Amor Fou - Roma, Circolo Degli Artisti , 21-05-2010

L'Italia e la sua deriva. Il racconto di personaggi che ne punteggiano la storia in maniera tragica e partecipe. La gioia di riscoprirsi band e la bellezza antica di Roma. Sullo sfondo di un acquedotto romano al tramonto, Alessandro Raina racconta la rinascita degli Amor Fou e la morte dell'Italia. L'intervista di Nur Al Habash.



Partiamo con una domanda secca. Chi sono i moralisti, per gli Amor Fou?
Sono dei personaggi comuni a tutti noi che nella loro estrema normalità, ossia nel loro essere persone che vivono la propria vita secondo un certo tipo di educazione, o di scelte di vita o di rigore o anche di etica, positiva o negativa che sia, risultano già di per sé molto diversi da gran parte della società che hanno intorno. Il loro essere normali è probabilmente lo stesso stato in cui si è trovata l'umanità per tantissimo tempo. Quindi nel definire moralisti una serie di persone che non sono collegate tra di loro da nulla, se non dall'essere parte della società stessa, si sottintende che oggi c'è un po' un ribaltamento di senso, di quello che è stata considerata per tantissimo tempo la morale; non solo religiosa, ma anche quella delle favole e di tutto quello che si può intendere come presupposto dell'azione, dell'agire di una persona nella sua vita, a seconda del ruolo che ha nella sua vita quotidiana e comune. Per cui sono dei personaggi ritratti nella loro normalità, non nel loro essere eroi e neanche nel loro essere degli esempi positivi o negativi.

Vi dico la mia: nella recensione al vostro disco concludevo che alla fine i moralisti siete voi, visto che la parola, originariamente, fu coniata per indicare quegli scrittori che si occupavano di riflessioni sui costumi, sul carattere e le azioni degli uomini, e mi sembra che il vostro lavoro ci si avvicini molto. Siete d'accordo?
Sì, in questo senso sì. In effetti soprattutto fino ai primi dell'800 c'è stata davvero una sorta di categoria, soprattutto nella letteratura francese ma anche inglese, che era abbastanza fuori dal tempo, anacronistica; però sicuramente c'è una comunanza nel tentativo che è stato fatto di sintetizzare una parte della condizione umana di un determinato periodo storico in certe opere. Un'opera che considero veramente una sorta di compendio di questo tipo di letteratura moralistica è l' "Anatomy Of Melancholy" di Robert Burton, un autore inglese dell'800 che in un libro gigantesco che parla di medicinali e malattie, cerca di scoprire le vere cause della malinconia; in realtà questa è solo una scusante per parlare della società inglese, di filosofia, di etica e di usi e costumi, di certo con molta ambizione. Questa è sicuramente una cosa che può fare anche la musica attraverso un disco.

La letteratura infatti è sempre stata parte integrante della vostra musica, o del vostro stile, oserei dire; non per caso l'ep che ha preceduto il disco, "Filemone e Bauci", era accompagnato da un tuo racconto. Qual'è il vostro rapporto con la letteratura? Trovate giusto o necessario che si mescoli con la musica?
Il presupposto di questo progetto non è mai stato quello programmatico di fare musica e unirla alla letteratura: il presupposto è stato quello di focalizzare delle cose. In questo caso il destino ha voluto che fosse fatto attraverso la musica. Insomma, io vengo dal giornalismo, gli altri componenti del gruppo vengono da percorsi musicali molto più ampi del mio, però il motivo per cui sono nati gli Amor Fou era quello di cercare di recuperare un certo immaginario, di fare una sintesi di cose della cultura italiana che ci hanno sicuramente arricchito, ma anche cresciuto ed educato. Fondendo tutte le nostre suggestioni che vengono dal cinema, dalla letteratura, e anche nella volontà di fare musica che ci rappresentasse e ci gratificasse, abbiamo dato vita a questo progetto, per cui c'è una forte componente letteraria nella nostra musica tanto quanto ce n'è nella nostra vita. Gli Amor Fou sono un punto d'incontro di queste cose, come potrebbe essere cercare di scrivere la sceneggiatura di un film, o potrebbe essere per me cercare un domani di scrivere un romanzo.

