Spartiti - Se non puoi cambiare il mondo, fai almeno che il mondo non cambi te

Le ideologie, il comunismo, le storie normali, il post rock: Spartiti raccontano il nuovo disco "Austerità"

spartiti, collini e reverberi
spartiti, collini e reverberi

Sono passati ormai molti anni da quando, nel lontano 2007, Jukka Reverberi (Giardini di Mirò, CrimeaX e molti altri progetti) e Max Collini (Offlaga Disco Pax) hanno iniziato quel percorso che li ha portati a registrare il primo lavoro per Secret Furry Hole. Storie raccontate con una voce unica, immerse in un ambiente musicale che non si limita alla sonorizzazione, ma porta le composizioni a un livello più profondo di interconnessione. Nel 2016 esce il primo capitolo ufficiale, "Austerità": ce lo raccontano in questa bella intervista.

Con un titolo di così forte impatto, viene abbastanza spontaneo pensare al protrarsi della crisi economica globale, ed in particolar modo al periodo della cosiddetta austerity; eppure c’è una sorta di lato seducente e positivo di questa famosa e famigerata austerità, soprattutto pensando ai continui riferimenti alla prima repubblica presenti nell’intero album. È una mera suggestione nostalgica o “si stava davvero meglio quando si stava peggio”?
Max Collini: Personalmente ho sempre pensato che si stava meglio quando si stava meglio, eventualmente. Quando sento nominare il termine nostalgia riferito ai testi che scrivo o che scelgo (se sono di altri autori) tendenzialmente metto mano alla pistola. Sul concetto di Austerità io sono un berlingueriano non pentito e di certo Berlinguer vedeva l’Austerità, nella sua accezione, come una risposta forte e di classe alle derive ideologiche e consumistiche che stavano per travolgere la società italiana di allora e che hanno fatto tabula rasa della cultura moderna di questo paese. Per quanto mi riguarda l’immaginario di riferimento dei testi dell’album ha a che fare con i governi tecnici degli ultimi anni più o meno quanto Rockit ha a che fare con l’hardcore nepalese. 

Nel brano “Sendero Luminoso” c’è un riferimento ad un’assemblea della Federazione Giovanile Comunista Italiana avvenuta a Reggio Emilia nel 1986. Due giovani membri della sezione reggiana, Max Collini e Arturo Bertoldi, decisero per l’occasione di dare una “svecchiata” al già imbolsito organigramma di partito con una trovata folle e geniale. Ci racconti cosa c’è di vero in tutto ciò e come è nata questa idea?
MC: È andata esattamente come racconta la canzone. Il documento che scrivemmo per prendere per i fondelli i leader maximi della Federazione Giovanile Comunista Italiana di allora, stiamo parlando appunto di Rondolino, Folena, Cuperlo, Airaudo, Vendola - solo per citare i più noti - è esattamente lo stesso che è diventato poi il testo del brano, parola per parola. L’ideologo della Gioventù Comunista Rivoluzionaria d’Italia Marxista Leninista Maoista Pensiero Guida Compagno Gonzalo era Arturo Bertoldi mentre io ero solo il “compagno numero due”. Durammo lo spazio di quel volantino, ma a rileggerlo oggi assume la dimensione di una trollata davvero memorabile. Non ci si crede di essere stati capaci di una bischerata del genere: “ore 17,30: attacco armato ad una chiesa a scelta con: a) impiccagione del parroco; b) uccisione di 25/30 contadini; c) scavo di fosse comuni capienti”. Sto ancora ridendo dal 1986. Beata gioventù.

