provini iper-massimalisti di rock passatista che neanche i Black Flag. Pomeriggi e notti interminabili passate a concepire riff di basso, batterie, chitarre e testi. Verso la fine del 2019 ne avevo una ventina, tutte abbastanza strutturate, ma ancora embrionali. Proposi il nuovo repertorio dapprima a Il Teatro degli Orrori, ma eravamo in piena crisi, umana, politica, esistenziale. Di lì a breve la crisi si sarebbe trasformata in rottura definitiva e scioglimento del gruppo.

Primo piano di Capovilla con bestemmione - foto di Mauro Lovisetto
Primo piano di Capovilla con bestemmione - foto di Mauro Lovisetto

Allora cos'è successo? Come hai coinvolto Egle Sommacal, Fabrizio Baioni e Federico Aggio?

Incominciai a pensare a un chitarrista che mi volesse aiutare a trasformare le canzoni in qualcosa di più evoluto, sentivo che mancava loro ancora molto e sentivo che avrei dovuto spingerle verso nuovi percorsi. Ci voleva una chitarra ben caratterizzante. Quando pensai a Egle fu come mi si fosse accesa una lampadina in testa: ma perché non c’hai pensato prima, dissi fra me e me. Lo contattai di corsa. Mesi, fors’anche un anno prima, ero a Macerata per una lettura poetica, non ricordo neanche di quale poeta, forse Pasolini. Il giorno dopo Fabrizio mi diede un passaggio fino a Bologna. Ci conoscevamo da tempo, perché Fabrizio sostituì Franz in un concerto de Il Teatro degli Orrori. Le sue capacità mi erano dunque ben note. Ascoltammo i provini casalinghi per tutto il viaggio. Fabrizio, quel marcantonio, aveva un’espressione quasi fanciullesca, come se a un bambino avessi appena regalato un giocattolo nuovo e inatteso. Non fu allora che gli proposi di entrare nella band, ma fu come se, tacitamente, avessimo già stretto un accordo. Federico e io ci conosciamo da una vita. Suona il basso esattamente come lo suonerei io, veniamo dalla stessa scuola, quella dei Jesus Lizard e dei No Means No.

Come avete lavorato sui testi dei brani? È stato un lavoro individuale o in parte collettivo?

I testi sono farina esclusiva del mio sacco. Gli arrangiamenti di quello di tutta la band. Non sono comunque impermeabile a osservazioni e critiche e qualche dettaglio mi è stato suggerito, da Egle in particolare.

Il disco si apre con Morte ai poveri. Di cosa ci parla questa canzone e cosa pensi dei “nuovi” poveri che lo sono diventati dopo la pandemia?

La scrissi nel 2019, l’anno del disonore, quello dei ‘porti chiusi’, della guerra ideologica contro le ONG, dei morti ammazzati nel Canale di Sicilia – perché questo sono i naufraghi che affogano nei nostri mari – degli osceni ‘decreti sicurezza’, del razzismo e della paura indotti da un ceto politico inadeguato e intimamente fascista nei confronti dei migranti. Il disonore, appunto. Non si può tacere di fronte a tanto scempio. Non solo, per come la vedo io è necessario cercare e trovare parole efficaci e vere per descriverlo, lo scempio. Una canzone può essere la giusta cornice. La pandemia ha sconvolto molti equilibri e peggiorato le condizioni esistenziali di milioni di donne e uomini, ma nulla è stato fatto per far fronte alla precarizzazione del lavoro, alla delocalizzazione delle produzioni, alla disoccupazione, e persino allo stato di inefficienza del sistema sanitario. E che dire dello stato in cui giace l’istruzione pubblica. Nel suo ultimo saggio, Dominio (imperdibile!), Marco D’Eramo descrive efficacemente la situazione in cui viviamo: la lotta di classe è stata vinta dal Capitale. Passin passetto, giorno dopo giorno, il Capitale si è ripreso ciò che i lavoratori avevano conquistato dal secondo dopoguerra, e non ce ne siamo neanche accorti.

Foto di Mauro Lovisetto
Foto di Mauro Lovisetto

Il disco nasconde anche un lato più lento e malinconico sempre presente nei tuoi dischi, penso a La città del sole ed Anita. Quanto è importante l’amore nella tua scrittura?

Vorrei esprimermi così. L’amore è il cuore pulsante di tutte le mie canzoni. Che raccontino un fallimento esistenziale – Anita – o l’omicidio di un giovane partigiano – La città del sole –, la guerra – Minute Girl, La Guerra del Golfo, Sei una cosa – il razzismo e l’indifferenza – Morte ai poveri – o il carcere – Dieci anni, ma il testo in questo caso è di Emidio Paolucci - sono sempre canzoni d’amore, perché scritte per amore. Amo il mio prossimo, ne scrivo e ne canto, sono cristiano e sono comunista, non ho altra scelta se non amare. Non tutti. Amo la povera gente, lotto e lotterò per essa e soltanto per essa.

In un’intervista hai detto che Sei una cosa è stata “forse la canzone più crudele che abbia mai scritto”. Come mai?

Il testo nacque da una terribile fascinazione. Vidi un video spaventoso. Una strage di civili in Yemen. C’era questo bambino, dolcissimo, spaventatissimo, incredulo, che abbracciava il padre, steso a terra, non più vivo. Lo stringeva forte, non voleva separarsene. Lo presero con affetto e lo portarono via. Di fronte a quell’ingiustizia plateale, apodittica, feroce come solo l’omicidio generalizzato, la guerra, può essere, sentii la necessità e l’urgenza di esprimere il mio stato di impotenza.