Nella presentazione al disco sono indicate molto chiaramente le intenzioni e le ispirazioni che avete avuto nella scrittura: un concept album sulla figura dei moralisti contemporanei in Italia dagli anni 60 agli 80 con un approccio da cinema neo-realista. Poi gli omaggi a Pasolini, le citazioni di Sandro Penna e sicuramente tanti altri riferimenti che non rintraccio per ignoranza. Insomma, a leggere il comunicato stampa sembra proprio un disco creato a tavolino, un progetto ben pensato in cui l'istinto c'entra poco.
Il progetto Amor Fou è nato a tavolino nell'idea di chi lo rappresentava all'inizio; il primo disco del gruppo è stato un progetto, un'idea di musica prodotta, al di là dei contenuti. E' stato un disco nato in studio, senza prove, senza suonare insieme prima e quello sì, era un progetto a tavolino. Nel momento in cui abbiamo capito questo, io e Leziero abbiamo cercato immediatamente di deviare su un discorso di contenuti, di immaginario. A quel punto lì i contenuti e gli elementi che ci siamo ritrovati in mano erano talmente tanti, che per sintetizzarli occorreva un lavoro razionale, fermarsi un attimo: così come arrangi una canzone con molta cura, cerchi poi di dare una forma coerente a dei contenuti. Il progetto in realtà è totalmente viscerale. Sicuramente siamo tutte persone con una certa impostazione mentale, attente ad ogni dettaglio. Però chiunque assiste ai nostri concerti può accorgersi che un'altra grossa parte degli Amor Fou è la libertà espressiva e l'istinto presente molto più nella musica che nei testi, che poi hanno una forma molto più curata e sintetica e adattata a quel che vogliono dire. Il nostro però è un progetto sicuramente viscerale.

Ne "La stagione del cannibale" si raccontavano dei personaggi, ma alla fine si riusciva a leggere tra le righe qualche tono più intimista e riconoscibile; nel nuovo disco invece sembri totalmente scomparso dietro i personaggi che ha creato.
Sicuramente mi sono eclissato il più possibile cercando di avere più un'attitudine registica, o di sceneggiatore. Per cui il livello di coinvolgimento personale è nella sensibilità che si mette nel descrivere qualcosa con il proprio stile, però è assolutamente voluto, soprattutto come presupposto per evitare l'intimismo, anche in reazione a quello che è la musica italiana in generale. Nel chiedersi a 32 o 33 anni perché fare un disco o perché fare musica, c'è anche una grande riflessione, e in questo caso c'è anche una certa mancanza di identificazione in quella che è la musica italiana, anche quella nuova. In particolar modo, in quella che viene definita la nuova canzone d'autore abbiamo sempre ravvisato una grandissima carenza di elementi che giustificassero questa definizione, perché fermo restando che l'intimismo e l'introspezione sono elementi che hanno dato tantissimo alla musica, in questo momento storico nel fare un disco ci possono anche essere delle responsabilità. Per cui noi che abbiamo avuto la vocazione a farlo, abbiamo ritenuto prioritario ricondurci a quella che era la canzone italiana, ma a momenti storici in cui c'era talmente tanta pregnanza da non poter far altro che investire in dei contenuti. Pino Daniele o Renato Zero o De André, quando facevano un disco era chiaro che lo facessero perché volevano dire qualcosa su quello che c'era attorno.