Il testo tratto dal libro “Mali Minori” di Simone Lenzi (Virginiana Miller), “Babbo Natale”, racconta della perdita dell’innocenza di Filippo, un bambino cui viene svelata la verità riguardo al vecchio dalla folta barba all’interno di una sezione del Partito Comunista. Ciò che è inquietante, oltre che la scelta stessa del luogo e della data – la vigilia di Natale appunto – è il fatto che il bambino Filippo diventi a un certo punto padre del proprio padre, e lo renda conscio della caduta di un mondo, quello della Prima Repubblica, che non esiste più. Da che parte vi sentite?
Jukka Reverberi: Io sono figlio di un ex segretario del PCI di Cavriago (RE) ed ex membro del comitato centrale del PCI che per vivere vendeva attrazioni da luna park, ovvero sono figlio di chi ha vissuto la politica come passione profonda, totalizzante e rigorosa senza chiedere però nulla in cambio. Sono padre, da pochissimo, di una bimba che difficilmente potrà vivere la politica come è capitato a me ed alle volte ne sono felice, perché vivere del ricordo di epoche di cui non si è stati protagonisti non è del tutto salutare.
MC: Io sono diventato grande nella terra di mezzo. Nato e cresciuto in una famiglia in cui l’ideologia era pervasiva, anche se non soffocante, sono diventato adulto quando tutto quel mondo piano piano scompariva. Ho avuto quattro nonni stalinisti, ma nessuno di loro ha mai cercato di mangiarmi, ve lo giuro. Sono grato di avere ricevuto questo imprinting culturale e politico, mi ha permesso di avere una idea mia sul mondo invece di dovermi sorbire la minestra preconfezionata che ci rifila il pensiero dominante da decenni. Per me il problema è sempre quello: se non possiamo più cambiare il mondo almeno possiamo cercare di fare in modo che il mondo non cambi troppo noi stessi.

Che valore ha per voi il concetto di lotta di classe ai giorni nostri? Vale a dire: il Muro è crollato (con sommo dispiacere di Roger Waters, che porta ancora in giro la sua opera rock) e con esso le grandi dottrine politiche che hanno contraddistinto il '900; ma si può ancora parlare di concetti come classe proletaria e padroni, di saggio di profitto e di materialismo storico ai tempi di Facebook e della globalizzazione?
MC: Viviamo in una società e in un mondo fortemente ideologizzato, talmente tanto che l’ideologia pervade ogni singolo momento della nostra esistenza. Il modello capitalista è così feroce che nemmeno ci accorgiamo quanto condizioni ogni anfratto della nostra mente. Dire che le ideologie sono morte è una colossale stupidaggine. Un’ideologia è, purtroppo, molto in crisi. Un’altra prospera sulle nostre spalle ed è così pervasiva, appunto, che nemmeno ce ne accorgiamo. Il sistema è dentro di noi ed è dentro di noi, prima che in ogni altro luogo, che andrebbe messo in discussione.
JR: Ha senso parlare di padroni? Bisognerebbe chiederlo ai lavoratori nei magazzini di Amazon, Ikea, le ditte che producono hardware per Apple o Samsung ecc. ecc. Il padrone non è più il panzuto untuoso con il cappello a cilindro ed il monocolo, ma i rapporti di classe permangono ancora immutati se andiamo oltre le apparenze. L'ideologia dominante in campo economico è stata molto astuta nello spezzare ed atomizzare il mondo del lavoro, frantumandolo in decine di modalità contrattuali ed isolando i lavoratori, togliendo loro ogni possibilità di solidarietà individualizzandoli sempre più. Siamo arrivati al paradosso che in molti i casi lavoratori con partite iva monocommitenti si sentono dei piccoli imprenditori, padroni del loro tempo, quando invece sono dei semplici operai contemporanei. Il problema vero è che con la misera fine del socialismo in tutte le sue forme (possiamo dirlo che le socialdemocrazie non se la passano neppure loro tanto bene, vero?) nessuno è stato capace di pensare ad un'alternativa capace di umanizzare il nostro tempo. 

