La Scatola Nera della musica del Novecento

Il progetto milanese vuole riportare la musica suonata al centro, e lo fa utilizzando i suoni del Novecento italiano, mischiandoli con la canzone d’autore. Ci siamo fatti spiegare meglio questa preziosa azione di recupero della tradizione

Scatola Nera, foto di Piera Fulvi
Scatola Nera, foto di Piera Fulvi

Gli Scatola Nera da Milano sono una band di ragazzi maturi, già con alle spalle un sacco di esperienze pregresse che si sono uniti per dare vita a un progetto musicale unico nel suo genere, almeno qui da noi. Si tratta di un recupero quasi filologico di atmosfere, ritmi e orchestrazioni del Novecento, a partire dagli anni dieci post musica operistica, passando per il foxtrot, il ragtime e arrivando alla canzone d’autore anni Settanta. Hanno appena pubblicato un album che porta il loro nome, in cui interagiscono chitarre, pianoforti preparati, ottoni e cori, tuti registrati in presa diretta. Li abbiamo contattati per farci raccontare meglio il progetto.

Foto di Piera Fulvi
Foto di Piera Fulvi

La vostra sembrata una musica “senza tempo”, nel vero senso del termine. Eppure, almeno all’inizio, proviamo a mettere qualche paletto temporale e di contesto: come e quando sono nati i Scatola Nera? 

Siamo antichi. Giacomo Carlone ed io (Luca Barbaglia) suoniamo insieme dagli anni del liceo. Per anni abbiamo collaborato insieme in molti progetti come produttori, compositori e musicisti. Tra un concerto e una produzione, abbiamo registrato insieme decine di brani. La formazione completa di Scatola Nera è nata però nel 2018, quando abbiamo deciso di registrare definitivamente quest’album. A noi si sono aggiunti due amici e musicisti, Gaetano Pappalardo (saxofonista e pianista) e Simone Sigurani (chitarrista), et voilà.

Sulla vostra bio parlate di “ritorno alla musica vera, arrangiata, suonata con tanti strumenti, archi, ottoni e pianoforti che ricordano i vecchi vinili”: musica vintage tout court oppure una sorta di preghiera per il domani che parte dal passato per guardare al futuro?

È la musica che ci piace fare. Non ci preoccupa molto il presente o il passato: ci piace semplicemente utilizzare quello che serve, senza tabù o complessi. Possiamo arrangiare per fagotti, saxofoni, cori, pianoforti e quindi lo facciamo. Se serve un synth ce lo mettiamo senza storcere il naso, se serve un’armonica a bocca la usiamo. Per trovare il suono che volevamo abbiamo preparato un pianoforte di scotch e puntine e abbiamo suonato alcuni piatti con delle forchette. Per parafrasare Fellini, se si insegue un’idea fino in fondo si finisce sempre per fare qualcosa di nuovo. È questo quello che cerchiamo di fare.

Ho sentito tracce di foxtrot e ragtime... ho avuto le traveggole oppure ci sono segnali di questi generi “quasi scomparsi” dai radar?

Niente traveggole! Il disco è composto da brani scritti in formula canzone, stratificati da arrangiamenti che richiamano questi generi scomparsi. È stata una scelta emotiva, prima che musicale: in quel momento, per qualche ragione, la nostra emotività suonava come un vecchio vinile. Le canzoni e i testi di Luca avevano questa patina malinconica e lui sembra sempre uscire fuori da un mondo molto lontano. Un giorno si è presentato con in mano un vinile di Scott Joplin e Gaetano ha fatto la sua magia, aiutando a scrivere degli arrangiamenti che riprendessero quegli stili.

Foto di Piera Fulvi
Foto di Piera Fulvi

Avete registrato il disco al Supermoon Studio e all’Abbey Road Institute: come è stato lavorare in quei templi sacri e perché avere scelto proprio queste due sedi per il vostro album? 

Siamo finiti ad Abbey Road grazie a Giulio Rusconi, un caro amico che all’epoca studiava lì come tecnico del suono. Per più di una settimana abbiamo avuto accesso a microfoni e outboard inimmaginabili. Tremavano un po’ le gambe, sinceramente. Stava registrando Will.I.Am nella sala accanto. Ogni mattina attraversavamo quelle strisce per entrare in studio: molti turisti fotografavano le nostre occhiaie solo perché passavamo di lì con addosso i nostri strumenti. Come avrai capito, siamo un po’ dei perfezionisti. Non eravamo soddisfatti degli arrangiamenti, quindi siamo tornati a Milano e abbiamo riregistrato tutto. Alcuni remnant del disco provengono da quelle sessioni di registrazione. Prima o poi magari tireremo fuori un bootleg.


So che c’è stato un intenso lavoro di postproduzione, condotto in digitale e in analogico. Potreste dirci di più a riguardo?

Prima di arrivare agli arrangiamenti definitivi abbiamo registrato l’intero disco tre volte, con diverse formazioni. C’è stata una latenza di almeno due anni tra la composizione dei brani e la loro registrazione: alla fine, anche ai nostri occhi, si trattava di un disco “ritrovato”. Ci siamo fatti ispirare da alcuni artisti, soprattutto dall’hauntology di Caretaker e abbiamo “invecchiato” in post- produzione alcuni strumenti (principalmente fiati e pianoforti). Abbiamo reampato con un vecchio registratore a nastro le tracce. Come tocco finale abbiamo campionato fruscii di puntine e abbiamo rimontato il tutto.

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In Strada chiusa cantate: “Lei canta in una camera chiusa/ fumo in balcone/ per non rovinarle la gola/ e poi rientro in punta di piedi/ per non fare rumore con i miei pensieri/ perché lei non sa ancora/ come noi/ che abbiamo perso ieri”. Sembra la trascrizione di momenti vissuti sulla propria pelle nella quotidianità di ogni giorno…

Sono tutti momenti veri, sono tutte immagini che sono sopravvissute alla mia memoria, alcuni lampi che hanno un loro significato, una loro forza, che si ricompongono frammentariamente, di parola in parola, di nota in nota. Comporre per me è sempre ri-comporre, rimettere insieme i pezzi, ritrovare l’intero.

Ci sono molti squarci milanesi all’interno dei vostri testi: cosa rappresenta Milano, anche e soprattutto a livello culturale e musicale, per voi?

Milano è una scenografia, una facciata, nulla di più. Sono nato e cresciuto a Milano, e ogni anno mi sembra più irreale sotto qualsiasi punto di vista, soprattutto dal punto di vista artistico.

 

E invece chi è La contessa Salamandra?

Questo non te lo posso proprio dire, perché è molto permalosa. Posso dirti che è diventata una parte di me, con cui convivo ogni giorno. 


Stare sul palco in tanti è scomodo oppure è una bella festa? 

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I musicisti non conoscono il concetto di comodità: ci siamo assembrati in otto settimana scorsa sul palco del Mare Culturale Urbano, ed è stato bellissimo.

Su quale palco vi piacerebbe suonare fra cinque anni?

Puntiamo alla Royal Albert Hall, ti terremo aggiornato e nel caso anche tutte le lettrici e i lettori di Rockit.

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L'articolo La Scatola Nera della musica del Novecento di Mattia Nesto è apparso su Rockit.it il 2021-10-20 09:59:00

Tag: album

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