Il Teatro Degli Orrori - Come i Dead Kennedys, perché la canzone è politica

La politica, il punk e la poesia. Incontro/scontro con Il Teatro degli Orrori.

Il Teatro degli orrori nuovo disco Capovilla
Il Teatro degli orrori nuovo disco Capovilla - Foto di Roberto Serra

Dicono che è giusto essere antiquati e si finisce a parlare di lotta di classe, di neoliberismo ma anche di psicofarmaci e di trattamenti sanitari obbligatori. Di poesia, di ragazzine curde di 14 anni che difendono la propria famiglia armate e dell'amore - non corrisposto - verso il proprio paese (l'Italia). A pochi giorni dall'uscita del nuovo album abbiamo intervistato Il teatro degli orrori.

Il vostro nuovo album è una bella botta: sia come massa sonora, sia per la complessità delle canzoni. Quanto ci avete lavorato?
Giulio Favero: In realtà ci abbiamo lavorato meno rispetto agli altri dischi. Siamo andati in studio a marzo e ne siamo usciti a metà luglio. Calcola che prima avevamo fatto solo due prove, una a distanza di due anni dall'altra.

Quindi passate molto tempo senza vedervi e poi, quando c'è da fare un disco nuovo, scrivete e registrate tutto in pochi mesi?
GF: Esattamente, ogni volta ci promettiamo di fare le cose con la dovuta calma ma poi ci ritroviamo a fare tutto di corsa.

Da quanto so “Il Mondo Nuovo”, il disco precedente, l'avevi scritto quasi interamente tu. Per questo come è andata?
Gionata Mirai: L'abbiamo scritto tutti insieme. Partivamo dai giri di basso e della batteria e poi aggiungevamo il resto. È stata una collaborazione continua e, di conseguenza, è stato più facile adattarlo al live perché ognuno sapeva già come lavorare alla sua parte per eseguirla dal vivo. È un disco che ci rappresenta molto dal vivo.
GF: Non vuol dire che le stesse cose fatte in studio saranno rifatte dal vivo ma non è stato necessario un lungo lavoro di riarrangiamento per portare i brani sul palco.

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Parliamo di songwriting. Nella vostra carriera avete scritto cose molto importanti...
Pierpaolo Capovilla: Ti interrompo subito: io odio spiegare il mio modo di scrivere e non credo nemmeno di aver scritto cose così importanti. Ognuno ascolta una canzone e la fa propria: le parole che ho usato io, tu, ascoltatore, le usi come preferisci. Dai significanti fioriscono i significati in base alla relazione che c'è con il significante stesso, ed è una relazione intima e privata. Se io ti spiego la canzone uccido questo tipo di dialettica.

Siam d'accordo.
PC: Però la domanda me la vuoi far lo stesso.

Come diceva mia nonna: domandare è lecito, rispondere è cortesia. Io trovo che nel tuo modo di scrivere ci siano sempre state due componenti molto forti: una più personale e una seconda più “da romanziere”. Negli ultimi due dischi la prima è andata a un po' nascondersi sotto la seconda, sbaglio?
PC: È una bellissima domanda, in realtà. Io non credo che questi, essendo testi ancora più esplicitamente politici, siano meno personali o autobiografici. Anzi, sono in assoluto i testi più profondamente autobiografici che abbia mai scritto. Riguardano la mia vita e questa si svolge insieme alla tua, a quella di Giulio, di Gionata e alla società intera. In questo senso sono politici, non nel senso della militanza ma nel mio tentativo di narrare la società. Non mi limito a descriverla, cerco la commozione: è un com-patire, patire insieme. Capisci?

Capisco. Semplicemente fatico a ritrovare una certa emotività che prima riconoscevo immediatamente nelle tue canzoni e in quelle che hai scritto per altri.
GF: Non è così importante che tu lo debba ritrovare, sai?
GM: È una cosa che mi hanno detto in tanti per il disco precedente: non c'è più Capovilla che sputa sangue nelle canzoni. Magari per “Il Mondo Nuovo” potevo anche capirlo ma per il nuovo album non sono d'accordo. Pierpaolo è nelle parole che usa, sono proprio le sue. E poi lo ritrovi nelle sue scelte: è lui che ha voluto la foto di una “Un donna”. Non è un dettaglio da poco.
PC: È fantastico che stiate rispondendo voi al posto mio.

