Power to the Pueblo People: la storia di una delle migliori rock band del momento

Il loro ultimo “Giving Up On People” contiene canzoni potenti e li conferma come uno dei gruppi più interessanti da seguire. In attesa di vederli al prossimo MI AMI, abbiamo intervistato Nicola Ferloni dei Pueblo People.

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pueblo-people - Foto di Starfooker

Hanno uno stile decisamente personale pur rimanendo nei ranghi del rock’n’roll, della psichedelia e di tutte quelle cose che piacciono a chi ama le chitarre e la birra. Hanno tre uscite all’attivo - una cassetta, un EP e un LP - e un bagaglio musicale decisamente più ampio di quello che ci si aspetterebbe. Il loro ultimo “Giving Up On People” contiene canzoni potenti e li conferma come uno dei gruppi più interessanti da seguire. In attesa di vederli al prossimo MI AMI (qui i biglietti), abbiamo intervistato Nicola Ferloni dei Pueblo People.

 

Se ti chiedessi che musica fate come mi risponderesti?
Canzoni un po’ malinconiche, scritte da persone a cui piacciono le chitarre e le birre.

Rispetto agli altri vostri progetti - Vulturum, Agatha e His Electro Blue Voice - le canzoni dei Pueblo People sono decisamente più "leggere”. Era una delle vostre intenzioni fin dall’inizio?
Per gli His Electro non saprei risponderti: in quel gruppo suono il basso ma, di fatto, è il progetto di Francesco e sono le sue canzoni. Con i Vulturum abbiamo iniziato in un determinato modo - molto più viscerale e urlato - e poi siamo arrivati ad una specie di compromesso “più rock” che funzionava solo parzialmente. In quel periodo ho cominciato a scrivere i primi pezzi per i Pueblo People, più che di una questione di leggerezza/pesantezza ne farei una questione di coerenza musicale: sicuramente siamo più leggeri a livello sonoro ma, a mio avviso, la quantità di distorsione o le dimensioni degli amplificatori non sono un metro di misura per l’intensità di un gruppo.

Le canzoni renderebbero bene anche in acustico o il vostro suono è una componente fondamentale nell'economia del pezzo?
Le canzoni sono tutto quello su cui si basa questo gruppo. Abbiamo pezzi da due minuti e altri da dodici ma sono tutti accomunati da una struttura più o meno lineare – forse non sempre è così evidente, ma c’è - e soluzioni molto classiche. Alcune funzionerebbero anche solo chitarra e voce ma la grande maggioranza dei pezzi ha bisogno anche di altro: il modo in cui Claudia e Lorenzo suonano dal vivo è molto incisivo per cui, una volta aggiunto quello, si fa fatica a tornare indietro.



Ci sono dei songwriter che ti hanno particolarmente ispirato?
Se parliamo di songwriting ho in mente dei riferimenti perfetti da tenere come faro nella nebbia ma non sempre rientrano realmente in quello che facciamo: Brian Wilson, John Cale, George Harrison, i Byrds, i Kinks e altri. Se invece parliamo di influenze tout court, è obbligatorio citare Neil Young, diversi gruppi Paisley Underground, tanto post-punk e rock australiano e certe cose americane tra l’indie e l’alt-country anni ‘90.

Nei testi racconti delle storie o è più un insieme di immagini?
Nella maggior parte dei casi i testi partono dalla vita personale che poi, ovviamente, viene mediata da immagini esterne o anche solo piegata alle necessità della scrittura. In futuro mi piacerebbe tentare anche approcci diversi ma, per ora, è così. Una cosa su cui non transigo è l'essere credibile anche dal punto di vista delle parole, ed essere credibile raccontando delle storie non è così facile.

E come si arriva ad essere credibili?

Credo che ognuno debba fare quello in cui si trova più a suo agio, con onestà e senza trasformarsi in una macchietta.

Per taggare i vostri dischi su Bandcamp avete scelto “drugs”
L’avevo messo quando è uscito il demo - faceva riferimento ad una parte di un testo - e poi è rimasto anche per le altre uscite. In realtà siamo tutte brave persone (ride).

Un titolo così disilluso e cinico come “Giving Up On People” come va interpretato?

È esattamente quello che può sembrare: inizialmente avevo questa idea di intitolare il disco “Don’t give up on people”, qualcosa che avrebbe potuto stare su un disco di David Crosby, tipo “Music is love” o cose così, poi ho capito che l’esatto contrario si sposava molto meglio con l’atmosfera dei pezzi. Non so dirti se è rappresenta un’idea così definitiva, sicuramente non va presa come messaggio universale ma è un buon indicatore degli umori che sono confluiti in questo album.

Continuando a parlare di persone, mi racconti “Dog People”?
Come molti pezzi di questo disco, il testo riguarda principalmente una storia che finisce e tutte le contraddizioni che ne derivano: vuol dire augurare il meglio all’altra persona e, contemporaneamente, fare i conti con il fallimento, con il riconoscere che determinate cose fino a un attimo prima erano speciali e ora sono entrate a far parte di dinamiche già viste milioni di volte e da cui non riusciamo a sganciarci. C’è una frase lì dentro che letta di sfuggita è innocua ma, in realtà, è la più pesante di tutte: I’ll put the kids to rest. È stata una delle ultime scritte, praticamente nei giorni in cui registravamo. In quel periodo ero abbastanza ossessionato da “L’avversario” di Carrère e questa specifica frase viene dalla lettura di quel libro.