Perché Cattivi Maestri?

Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Maestri echeggia quel Nick Cave and the Bad Seeds di cui mi innamorai perdutamente da ragazzo. Speriamo ci porti fortuna. Ma il cattivo maestro, al di là dell’espressione giornalistica, è anche colui che indica la ‘strada sbagliata’ ai nostri giovani, quella se non della rivoluzione per lo meno del pensiero critico, del superamento del presente in una visione del futuro alternativa allo stato di cose in cui viviamo. Infine, ‘maestro’, in musica, è colui che conosce l’armonia, e se sei un cattivo maestro, vuol dire che sei un pessimo musicista. Noi la chiamiamo, a mo’ di sfottò auto-inflitto, ‘ignoranza strategica’.

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La copertina come è nata?

La copertina la commissionai all’amico e fratello Vasco Hadzovich, giovane artista Romanì, che non smetterò mai di ringraziare, perché avevo in mente questa copertina da una vita. L’opera pittorica si intitola Il Cristo deluso. In essa c’è tutto il rammarico per l’oblio e la perdita dei valori e degli ideali di progresso che caratterizza il nostro presente, ma c’è anche la mia militanza politica e il mio cristianesimo. Il fatto poi che l’autore sia un Rom, la rende, io credo, ancor più politicamente significativa. Penso che questa copertina arricchisca e impreziosisca l’album tutto, donandogli un tono ancor più allegorico, e insinuando significati inattesi persino nelle stesse canzoni.

In molti dicono che il rock stia tornando mainstream in Italia (se mai realmente lo fosse stato). Pensi sia davvero così?

Non credo proprio. Ma chissenefrega! L’unico rock ascoltabile in Italia è ancora quello vocazionale e radicale di gruppi che con il mainstream non hanno niente a che fare. Mi viene in mente un gruppo che ho scoperto un po’ in ritardo, ZiDima. Del nostro abbraccio ostinato in questa crepa in fondo al mare è fra gli album più convincenti usciti di recente. Crudele, apocalittico, profuma tanto di Unsane quanto di Slint e di Massimo Volume. Non sarà niente di nuovo sotto il cielo, ma perlomeno è qualcosa di autentico, ed è l’autenticità che conta, non la ricerca del consenso.

In un’intervista del 2012 dicevi che internet anziché essere promotore di cultura e democrazia era la parte più evidente del problema dell’impoverimento del rapporto sociale che si ha grazie alla tecnologia. 10 anni da allora e una pandemia di mezzo come siamo messi?

La situazione è infinitamente peggiore di prima. Siamo caduti nella trappola dell’inconsistenza, in un processo di decadimento morale mai osservato prima. Internet e dispositivi ci stanno letteralmente distruggendo il cervello, e da strumenti di pluralismo, cultura e informazione, si sono trasformati, come era ed è ovvio fosse, in strumenti di dominio delle masse lavoratrici.

Tu come hai passato la pandemia? Come pensi abbia cambiato, se le ha cambiate, le persone?

Per motivi miei, personali e privati, è stato il periodo più brutto della mia vita. Spero di non dover mai più esperire uno schifo del genere. Quando con i lockdown Venezia si svuotò all’improvviso dell’orda turistica non mi sembrò vero; le acque nei canali, a causa della drastica diminuzione degli spostamenti di merci, si fecero chiare. Ammirammo persino un delfino in Canal Grande. Ma sapevo e sapevamo tutti che non si trattava che di una parentesi, e che sarebbe stata il più breve possibile. L’orda è tornata subito, per distruggere la città, per calpestarne la dignità storica, per trasformarla ancor di più in un immenso albergo, un ristorante sconfinato, un set fotografico grottesco e umiliante, un miliardo di osceni autoscatti, un grottesco club vacanze. Io che ci vivo a Venezia, considero questa città lo specchio dei nostri tempi: il nulla promosso a tutto, il tutto a nulla. Fine della storia. La pandemia ci ha cambiati? Non credo, anzi.

Foto di Mauro Lovisetto
Foto di Mauro Lovisetto

Hai raggiunto il successo con il Teatro degli Orrori ma il tuo primo progetto, ed il primo disco omonimo One Dimensional Man, è del ’97. Sono passati 25 anni dal tuo debutto con One Dimensional Man. Il nome trae ispirazione dal concetto di uomo a una dimensione di Marcuse, una critica all’individuo-consumatore occidentale. Dopo tutto questo tempo, come vivi la questione?

Sono per la decrescita felice, consumare meno e consumare tutti, magari alzando l’asticella della qualità stessa dei nostri consumi. Ma che cosa, esattamente, consumiamo? Qualche tempo fa lessi un lungo e interessantissimo articolo ne Il Manifesto a proposito della relazione che intercorre fra internet e mutamento climatico, e ho scoperto che l’industria del porno nel world wide web, da sola, produce tanto CO2 nell’atmosfera quanta la… Francia. Così, mentre ci masturbiamo mandiamo a puttane il Pianeta Terra.

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L'articolo Pierpaolo Capovilla: "Non ho altra scelta se non amare" di Pantaleo Romano è apparso su Rockit.it il 2022-05-31 14:20:00

Tag: album

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