Trovo infatti che "I Moralisti" sia un disco prettamente italiano e tradizionale, nel senso che nella musica e nei testi è in qualche modo la naturale continuazione della Canzone cantautoriale Italiana. Cosa pensate costituisca ora la vera canzone italiana e quali sono secondo voi gli esponenti che la portano avanti?
Nella canzone italiana c'è un condizionamento (come ovunque) del digitale, del cambiamento di fruizione della musica e della sua produzione, per cui la mancanza di strutture e di un vero mercato musicale in Italia (in primis alternativo) fa sì che magari siano nati tantissimi progetti che non hanno alle spalle un grande percorso, e che non hanno dei contenuti o una particolare ricchezza ma hanno solo molta urgenza, sono più facili da rappresentare. Per cui il successo di alcuni cantautori o di alcuni giovani autori che si sono direttamente buttati sul pubblico e hanno prodotto musica in modo abbastanza veloce e l'hanno potuta divulgare attraverso internet in maniera altrettanto rapida, ha creato un po' una destabilizzazione. Abbiamo visto una grande confusione rispetto ad epoche anche recenti in cui i gruppi facevano una certa gavetta, c'erano delle aree di riferimento ed era difficile che un gruppo si affermasse se non avesse elementi oggettivi di qualità sia musicale che di contenuti. Oggi non è più tanto così, senza voler dire meglio o peggio, noi abbiamo molto seguito la nostra strada e la nostra formazione musicale, onestamente sentiamo di avere molti più punti in comune con l'attitudine di gruppi esteri che abbiamo conosciuto e che ascoltiamo, anche solo da come suonano i loro dischi, da come viene proposta la loro musica. In Italia ci sono sicuramente dei talenti, dei musicisti bravi, non mi sento di poter dire che c'è una scena o una nuova generazione di cantautori perché non penso assolutamente che sia così. Ci sono dei fenomeni, alcuni dei quali potrebbero fare un grande percorso, altri che invece non mi spiego e poi dei progetti come il nostro a sé stanti. Poi sarebbe bello che ci fosse la possibilità di unirsi e di confrontarsi di più, ma questo dipende secondo me anche e soprattutto dai presupposti con cui si fa musica.

Tornando ad altri tipi di personaggi, ovvero quelli che racconti nel tuo disco, qual'è quello che preferisci o a cui sei più legato?
Questo disco ha delle radici fortemente piantate qui a Roma, che erano sbocciate già all'inizio; la cultura popolare e la cultura alta a Roma si sono sempre confuse e contaminate in modo spontaneo lasciando un patrimonio pazzesco e anche degli scenari propri dell'ambiente romano, dei paesaggi della città che sono il teatro di moltissimo del materiale che rappresenta l'influenza principale degli Amor Fou. Prima o poi quindi dovevamo approfondire questa cosa e credo che una canzone come "Depedis" da un lato sia un po' un buon esempio di come abbiamo voluto trattare la condizione umana in questo disco, evitando di connotare un personaggio (in questo caso anche molto celebre) per quello che ha fatto, cercando invece di vederlo come umano, come persona che nella sua vita tenta di vivere secondo una propria etica, in questo caso completamente conflittuale, distruttiva per buona parte e in qualche modo più costruttiva dall'altra, nel tentativo di riabilitarsi. Ovviamente nello scrivere una canzone così c'è un immaginario collegato ai luoghi in cui questo personaggio è nato e c'è anche un tentativo di usare una lingua non voglio dire più popolare ma comunque più da canzone, meno cerebrale, meno intellettuale e meno letteraria.

