Saluti da Saturno - Sognando Fred Bongusto

Dal pianobar futuristico al freejazz cantautorale, i Saluti da Saturno continuano a portare in giro la loro musica fuori dal tempo. Per trovare qualche coordinata, abbiamo intervistato Mirco Mariani.

Dal pianobar futuristico al freejazz cantautorale, i Saluti da Saturno continuano a portare in giro la loro musica fuori dal tempo. Per trovare qualche coordinata, abbiamo intervistato Mirco Mariani.
Dal pianobar futuristico al freejazz cantautorale, i Saluti da Saturno continuano a portare in giro la loro musica fuori dal tempo. Per trovare qualche coordinata, abbiamo intervistato Mirco Mariani.

Dal pianobar futuristico al freejazz cantautorale, i Saluti da Saturno continuano a portare in giro la loro musica fuori dal tempo. Per trovare qualche coordinata, abbiamo intervistato Mirco Mariani.

 

Iniziamo dalla cosa più evidente: in questo disco canti molto di più. Perché?
Mi sono reso conto di non essere un cantante, però mi sono anche reso conto di poter cantare le mie canzoni. Ad ogni modo è stato il disco che mi ha portato a questo: ho scritto i brani in corsa e non ho fatto in tempo a spiegarli bene a Bruno Orioli (che cantava la maggior parte delle canzoni negli album precedenti, NdR) per farglieli assimilare e quindi farglieli cantare meglio di me.

Come mai è stato composto di corsa? In fondo “Valdazze” ha poco più di un anno.
In realtà avevo un altro disco già pronto, più simile a “Valdazze” e, come quello, basato tutto sull’Optigan. Poi ho iniziato a togliere dei brani e aggiungerne degli altri: alla fine, circa metà sono stati fatti proprio in studio e la scelta di mettere la mia voce è diventata una necessità.

“Dancing Polonia” mi è piaciuto molto, ma rispetto a “Valdazze” mi sembra che abbia meno canzoni forti e più pezzi d’atmosfera.
In effetti durante la lavorazione ho tolto canzoni più valdazziane e ne ho messe alcune più noiose (ride, NdR). Volevo rompere un pochino, anche a costo di rompere le scatole. Portare lo scrivere canzoni più vicino a una forma di immediatezza: sono voluto scivolare dentro il disco in una settimana e portare via quello che di buono veniva.

Nel disco ho sentito anche un ritorno a cose più vicine a Capossela, ad esempio con la doppietta “Ombra”-”Di notte”. Sono canzoni che lui non sta più facendo, ma il marchio è quello.
Sapevo che c’era questo rischio. Le canzoni dei due dischi precedenti le impostavo sull’Optigan, una specie di tastiera da pianobar… e per quello chiamavo la nostra musica “pianobar futuristico”. Se invece inizi a impostare le canzoni sul pianoforte - e in alcuni casi le lasci solo con il pianoforte - è naturale andare in una certa direzione. E poi con Vinicio il discorso è chiaro: lui ora vorrebbe provare a usare strumenti rinascimentali, io invece vorrei sviluppare la parte più free, ma quando ci mettiamo a parlare sembra sempre che diciamo le stesse cose. Forse il primo maestro è un po’ come la prima donna, come le prime cose importanti, che ti lasciano qualcosa di forte.

Ti piace quello che sta facendo adesso Capossela, con i progetti più legati alla musica popolare?
Le ultime cose non le ho sentite bene, ma ti posso dire che “Marinai, profeti e balene” è un disco che ho sentito una volta sola. Per cercare di non copiare, cerco di non ascoltarlo. O forse mi conviene copiare, ma copiare male, così divento più originale. Anche se poi in realtà ascolto Tom Waits ed è finita, perché Vinicio copia da lui, io pure e non ne usciamo più (ride, NdR).



Nel disco c’è Paolo Benvengù, come mai?
Abbiamo suonato insieme al Kilowatt Festival a Sansepolcro e siamo diventati amici. Reputo Benvegnù - insieme a Cristina Donà - uno dei compositori che ha scritto una delle canzoni più belle della musica italiana. Lui e Donà li metto insieme a Sergio Endrigo, a quella gente lì, perché ognuno di loro ha fatto una canzone bellissima.