E di “King Of The Moral Capital” cosa mi dici?
Siamo un po’ sulle stesse tematiche… In questo caso l’accento è messo sulla difficoltà che, a volte, si trova nel guardare oltre le proprie oscillazioni di umore al fine di accorgersi di quello che gli altri stanno provando a dirci veramente. La separazione personale è vista nell’ottica di chi vive nella grande città - nel mio caso Milano, la “capitale morale” - dove basta un attimo per trovarsi completamente persi anche in mezzo a molte persone. La progressione degli accordi in alcuni punti è involontariamente molto simile ad un vecchio pezzo dei Wilco.

Il suono delle vostre canzoni è il risultato di un lungo lavoro di ricerca?
Nessuno di noi è un “tecnico”, se è questo che intendi. Io, poi, di determinate cose (frequenze, ecc) ci capisco fino a un certo punto. Indipendentemente da quello che sto usando, tendo sempre a ricercare lo stesso suono di chitarra. In sala prove abbiamo un approccio molto istintivo, in fase di registrazione, invece, arriviamo in studio con le idee molto chiare ma sempre confrontandoci con i tecnici con cui collaboriamo. È importante, sarebbe sbagliato pensare che ne sai più di loro.

Il distorsore a cui siete più affezionati?
Modalità nerd attivata: OCD e cloni vari, poi il Red Llama, un fuzz della Earthquaker che ho preso da poco e mi piace molto. Infine, il Boss Hyper Fuzz.



Curate molto l’aspetto grafico dei dischi, in primis il vostro logo. Come è nato?
È un elemento grafico a cui avevo pensato quando dovevamo stampare la prima cassetta. Visto che la confezione era di cartone grezzo, volevo qualcosa che avesse uno stile altrettanto ruvido, che sembrasse quasi un’incisione sulle pareti di una caverna. È una P che si integra nella stilizzazione di una freccia indiana: a seconda di come la consideri può essere interpretata come un simbolo di pace o di protezione. Quando Luca Yety ha fatto la copertina del secondo EP l'ha inserita tra i vari dettagli e poi gli abbiamo chiesto di reinterpretarla in un modo più elaborato anche per l’interno di “Giving Up On People”.

L’aspetto più brutto del fare il musicista qual è?
Diciamo che devi avere un po’ di pelo sullo stomaco. Molte delle cose che riguardano il livello “extra musicale” del suonare possono diventare dei veri colpi bassi e, se non sei una persona così sicura di sé, puoi trovarti in una continua lotta contro i tuoi dubbi.

Spiegami meglio.
Nel momento in cui il discorso si sposta dalle canzoni a tutto quello che ci sta intorno, entrano in gioco una serie di meccanismi - grandi e piccoli - che bisogna un po' imparare a gestire, sia a livello pratico che emotivo. Magari non ricevi i feedback che vorresti nonostante tu abbia pubblicato dischi di cui sei assolutamente convinto o, al contrario, ti arrivano una marea di consigli non richiesti da parte di perfetti sconosciuti. Ci sono proposte di concerti dove è evidente che se suonassimo noi o una cover band di liceali non farebbe alcuna differenza per gli organizzatori, oppure gli elogi di chi ti riempie di complimenti ma si capisce che sta solo cercando di spingere i propri progetti… A volte ti fai una risata e passa tutto, altre volte è meno facile e, alla lunga, diventa stancante. Bisogna essere molto sicuri di quello che si sta facendo e del valore delle proprie proposte, senza per forza essere presuntuosi. È faticoso ma, col tempo, si impara a farlo.

Vi siete mai posti l’obiettivo di far diventare la musica il vostro principale lavoro?
No, siamo realisti e al momento non sarebbe assolutamente sostenibile.

E in futuro?
Un paio d'anni fa leggevo un'intervista ai Reigning Sound dove Greg Cartwright menzionava il fatto che, tra un tour e l’altro, lavorasse come elettricista. Stiamo parlando di una persona che ha scritto canzoni meravigliose durante una carriera ventennale e, come lui, mille altri sono in quella situazione. Lo trovo un approccio più vicino al mio modo di sentire: sono cresciuto considerando la musica come qualcosa di staccato dall'essere una semplice fonte di guadagno. Non è una cosa negativa a priori, ovvio, non c'è nulla di male a pensare di poter fare solo quello nella vita e sono felice quando chi se lo merita ci riesce. È giusto che i tuoi sforzi vengano ricompensati e che i tuoi meriti vengano riconosciuti in termini di soldi, purtroppo non capita sempre. Ma se voglio fare un disco che costa tanto non faccio un crowdfunding, preferisco trovarmi un lavoro. Col tempo vorrei arrivare a poter dedicare più tempo alla musica, senza dover scendere a compromessi eccessivi. Non vorrei fare qualcosa in cui non credo solo perché mi serve per pagare le bollette.

Se ti chiedessi il motivo principale per cui suonate come mi risponderesti?

Esistono alternative?

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L'articolo Power to the Pueblo People: la storia di una delle migliori rock band del momento di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2016-04-29 14:50:00

Tag: rock

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