Sullo sfondo, al posto della solita Milano, c'è infatti spesso una Roma bella e prepotente, romantica. Qual'è il vostro rapporto con la capitale? Quali sono i vostri posti preferiti quando passate da queste parti?
Il rapporto con Roma è un rapporto continuo, che probabilmente si risolverà con una mia permanenza. Roma è una città immane che io ho scoperto da studente di liceo classico e poi da musicista, frequentandola il rapporto è quello di possibilità che ti dà di ritrovare e toccare con mano gli scenari di certi libri che ti hanno segnato, di certi autori.. dalla Roma di Fellini, Pasolini, del neo realismo degli anni 70, piuttosto che la Roma contemporanea che a volte offre ancora degli elementi di autenticità rispetto a questo immaginario, e allo stesso tempo tante volte ti dimostra che comunque gli italiani hanno un po' in generale perso un'identità e una vicinanza con le proprie radici; spesso lo vediamo proprio scoprendo che l'immaginario che noi amiamo associare a Roma non è poi così coltivato, e magari c'è invece una milanesizzazione in certi ambiti, o la ricerca di suggestioni più cosmopolite, il ché è anche bello perché è giusto che l'Italia si modernizzi però una città così prima di esaurire la sua carica evocativa va veramente vissuta e io purtroppo conosco persone che non ci sono nemmeno mai state. Roma è una città giustamente capitale perché rappresenta benissimo i pregi e i difetti e le sfaccettature del paese. Le parti che amo di più sono i quartieri, che sono città a sé stanti; la cosa bella per me che vivo a Milano è che è una città nel vero senso della parola perché ha dei quartieri veri e propri, per cui amo il Quadraro, o S. Lorenzo, o Testaccio ma è difficile scegliere, è più un percorso. Stamattina siamo andati a fare delle interviste e spostandoci da un posto all'altro siamo passati davanti a venti simboli di venti periodi storici diversi, tutti con una forza intrinseca incredibile che noi percepiamo come energia e magari chi ci vive tutti i giorni meno, però prima o poi penso che ci sarà un trasferimento, che poi è l'unico modo concreto per capire una città e viverci.

Cambiamo argomento. C'è stato un cambio di formazione nella band, sono entrati Paolo Perego e Giuliano Dottori. Contemporaneamente c'è stato un cambio netto nel suono della vostra musica, dal digitale all'analogico, dall'elettronica rarefatta ad un pop più cristallino. Le due cose sono state consequenziali?
Giuliano in realtà ha fatto parte del gruppo da subito perché è sempre stato nostro chitarrista nei live, poi nella fase il cui c'è stata la separazione con Cesare Malfatti e Lagash, io, Leziero e lui eravamo un trio, e lui ha acquisito ancora più peso e ha dato ancora più forza a questo progetto. Paolo è arrivato da poco, abbiamo avuto anche diversi cambiamenti di bassista. Questa formazione è quella che ha dato vita alla band, per cui questo disco è stato influenzato non tanto dall'ingresso di musicisti nuovi, ma piuttosto dal fatto che è stato vissuto il ruolo di ognuno di noi come componenti di una band. Le canzoni sono state scritte come sempre da me e da Leziero, però sono state suonate dal vivo, in sala prove, ci siamo andati a fare delle cene insieme... e questo non accadeva con la prima formazione, e da subito infatti è avvenuta una separazione, praticamente appena dopo l'inizio del tour. Credo invece che questa sia una formazione definitiva e che potrà esprimere tutto il vero potenziale di questo progetto. L'abbandono dell'elettronica è stato consequenziale perché era un elemento imprescindibile del taglio di produzione di Cesare Malfatti, e non ho nessun problema a dire che già nella produzione del primo disco ci sono stati degli scontri, perché non era una veste che io e Leziero ritenevamo attendibile per un progetto così, e infatti pezzi scritti all'epoca come "Cos'è la libertà" o "Se un ragazzino appicca il fuoco" erano già svincolati dall'elettronica. L'ingresso di Giuliano che è un chitarrista di scuola rock folk con delle influenze completamente diverse dalle nostre è stato positivo, perché il fatto che ci fossero persone orientate su diversi tipi di mondi sonori ha arricchito il gruppo, anche se all'inizio ha creato un po' di momenti di riflessione. Soprattutto dal vivo però il fatto che Giuliano e Paolo siano dei musicisti che vengono da un mondo diverso, ha dato moltissimo.