Di che canzoni parli?
“Goccia” di Cristina Donà e “Cerchi nell’acqua” di Benvegnù. Sono due canzoni perfette. Quindi sono stato molto contento di averlo nel disco.

Ti chiedo una cosa che non ho mai capito: Saluti da Saturno è da considerare come una band o è una sorta di tuo pseudonimo?
No, no, siamo una band, anche se i pezzi li scrivo tutti io da solo. Però non so nemmeno io chi è ufficiale e chi no nel gruppo. La cosa più bella sarebbe che magari ogni tanto nemmeno io andassi a suonare, che il manager mi dicesse: “stasera vanno solo loro”. Non sto scherzando, mi piacerebbe molto perché la cosa che mi piace di più della musica è quando non si organizza nulla. Quindi questa Flexible Orchestra che è Saluti da Saturno diventerà ancora più flessibile, o almeno spero.

“Valdazze” era un luogo che tutti pensavano fosse immaginario e invece poi si scopriva che esisteva davvero. “Dancing Polonia”, invece?
E’ proprio immaginario, ma diventerà reale perché vorrei che ogni posto in cui suoniamo si trasformi nel Dancing Polonia. Deve essere quel luogo in cui ogni sera ci spostiamo per fare un concerto - anche se ormai faccio fatica a usare la parola concerto. Il concerto deve trasformarsi un po’, voglio che ci sia uno scambio maggiore: voglio cantare “Romagna mia” con la chitarra tutta scordata e fare poi il coro con il pubblico sul ritornello. Vorrei che ci fossero più momenti in cui si rompe la barriera tra pubblico e palco e vorrei che il Dancing Polonia fosse il locale in cui questo può succedere.

Quindi, al di là del locale, voi suonerete sempre al Dancing Polonia.
Esatto. Io dirò sempre ai miei musicisti: “ragazzi, stasera siamo al Dancing Polonia, dobbiamo suonare bene”. Poi mi piacerebbe cambiare ogni sera: faremo Saluti da Saturno Hotel e verrà con noi un pianista di 70 anni del mio paese, che poi durante il concerto suonerà il sax in mezzo al pubblico. Poi Saluti da Saturno Club, Saluti da Saturno Teatro. Io voglio che Saluti da Saturno si adatti alle situazioni e spero con “Dancing Polonia” di dare il via a questa cosa, visto che finora non me l’hanno fatta fare.

E perché non te l’hanno fatta fare?
Perché dal punto di vista del booking e dei locali è difficile proporre cose diverse, si cerca sempre di non disorientare il pubblico che si aspetta magari un certo tipo di concerto.



Hai detto che la tua musica ora si chiama Free Jazz Cantautorale: come hai scelto la definizione e soprattutto cosa vuol dire?
Dopo aver iniziato a registrare canzoni simili a quelle di “Valdazze” mi sembrava di fare tutto uguale. In quel periodo ascoltavo tantissimo Secondo Casadei, il Richard Strauss della Romagna: nei suoi valzer senti l’allegria, la voglia di far divertire. Allo stesso tempo ascoltavo molto Ornette Coleman e pensavo a quanto sarebbe stato bello unire queste cose. E farlo sottovoce. A dire il vero, solo adesso ho capito cosa intendo per free jazz cantautorale, dovrei registrarlo ora il disco.

Intanto con i tuoi ritmi entrerai in studio tra pochissimo...
Sì, in effetti uscirà un disco natalizio. Sarà un disco con sei cover più un brano originale. Sarà il riepilogo prima di un ulteriore cambio.

Perché in effetti è già durata fin troppo questa fase del free jazz cantautorale, ci ha già stancato.
Sì, sì. Nel disco ci sono due brani con l’Optigan, che ho già registrato. Un brano di Endrigo, poi “Romagna mia” con la chitarra noise scordata, un po’ di free jazz cantautorale e un po’ di quello che sarà.

Hai già trovato il nome nuovo?
No, probabilmente sarà un free jazz cantautorale più centrato. E’ una roba complessa, mettere i rumori o il disturbo in brano jazz sta bene, metterli in una musica cantata è la cosa più banale e scontata che ci sia.

