The Banshee - Telefonica, 03-09-2008

(The Banshee - Foto di Framezer0)

Che c’entrano The Banshee con Peter Hook dei New Order e con i Depeche Mode? C’entrano, e non si tratta di influenze musicali, ma dei casi della vita, a volte beffardi, a volte carichi di promesse. Il frontman Jago ci racconta un po’ “Your Nice Habits” - esce oggi per Suiteside - e come Genova vada stretta a questi quattro giovani che sognano l’Inghilterra. L'intervista di Renzo Stefanel.



La prima cosa che mi ha colpito di voi è che siete nervosi ed energici, mentre di solito i gruppi italiani di ispirazione britannica suonano mosci.
Secondo me è carattere. Credo che qualsiasi tipo di musica, qualsiasi tipo di attività, qualsiasi tipo di espressione artistica potessimo metterci a fare verrebbe fuori in quel modo lì, nervoso, un po’ sconnesso, perché siamo noi che siamo fatti così e quindi interpretiamo in quel modo il genere, le influenze a cui ci ispiriamo.

La musica che fate ha esponenti illustri anche oggi, come i Franz Ferdinand, ma voi citate come ispirazione i gruppi post punk di 25 anni fa. Come capita a dei ventenni d’innamorarsene?
Mi rendo conto di come possa suonare strano e vedo spesso come anche nelle recensioni che chi parla di noi nota le influenze per lo più dei gruppi attuali, ma noi siamo molto più legati a band del passato come Devo, Talking Heads, Smiths, Buzzcocks, Gang of Four che non a gruppi come i Franz Ferdinand che io, per la verità, ascolto poco, per quanto possa sembrare strano e per quanto ci teniamo ad essere aggiornati a conoscere quello che succede intorno al mondo a livello musicale. Però il punto di partenza del nostro progetto, l’attitudine, l’ispirazione più alla base è quella proprio dei gruppi post-punk degli anni 80. E non solo, perché Nicolò è un grande appassionato di David Bowie, e ascolta musica sperimentale; il bassista Andrea ascolta tanto funk, trip hop, drum’n’bass, techstep, oltre alle band inglesi, americane o internazionali che escono adesso. Per cui credo che il fatto di essere legati al revival post punk sia un processo al quale siamo arrivati attraverso una storia di ascolti e influenze personali abbastanza complicata. Poi probabilmente il fatto che siamo nati a metà degli anni 80 ha fatto sì che l’imprinting… Mio padre quando ero piccolo mi faceva addormentare ascoltando i Talking Heads e i Devo. Effettivamente qualcosa della nostra infanzia, un imprinting anche a livello emotivo di sonorità c’è stato. Poi è chiaro che si passano un sacco di cose e nel momento in cui si passa ad esprimere quello che si è e si vuol dire lo si esprime in un modo che fa parte del proprio di essere e nel nostro modo di essere per quanto siamo Italiani e siamo giovani c’è quello.

A chi ti ispiri come cantante?
Ti dirò, io suono anche la chitarra e la tastiera e non mi sento cantante al 100%. Non ho mai avuto un riferimento da imitare. Senz’altro, il genere che facciamo, il tipo di testi che scriviamo influenza molto l’emissione vocale, più per il ritmo, per lo scandire le parole che per il timbro della voce. I cantanti che stimo, che ho sempre adorato sono Morrissey e Sting, ma in realtà seriamente non è facile per me indicare un cantante in particolare al quale devo il mio modo di cantare, che non credo sia particolarmente originale o particolarmente riconoscibile in quanto mio. Però forse non è nemmeno così simile a nessuno dei gruppi ai quali mi ispiro.

Mi sembra che nei vostri testi ci siano almeno un paio di temi ricorrenti: le vostre sono canzoni di insoddisfazione e di contrapposizione. O no?
Sì, un filo conduttore di questo disco in particolare è quello dell’insoddisfazione nel senso più lato del termine, forse anche quello della contrapposizione con chi appunto è diverso o in qualche modo non vuole capire. Il motivo è che in questi anni e in questi ultimi mesi soprattutto ci sentiamo molto rinchiusi all’interno di una nullafacenza che Genova porta in sé. È una città nella quale non succede molto, nella quale è molto difficile si possa organizzare eventi che almeno abbiano un interesse culturale. È una città molto legata ad abitudini, a stili di vita vecchi e piena di persone anziane, per le quali i giovani hanno poca importanza in generale. È una situazione a cui i giovani si sono abituati e che non fanno nulla per cambiare, ma di cui si lamentano molto spesso. A noi questa realtà sta molto stretta. Abbiamo avuto la possibilità di viaggiare, di suonare all’estero e in tutta Italia e di conoscere anche realtà molto più piccole di quella genovese, ma che a livello culturale hanno molto più cose da dire, con una spinta in avanti notevole.

Chi è Peter, il protagonista di “Russia”?
Ho scritto quel testo il giorno prima di registrare quella canzone – ce n’era un altro prima - dopo aver letto un articolo su Internet che riguardava lo scioglimento definitivo dei New Order, la band di Peter Hook: è una speculazione su quello che gli può essere accaduto dentro, dopo tutti questi anni, dopo essere stato un ragazzo di provincia, proletario, che si è trovato ad aver a che fare con un mondo gigante, pieno di persone sbagliate. La cosa divertente è che poi l’ho conosciuto. Al Goa Goa Festival di quest’estate, noi abbiamo suonato e Peter Hook era invitato come dj. C’era una nostra amica giornalista che è la fidanzata di uno dei New Order e lo conosce bene personalmente: gli ha dato il nostro disco e gli ha detto “Guarda, la traccia numero cinque è ispirata a te”. Io personalmente non me la sono sentita di chiedergli cosa ne pensasse: gli ho stretto la mano, quando è arrivato, e gli ho detto due parole e basta, così.