Il teatro degli orrori Una donna
Il teatro degli orrori Una donna


Pierpaolo parlami di questa fotografia.
PC: Io scopro questa fotografia su internet, la guardo e me ne innamoro. In quella fotografia c'è il mondo in questo momento: il patimento, la lotta, la battaglia. È una ragazzina, ma è una donna, ha quattordici anni, guardala bene. Il mitra è troppo grande, lei è piccina, davanti c'è la mamma e la sorellina più piccola. Il mitra potrebbero pure averglielo regalato dei parenti ma, secondo quanto mi ha detto l'agenzia da cui abbiamo comprato la foto, le è stato dato dal YPG, l'unità di autodifesa del popolo curdo. La bellezza di quella fotografia è la bellezza di quel popolo, è la bellezza del socialismo (lunga pausa, NdA). Sono cose completamente mie. Per capirci: io sono socialista, se ti dico che sono socialista vuol dire sono comunista. Io credo, come diceva Majakovskij, “nella grandezza del cuore umano”. Credo che gli uomini possano fare meglio di così. La fede è una scelta, io ho scelto di credere.

“Bellissima” è una canzone d'amore?
PC: È l'ultima che ho composto, ho faticato a chiuderla. Il mio problema è che ho scritto una canzone d'amore anche se non volevo farlo. Non avevo più il tempo né le forze di cambiare strada, ho detto: ok, scriviamola ma l'oggetto dell'amore non deve essere una donna ma il mio paese, me lo sono pasolinianamente imposto. Io in quella canzone parlo dell'Italia, quando dico “non so perché non mi ami più” - invece di non ti amo più - voglio dire che è il paese che non ama me, non il contrario. E è il mio paese che mi disprezza.

Che è un tema fin “troppo” ricorrente nel disco.
PC: Troppo? Ma tu non lo percepisci questo disamore per un paese che sta precipitando nell'idiozia? (si scalda, NdA) L'ultimo giorno che visse Pasolini rilasciò un'intervista a Furio Colombo e disse questo: se io batto lo stesso chiodo sullo stesso muro posso far crollare la casa. È un evento raro, ma se continuo posso riuscirci. Ci siamo?

Era una provocazione, ovviamente. Il punto è che c'è il rischio di confondersi con quei gruppi che ormai parlano sempre delle stesse cose da decenni. Come se l'argomento politico in sé nobilitasse già la canzone.
PC: Tutta la canzone è politica, Dolcenera è politica, Ramazzotti è politica, Vasco Rossi, Ivan Graziani e Fabrizio De Andrè... Noi siamo stati tra i primi ad aver detto le cose come stanno su Genova: provocatori in borghese, fascisti in divisa che picchiano le persone, le umiliano, il sangue sulle strade. Io mi sono ispirato ad una storia vera, di una ragazza che ho conosciuto. L'hanno riempita di botte, la faccia così, così! (urla, NdA). È il problema del fascismo nelle forze dell'ordine, nel Ministero degli Interni e nel nostro esercito. Noi siamo degli artisti e non abbiamo niente da perdere, se non la nostra dignità, ma soprattutto siamo degli intellettuali. Abbiamo la memoria lunga.

Ti trovi bene nel ruolo dell'intellettuale?
PC: A me sta benissimo ma mi fa schifo come viene narrata l'idea dell'intellettuale oggi. Per tutti è un perditempo, chiunque non produca beni è un perditempo. Una volta una ragazzina è andata a dire Landini che non ne sapeva niente del lavoro perché era dieci anni che non lavorava in fabbrica. Ti rendi conto? Dirlo a Landini, il segretario generale della FIOM. È un super lavoratore, è uno di quelli che lavora veramente. Il vero lavoro è la lotta di classe. E questa frase Gioré me la devi lasciare se no ti vengo a prendere a casa.

E qual è la lotta di classe nel 2015, quella tra le partite IVA contro gli stagisti?
PC: No caro! La lotta di classe oggi si chiama migrazione, si chiama guerra dei paesi del Medio Oriente.