In questi anni, girando in locali diversi da quelli che frequentavi con Capossela, hai incontrato musicisti e persone nuove, con cui vorresti collaborare?
I miei viaggi con il mio manager sono sempre così: “Bene Luca, adesso mi aggiorni sulla situazione della musica italiana”, perché poi non voglio fare figuracce quando mi fanno domande come questa. Musicalmente io sono messo male. Mi piace ascoltare cose estreme da una parte e cose banali dall’altra. Infatti credo che la cosa più bella che possa essere detta per definire il mio disco è che è un disco banale, ma ricercato. Comunque il mio sogno è vedere arrivare sul palco Fred Bongusto, abbronzatissimo e vestito di bianco.

Dei nuovi cantautori chi ti piace?
Quello che mi piace di più è Dimartino, perché non lo confondo. Capita di sentire altri cantautori e di confonderli, Dimartino invece mi resta più centrato e riconoscibile.

Lo strumento più strano usato in “Valdazze” era l’intonarumori. Per “Dancing Polonia”?
Lo strumento più bello è il cristal baschet: è una scultura fatta da cristalli che risuonano, con davanti una specie di parabola che amplifica il suono e lo rende quasi come quello del mare. Uno degli strumenti più belli che abbia mai suonato.

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C’è uno strumento che non sei mai riuscito a suonare e che vorresti provare?
Sai che ormai mi sa che li ho provati tutti? Qualcosa c’è sempre, però non saprei. Adesso in realtà sono nella fase opposta. Dopo averli sperimentati tutti per anni, nel prossimo disco vorrei ridurre moltissimo. Averne pochi, ma veramente sviscerati. Probabilmente finirò con tre strumenti: ridurre, ridurre, ridurre, ma approfondire molto di più.

A parte Saluti da Saturno, fai anche altro, tipo concerti jazz, qualche jam?
Quando ho smesso di suonare con Rava e Vinicio ho proprio smesso di suonare. Mi ci son rimesso per fare Saluti da Saturno e ho dovuto trovare una strada, i miei strumenti. Ora c’è uno sviluppo, perché ho aperto un Labotron, un laboratorio di ricerca e sviluppo sui suoni e lì stanno nascendo cose che sono allo stesso tempo slegate e collegate a Saluti da Saturno.

La batteria hai ripreso a suonarla, dopo averla abbandonata nel periodo post-Vinicio?
Ho tutti gli strumenti possibili, ma mi mancano la batteria e il contrabbasso e sono stato batterista per anni (piuttosto negato) e sono diplomato in contrabbasso.

In un’intervista che gli abbiamo fatto, Carlo Ubaldo Rossi ha definito il disco di Dimartino “un album rimasto fermo negli anni 60”. Lo dicessero a te, lo prenderesti come un complimento o come un offesa?
Ma magari me lo dicessero. Ad ogni modo, Bill Higgins, batterista di Ornette Coleman e di tanti nomi enormi una volta mi ha visto suonare la batteria e ha capito che ero smanioso di fare cose nuove. Mi ha detto: “vai tranquillo: vuoi suonare moderno? Guardati indietro”. Se anche si suona anni ‘60, si può essere modernissimi se si riesce a rovesciare la frittata e infilarci un briciolo di 2013.

Qual è il pubblico di Saluti da Saturno? Siete un progetto stranissimo, che incrocia circuiti e pubblici diversi: chi trovate sotto il palco?
Il pubblico di Saluti da Saturno ce lo studiamo di volta in volta. Siamo ancora un gruppetto e il pubblico lo conquisti di volta in volta. Al MI AMI hai gente giovane, a Brisighella c’è magari una situazione di anzianotti. La mia sfida però è sempre la stessa: non far alzare nessuno, altrimenti mi arrabbio. La gente deve rimanere lì, devo trovare la chiave. Tendenzialmente il pubblico non è giovanissimo, anzi voi siete gli unici che cercano di svecchiare il nostro pubblico e di abbassare la media. Chi si attacca a Saluti da Saturno è maniacale, però sono pochi.

Il posto più strano dove siete stati a presentare il disco?
Una radio locale in Sardegna, dove il presentatore si è presentato e ha iniziato a imitare Celentano. Non ci credevamo.
 

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L'articolo Saluti da Saturno - Sognando Fred Bongusto di Marco Villa è apparso su Rockit.it il 2013-10-24 00:00:00

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