L’altro testo che mi ha incuriosito è “Believe the Master”: a chi è rivolta?
È un gioco nel quale ci siamo posti nell’ottica di chi ci giudica per il nostro abbigliamento, per il nostro stile un po’ fighetto, un po’ “milanese”. Allora in maniera ironica e autoironica abbiamo voluto guardarci un po’ dal di fuori e prendere la posizione del bigotto o dell’indie che ascolta solamente musica complicata e ci giudica perché siamo vistosi. Insomma è un po’ un misto di tutti i punti di vista diversi di chi giudica gli altri per come appaiono. C’è anche citato nel testo il “Closer Club”, che è una serata che noi organizziamo a Genova: è un po’ l’apice dell’autoironia, quando diciamo “sembri un fighetto del Closer Club e fai pena”. Un po’ avevamo voglia di prenderci in giro, un po’ alle volte ci rendiamo noi stessi conto di essere ridicoli.

Questo disco è stato registrato con Luke Smith: com’è nata la collaborazione con lui?
Avevamo la necessità di avere un produttore artistico di un certo peso in questo disco, che ci aiutasse a realizzarlo nel modo in cui volevamo, e in Italia non trovavamo nessuno. La prima persona in cima alla nostra lista era Luke, che conoscevamo perché faceva parte dei Clor, che sono passati un po’ inosservati perché si sono sciolti subito, però avevano fatto un disco che ci era piaciuto molto ed è uno dei nostri preferiti degli ultimi anni, e poi abbiamo visto che lui aveva prodotto degli altri artisti, delle altre band. Abbiamo provato a scrivergli e ci ha risposto immediatamente che la cosa gli interessava, che i pezzi che gli avevamo mandato gli piacevano e che gli sarebbe piaciuto lavorare con noi. Quindi è nato tutto in maniera molto più semplice di quanto ci potessimo aspettare. Con lui abbiamo passato del tempo assieme anche qua a Genova prima dello studio di registrazione per conoscerci, per suonare, per fare andare i pezzi. Ci ha aiutato molto a crescere, in questa fase soprattutto, durante e dopo la produzione di questo disco: è veramente un geniaccio. Ora sta registrando il disco nuovo dei Depeche Mode, che avrebbero potuto permettersi produttori ben più importanti e ben più di moda. È stato molto importante per noi che ci abbia indirizzato a trovare il nostro modo di esprimerci in una maniera che noi facevamo fatica a trovare. Ci ha aperto veramente la mente su molte cose, ci ha dato una spinta creativa notevolissima, e non smetterò mai di ringraziarlo per questa cosa, perché a parte il suo lavoro di registrazione e produzione è stato veramente un elemento molto importante a livello anche personale per la band e tuttora lo è.

Cosa ha portato al vostro suono o ai vostri pezzi?
Ha passato una settimana con noi in sala prove e in parte ci ha aiutato a correggere o almeno a risolvere dei problemi che noi sentivamo nei pezzi. In pratica tante cose ce le ha suggerite lui, come suonare un pezzo in un modo piuttosto che in un altro. Ha rifinito il lavoro di arrangiamento prima di entrare in studio, dove mi sono reso conto di quanto un produttore artistico sia determinante nella scelta dei suoni, a partire dal modo di registrare gli strumenti, il tipo di microfoni… Insieme a David Lenci che è il proprietario del Red House Studio di Senigallia, che lui conosceva già da prima, ha fatto un lavoro di impostazione della registrazione perché aveva in mente il tipo di suono. E poi il missaggio, che chiaramente è il lavoro in cui lui più ha potuto mettere più la sua mano, il suo gusto personale. Ha scelto proprio i suoni, il tipo di atmosfera che poi alla fine i pezzi hanno preso tutti insieme.

Sembra quasi, a leggere la vostra storia, che abbiate avuto più attenzione in Uk che in Italia.
I termini di paragone sono molto diversi. Se dovessimo fare adesso un tour in Inghilterra probabilmente nelle singole date verrebbe molta meno gente che in Italia. Però c’è anche da dire che là le cose si muovono in maniera molto veloce e diversa da qui: noi abbiamo avuto un’opportunità di arrivare a dei network come la BBC che non hanno un paragone in Italia, nel senso che non esiste Radio Uno in Italia con un dj famoso come Steve Lamacq che dice “Oggi ho ascoltato questo, ho ascoltato quello”. Noi siamo arrivati a quello un po’ forse come a un punto di partenza più che di arrivo, nel senso che abbiamo avuto fortuna di piacere a certe persone: anche la citazione sul NME è andata così. Non c’è un background forte che in qualche modo ci copra a livello promozionale in Inghilterra, però abbiamo raggiunto diversi canali e siamo piaciuti. Per poter raggiungere il “successo” lì, bisognerebbe lavorare molto di più a livello discografico ed è quello che proveremo a fare con questo disco.

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L'articolo The Banshee - Telefonica, 03-09-2008 di Renzo Stefanel è apparso su Rockit.it il 2008-09-05 00:00:00

COMMENTI (1)

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  • drinktome 16 anni fa Rispondi

    belle parole.

    e bella kicks up

    m