E tu credi che usare una parola così vecchia sia utile a spiegarlo?
GF: Da quando ho iniziato a fare le interviste per questo disco sto notando che determinati argomenti, a cui noi siamo molto legati, per gli altri sono quasi un ostacolo. Siamo rimasti uno dei pochi gruppi che ragiona, forse, come ragionavano determinati gruppi punk: i Dead Kennedys non avrebbero mai trattato temi diversi nelle loro canzoni, idem i Minor Threat, i Fugazi o i NoMeansNo. Noi veniamo da lì, non stiamo giocando un ruolo, siamo noi.
GM: Il quattordicenne che oggi non capisce il concetto di lotta di classe è quello che un domani resterà inculato per tutta la vita. Sembra che ormai la lotta di classe la si faccia contando i like su Facebook.
PC: Lo dico ne “Il lungo sonno”. Lotta di classe significa cadere vittime degli sfruttatori, del sistema capitalistico neoliberista. Posso usare questa parola?
GM: No non puoi più usarla perché sei antiquato. È bello essere antiquati. È giusto essere antiquati. 

Credete che tutto questo sia chiaro per un quattordicenne che legge il testo di “Il lungo sonno”?
PC: Prima o poi qualcuno dirà che Capovilla è diventato fascista, come quando con “Io cerco te” abbiamo detto “Roma Capitale sei ripugnante” e siamo diventati leghisti. A Gioré che ce devo fa'? Io cerco di guardare il mondo con i miei occhi, ci metto tutta quanta la mia cultura, è poca lo so, però ce la metto tutta. Ti parlo del Partito Democratico come dei cormorani che si tuffano in mare, per me sono la stessa cosa.
GM: Non dobbiamo fare la lezione a nessuno. Non siamo Fedez, non ci interessa fare la politica come la fa lui. Semplicemente abbiamo scelto l'unica strada che conosciamo per dire determinate cose, se poi sono vecchie o già sentite pazienza. E se dicono che siamo saliti anche noi sul carrozzone del politichese non importa.

Parlami dei cormorani di “Slint”, è uno miei pezzi preferiti.
PC: I cormorani sono liberi, si tuffano a pescare, sono noncuranti di cosa gli accade intorno. Era esattamene come voleva essere la gente che manifestava a Genova. Un po' più libera di prima, libera dalla contemporaneità, dalle esigenze di tutti i giorni. Il problema è questo: la vita è una poesia, non è solo una questione di responsabilità quotidiane. La vita deve diventare canto, musica, ballo.

E da un'immagine così serena poi si finisce con il protagonista legato ad un letto di ospedale.
PC: Mi sono messo nei panni di chi ha subito un TSO, ne ho conosciuti tanti. Tu sei legato nudo e puoi rimanere lì per quanto vogliono loro. Non c'è una diagnostica, non c'è niente. C'è l'arbitrio di un medico qualsiasi o anche solo di un paramedico. Ti lasciano legato per dieci, ventiquattro, o anche ottantadue ore come è successo a Francesco Mastrogiovanni, a cui ho dedicato una canzone in “Obtorto Collo”. In “Slint” io ho paura di essere legato e mi ricordo della canzone “Washer” - degli Slint, appunto – e così ti dico che la musica è infinitamente più terapeutica di qualsiasi psicofarmaco che esista al mondo. La musica resuscita i cadaveri.

Ne parli anche in “Benzodiazepina”.
PC: Fare uso di psicofarmaci è diventato estremamente usuale, potremmo dire epidemico. In Italia abbiamo una legge che si chiama legge Basaglia, è una delle leggi più avanzate del mondo occidentale. La legge dice che il malato mentale – o sarebbe meglio dire “colui che soffre di disagio mentale” - deve essere trattato come tutte le altre persone. Se io per strada comincio a fare cose strane, non per questo merito un TSO. Ma i medici continuano a propinare psicofarmaci con una facilità pazzesca, anche un veterinario, se vuole, può prescriverti lo Xanax da dare al tuo cane. Ma psichiatria non è una scienza, la statistica sì: negli Stati Uniti è stata fatta un'analisi molto puntuale di cosa succede sei fai uso per lungo tempo di sostanze psicotrope, vivi in media 20-30 anni in meno degli altri. Non proprio bruscolini.