Come già in alcuni brani che fanno parte della discografia degli Offlaga, sono presenti scenari degrado, solitudine e abbandono (penso al dramma di una madre povera e single come quella di “Austerità”), meravigliosamente sonorizzati da armonie lente, angosciose e ricche di echi. Qual è secondo voi il paradigma che maggiormente descrive la condizione di povertà ai giorni nostri?
MC: Secondo me il vero razzismo non ha più, da tempo, a che fare con il colore della pelle, ma con il censo. La povertà altrui è diventata intollerabile, inguardabile, pericolosa. Esiste, ma non ci interessa e non vogliamo avere in alcun modo a che fare con essa. La povertà è il discrimine. La povertà è la cosa che fa più paura. Il problema è il povero e la soluzione - cinica è orribile - è la guerra tra poveri. Poveri noi.

L’incipit di “Bassotuba non c’è” di Paolo Nori, in cui la frase “Io sono quello che non ce la faccio” fulmina il lettore col suo carico di apparente negatività esistenziale, rispecchia un po’ la sfiducia delle giovani generazioni, che molto probabilmente saranno le prime a condurre un tenore di vita nettamente inferiore rispetto a quello dei propri genitori. Cosa vi ha spinto a scegliere questo testo?
MC: Sono da sempre un ammiratore di Paolo Nori. L’incipit di “Bassotuba non c’è” (come tutto il romanzo del resto) è una dichiarazione di guerra al linguaggio letterario scritta con uno stile dirompente. Quel libro, assieme a “Fonderia Italghisa” di Giuseppe Caliceti e al racconto “Il piccolo consumatore” di Arturo Bertoldi (che in un disco degli Offlaga Disco Pax è diventato poi il testo di “Cinnamon”) è stato uno dei motivi per cui ho iniziato a cimentarmi nella narrazione. Senza Nori, Caliceti e Bertoldi non sarebbero mai stati scritti (non in quel modo almeno) i testi degli ODP e poi di Spartiti.

Oltre all’allegoria politica di fondo che domina quasi tutto il disco, ci sono anche storie al limite del grottesco, come quella di Augusto ed Ursula narrata in “Banca locale”, o quella dello studente di ragioneria che diabolicamente circuisce la figlia quattordicenne del proprio professore raccontata in “Vera”. Questo vostro raccontare storie per così dire “di provincia”, quotidiane, da dove nasce?
MC: Uno dei pochissimi talenti che sento di potermi riconoscere è quello di essere capace di rendere interessanti e coinvolgenti storie in cui sostanzialmente racconto solo una gran ceppa di cazzi miei. È un mistero, ma funziona così. Se parlo di me sono più credibile che se parlo di pinco palla e forse sono anche più divertente. Di certo sono il massimo esperto mondiale nel campo. Mi piace vincere facile. 

Il post-rock, con quelle sue melodie ripetute a ritmi lenti, e le contaminazioni new wave tipiche di un certo tipo di fare musica degli anni '80, come convivono con un universo musicale italiano sempre più teso verso il rap, genere che fa dell’urgenza narrativa bruciante la sua ragion d’essere?
JR: Ho la fortuna di suonare da circa vent’anni e di esser un ascoltatore di musiche da quasi una trentina, del qui ed ora ho imparato a fregarmene bellamente. Non è solo un gesto di sprezzo nei confronti del seguire le mode, ma il riconoscere l'incapacità di poter suonare tutto, l'impossibilità di poter comprender a fondo un lessico musicale che non mi appartiene. Non sono un musicista tecnicamente preparato, ma ho un mondo sonoro nella mia testa, che è ben definito ed ha contorni precisi ed è quello il mio campo di gioco.

 

---
L'articolo Spartiti - Se non puoi cambiare il mondo, fai almeno che il mondo non cambi te di Alberto Giusti è apparso su Rockit.it il 2016-03-24 10:49:00

Tag: politica

COMMENTI (1)

Aggiungi un commento Cita l'autore avvisami se ci sono nuovi messaggi in questa discussione Invia
  • toni.meola1 8 anni fa Rispondi

    questa è una cazzo di intervista seria