Il disco doveva uscire per La Tempesta, poi all'ultimo momento l'annuncio della firma con la EMI. Ci spiegate che è successo?
Noi in realtà eravamo assolutamente pronti a fare uscire il disco in modo autoprodotto, come avevamo già fatto con l'ep, perché da un lato non avevamo ravvisato interesse nell'ambito indipendente, e dall'altro noi stessi non avevamo proposto il disco a una major perché non pensavamo fosse ancora il momento giusto. Poi i ragazzi della Tempesta, che conoscevano il nostro manager, quando hanno ascoltato il disco si sono molto entusiasmati. Oltre ad avere un rapporto personale con noi di stima pluriennale, in quel caso c'è stata anche la loro volontà di regalarci il loro marchio, perché comunque avrebbero preso un disco già finito. Quando ci fu questo annuncio seguì un primo feedback di stampa molto buono, e la EMI che comunque è stata anche in passato la major più attenta al nostro lavoro ha voluto ascoltare il disco. Miracolo dei miracoli, dopo una settimana c'era il contratto sul tavolo; considerando i tempi allucinanti che hanno di solito le major, è stato abbastanza sconvolgente. Poi in realtà non si deve pensare che ci sia una differenza abissale, nel senso che un gruppo come Amor Fou ha sempre bisogno di un certo margine di autogestione molto ampio. Una major ha una struttura più grossa, ha una distribuzione che in ambito indipendente nessuno purtroppo può raggiungere perché non c'è un mercato che lo consente, e quindi questo ci ha dato la possibilità di divulgare questo disco in poco tempo e in modo adeguato. Ci può essere una sinergia, una mediazione tra i due modi di fare, come in questo caso in cui sta funzionando bene, però ci vuole anche molta consapevolezza. Tanti artisti sono passati a major e hanno poi dichiarato fallimenti, questo perché anche in un certo ambito l'artista deve sempre essere in condizione di autogestirsi sotto tutti i punti di vista. Poi può avere dei sostegni, però non bisogna pensare che questo abbia comportato per noi guadagni maggiori... cioè siamo sempre in una situazione 'da battaglia' per poter suonare ai concerti da un capo all'altro dell'Italia e siamo già concentrati sulle prossime cose che faremo, a prescindere da chi le farà uscire.

Parlando di mercato discografico e di arte in genere Italia, non posso che pensare al vostro pezzo "a.t.t.e.n.u.r.B.". Confesso che non riesco quasi mai ad ascoltarlo fino in fondo, mi sale troppo schifo. Considerato il clima artistico ed intellettuale del nostro paese, come ci si sente a fare i musicisti? A quale idea o ideale ci si aggrappa?
Quando finì l'ultimo tour con i Giardini di Mirò, che era stato un tour molto intenso e lungo per tutto il paese, tornando dopo un anno di viaggi dissi ai miei amici che l'Italia era finita. Prima ancora di guardare a chi abbiamo messo al governo, purtroppo c'è da guardare in faccia un paese reale assolutamente a terra. Io credo quindi che lo schifo e ancor più lo scandalo sia dovuto e doveroso nel prendere atto che l'Italia, patria della cultura, è riuscita a portare al governo delle persone che poi riescono addirittura sfacciatamente a dire certe cose; prima magari non le dicevano, le pensavano ma c'era comunque un'ufficialità diversa. Oggi non c'è nemmeno più questo, perché non c'è neanche più ipocrisia perché si vede e si sa tutto, però i governanti sono i primi ad abiurare la loro responsabilità di modello come fanno in generale gli adulti in Italia. Mi ricordo di uno scrittore che parlava con Morgan in una puntata di Anno Zero; diceva che la cosa che gli faceva più girare i coglioni a lui che da piccolo aveva una grande fascinazione per il mondo dei "grandi", era esser diventato adulto in questi anni, che è di per sé quasi un marchio di infamia, perché gli adulti sono i primi a non avere l'autorevolezza riconosciuta, perché l'hanno persa. Brunetta quindi è una maschera italiana, purtroppo realizzata. Nei film degli anni 60 c'erano questi personaggi, e gli italiani hanno fatto in modo di concretizzarli. Brunetta quindi è un personaggio molto italiano in tante sfumature, come lo sono molti politici italiani. Purtroppo di un lato dell'Italia deteriore che sarà molto difficile destabilizzare od epurare, ammesso che serva epurarlo.