Il rapporto con i vostri fan com’è?
PC: È un rapporto d’amore, loro ci amano e noi amiamo loro.
GF: Sai la cosa più bella? È che ti dicono “grazie”, non “siete fighi” o “spaccate”. Ti riconoscono il fatto che, grazie a te, hanno scoperto delle cose nuove.
PC: È questo far cultura.
GF: Ma non sono dei fanatici, sia chiaro. Stasera ci hanno mandato la foto di una ragazza che si è tatuata il logo del nuovo album sul collo: è una roba forte ma, se ci pensi, non è nemmeno così esagerato. È più un tratto identitario.

Anche in rete mi sembra che il rapporto con chi vi segue sia migliorato parecchio rispetto a qualche anno fa.
GF: In generale è proprio la figura dell'hater che non c'è più. Era una cosa molto presente tre anni fa ma che poi si è autoregolata ed è praticamente sparita.
PC: Voi di Rockit ci avete marciato. Noi siamo stati coperti da insulti e voi dovevate fermarli.
GM: Se tu li fermi gli dai forza, dai Pierpaolo.
PC: No, vanno fermati. È una questione è una civiltà dei rapporti. E questa risposta non me la tagliare.

Figurati se te la taglio. Ai tempi ci avevate chiesto di chiudere i commenti ai vostri articoli, era abbastanza assurda come cosa. In più, se ci fossimo messi a censurare gli hater avremmo solo alimentato la polemica.
PC: Non dico chiudere, dico moderare. Educare.
GM: Non puoi essere tu a decidere chi cancellare o meno, dai.
GF: Io, se posso, ti dico una cosa. Noi abbiamo una certa esperienza, ci siamo fatti il callo su queste cose, ma quando era uscito “A better man” degli One Dimensional Man e tutti ne avevano parlato malissimo un mezzo pomeriggio in paranoia l'avevo passato ugualmente. Poi capisci che non cambia un cazzo e che le cose continuano a girare ugualmente, ma per una band emergente può essere è una sberla non da poco. Se ai tempi aveste fatto qualcosa sarebbe stato un goal importante.

C'è stato un momento in cui avete capito che stavate passando dall'essere un gruppo di nicchia ad uno che poteva raggiungere un pubblico veramente ampio?
GF: C'è un episodio che non riesco a togliermi dalla testa. Non era ancora uscito “A sangue freddo” e suonavamo al Curtarock, un festival di Padova organizzato dal cantante degli Universal Sex Arena. Non c'era un pubblico così ampio, diciamo un migliaio di persone. Davanti al palco non c'erano le transenne anti-panico, c'erano quelle classiche della pro-loco. La gente era talmente galvanizzata che quando abbiamo fatto il pezzo “A sangue freddo” - che tra l'altro manco conoscevano – ha spaccato tutto ed è salita sul palco. Ecco, lì ho iniziato a farmi qualche domanda.

A soldi come va?
GF: Come a tutti. Questo è pure il periodo più delicato, quando non sei ancora partito per il tour e stai grattando dal muro gli ultimi risparmi. In molti credono che siamo diventati ricchi ma non si tiene mai conto che le uniche entrate sono i live ed è molto costoso fare un concerto come il nostro. Durante il tour hai anche uno stipendio decente ma se te lo sputtani subito, beh, poi i due anni che stai fermo cosa fai? Ti devi rinnovare continuamente. Ha ragione Appino che fa un disco all'anno, è l'unico modo per campare di musica.

A voi piace suonare dal vivo?
GF: La cosa bella è che, nonostante gli anni passino ed i pezzi siano più o meno sempre gli stessi, quando siamo sul palco accade qualcosa. Non sei più un individuo ma parte di un'entità unica. Non è una banalità: è come se la musica, a quel punto, si suonasse da sola. Secondo me non è una cosa che accade così facilmente. L'avevo vista quando ero il fonico degli Zu e, ti giuro, ci sono state delle volte che mi sono davvero commosso durante i loro concerti. È una sorta di gabbia dorata, a quel punto è la musica che comanda. È molto forte quello che succede tra di noi.

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L'articolo Il Teatro Degli Orrori - Come i Dead Kennedys, perché la canzone è politica di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2015-10-08 09:00:00

COMMENTI (2)

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  • iocero 9 anni fa Rispondi

    Veramente hanno chiesto di chiudere i commenti? Che delusione...

  • antonio.bartalozzi 9 anni fa Rispondi

    Bella interview!!!