Riesci a vedere una redenzione per l'Italia e per i personaggi di cui canti nel disco?
No. Non la vedo perché secondo me l'Italia ha esaurito un po' il suo percorso come nazione, come cultura e come esperienza storica, che è una cosa normale nella storia del mondo.

Quindi non credi che la merda di oggi sia il fertilizzante di domani?
Credo che possa essere il fertilizzante di una nuova Italia fatta però da più etnie e culture, non emerse qui. L'Italia è un paese vecchio che ha una bassa crescita demografica, però se guardo i giovani italiani non ho nessun elemento emotivo per credere che abbiano una capacità o degli strumenti così forti da fare quello che è successo in America, dove improvvisamente hanno eletto un nero giovane dopo anni catastrofici. Penso che dovranno arrivare, come è stato spesso nella storia, delle energie e delle forze fresche, magari da altre culture, che creino un'altra Italia. Io spero anche questo si faccia riuscendo a scoprire il patrimonio italiano del passato, ma su questo non ci scommetterei. L'importante è che in qualche modo si argini il degrado presente. Quando a Milano vai nei parchi, ci vedi persone del sud America, ci vedi persone di altre culture abituate per esempio a vivere gli spazi aperti in comunità, e gli italiani non lo fanno più. Ufficialmente è perché hanno paura, ma in realtà è perché preferiscono altro. Non credo che cambieranno idea, tanto meno perché glielo dice un musicista o perché un politico li convince. Io spero che ci sia un cambiamento attraverso l'immigrazione e l'integrazione insomma.

Scoprire il patrimonio italiano del passato. Anche in questo disco, il vostro immaginario è rimasto molto legato al cinema e alla letteratura della prima metà del secolo. Posto che siano senza dubbio eccezionali fonti di ispirazione, non avvertite il rischio di rimanere chiusi in un cliché?
Può darsi, nel momento in cui diventeremo un po' ostaggio di questa cosa. E' un rischio che si corre, ma lo si fa volentieri. Banalmente, ogni volta che vado in qualche cineforum con le opere che rappresentano di più gli Amor Fou, sento giovani lamentarsi che quelle cose non vengano fatte vedere a scuola. Conosco persone di 28 anni che non conoscono Moro o Mattei o altre cose, poi le vedono in qualche film e immediatamente ne sono rapiti. Non credo quindi che i nostri contenuti, che per altro sono stati consumati dai giovani fino a 20 anni fa, siano contenuti difficili o che in qualche modo possano creare uno scollamento. Sono contenuti prodotti da persone che hanno voluto rappresentare la loro società, e quindi in questo senso è ovvio che ci vuole uno sforzo da parte del fruitore. Quando avremo esaurito le suggestioni esterne magari cominceremo a parlare della nostra interiorità per allontanarci da una serie di influenze, ma non è una cosa che al momento ci poniamo come problema. Di certo c'è che quel patrimonio rischia molto di più la rimozione di quanto noi rischiamo di diventare così popolari da poter esser collegati ad un cliché. Per cui ben venga se tante persone si rendono conto che in una nostra canzone c'è il cinema di Francesco Rosi e dicono "che due palle". Io sarei ben felice.

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L'articolo Amor Fou - Roma, Circolo Degli Artisti , 21-05-2010 di Nur Al Habash è apparso su Rockit.it il 2010-05-24 00:00:00

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