Alessandro Grazian - telefonica, 18-10-2008

Alessandro Grazian è una figura atipica della musica italiana. E già per questo merita attenzione e rispetto. Quando poi ci mette un secondo disco che è un bel salto in avanti rispetto al primo, le cose si fanno davvero interessanti. Rockit indaga, registra, trascrive. A voi.



Caspita, ma quanti strumenti suoni?
Mi fa piacere che te ne sei accorto. Ho sempre frequentato non solo la chitarra, ma ho avuto curiosità anche per altri strumenti a corde che, avendo avuto un approccio da autodidatta, non mi sono mai fatto particolari problemi ad abbracciare e questi sono poi gli strumenti con cui ho composto il materiale musicale e ho scritto anche gli arrangiamenti. Mi piaceva poi l'idea di espormi non solo come cantante e accompagnare solamente la mia voce con la chitarra, ma cercare di scrivere e di suonare anche altri timbri, altri strumenti. Grazie alla tecnologia ho potuto moltiplicarmi e sovraincidermi.

Gli arrangiamenti sono però accreditati, oltre che a te, in gran parte a Enrico Gabrielli e Nicola Manzan, e non solo.
Sì, perché il disco è nato con questa urgenza mia di scrivere arrangiamenti. Mi piaceva l'idea che fosse molto arrangiato. Un'attitudine molto influenzata anche dai miei ascolti recenti, non solo legati al mondo della canzone, ma anche alla musica strumentale: colonne sonore e altro. Il disco è nato in un momento particolarmente felice in cui Enrico Gabrielli abitava a poca distanza da casa mia, a Padova, e poi c'era anche Nicola, che avevo appena conosciuto ed era molto disponibile al tempo, prima di esplodere anche lui con i suoi progetti. Di fatto è nato così: buttavo giù delle idee, poi magari passava Enrico e gliele facevo sentire e alcune cose si sviluppavano e altre magari si lasciavano così. Poi Enrico ha avuto un ruolo molto grosso, sia come co-arrangiatore, sia perché è stato coinvolto negli ascolti. Ci siamo confrontati molto anche sulla scrittura: è stato un prezioso interlocutore e consigliere. È assolutamente una figura importante in questo lavoro.

Parlavi di colonne sonore, e infatti in questo disco si sente molto l'influenza di Bacalov e Morricone, oltre a Umberto Bindi e Sergio Endrigo. Tutti nella Rca dei primi anni 60. Il tuo disco sembra uscito da lì, come se ti riagganciassi a quel mondo prebeat e lo svolgessi in modo moderno.
È così, infatti: i nomi che hai fatto sono stati proprio i miei ascolti. Mi piacciono molto e incarnano una tipologia di scrittura e di gusto che precede quella che è stata l'"invasione" di una scrittura più anglosassone. L'arrivo del beat da un lato ha creato altri fermenti e altre cose bellissime, dall'altro si è un po' sostituita dal punto di vista del gusto e della scrittura ad altre cose. E queste altre cose mi piacciono molto personalmente e in esse riconosco altri gusti e influenze che poi amo molto, della canzone europea, francese. Mi piaceva l'idea di restituire non solo un tipo di scrittura ma anche di gusto nella scelta degli arrangiamenti, degli strumenti, dell'intenzione.

Curioso. Ripartire dal passato per immaginare un presente diverso della musica è un tratto in comune a diversi artisti padovani come te: nella diversità dei generi, tu e Marco Fasolo dei Jennifer Gentle, Megahertz, la Piccola Bottega Baltazar fate tutti questa cosa.
Forse è legato al fatto che a Padova una vera e propria scena non c'era: quindi ognuno di noi ha trovato le condizioni di coltivare i propri amori musicali ed estetici e ha costruito questo gusto sottraendosi a quella che era la cornice proiettandosi sia a livello geografico che temporale verso altri lidi. Almeno così l'ho vissuto io, perché realmente ho smesso di condividere i miei ascolti, la musica che mi piaceva, con certe persone, e ho cominciato un po' a isolarmi. E questa sottrazione è stata preziosa perché mi ha permesso di coltivare e costruire quello che è stato poi il mio progetto, per cui mi son sempre preso la libertà di passare da una cosa all'altra, da un periodo all'altro, senza essere iscritto in un contesto che mi desse dei binari più precisi. Forse questa è proprio una caratteristica di Padova, dove è sempre passata moltissima musica, anche a livello di concerti, però ognuno ha sempre coltivato il proprio gusto.

Un mio amico mi ha detto: "Grazian vuole fare della sua vita poesia, rinominando le cose, usando parole difficili". Però in questo album ne usi solo una, "tilacino" e la spieghi pure in nota. A ogni modo, mi pare che cerchi di non nominare mai direttamente le cose, ma di suggerirle, nella tua scrittura.
Fare della mia vita una poesia, non lo so. Però sicuramente, almeno nell'idea di scrittura che ho adesso, mi piace che ci sia una tensione poetica nei contenuti, più che un'idea di poesia, un parlare per metafore e non essere molto diretto. Mi piace parlare di cose precise, però in modo non molto chiaro. Ho sempre amato il fatto che in certi testi non molto espliciti sia più facile che ognuno trovi una lettura differente, diversi livelli di lettura, il proprio mondo. Quando si tratta di espormi a livello di scrittura per me è importante che ci sia questo tipo di tensione poetica, di non essere troppo trasparente.

Un sottrarsi al "qui", che sembra una caratteristica del disco: vengono citate un sacco di località e di sonorità, soprattutto europee ma non solo, e nell'inlay c'è una cartina dell'Europa dove manca l'Italia. C'è un'idea di viaggio che forse è in relazione a questo modo di scrivere.
Sì. Io questo disco l'ho vissuto così, avevo bisogno di aprire tutta una serie di finestre che avevo tenuto chiuse nel disco precedente: non c'era una geografia, non c'erano nomi, e non era nemmeno collocato a livello temporale. Tutte cose che invece ci sono nel nuovo lavoro. L'ho vissuto come una liberazione. Era molto importante uscire dai confini italiani. E volevo dichiarare in modo più nascosto un rapporto irrisolto che ho con l'Italia, per cui mi sono permesso di scrivere in tedesco in coda a un brano, di cantare un'intera canzone in francese: sono comunque altre cose che ho frequentato, sia a livello personale, di viaggi e affetti che ho avuto fuori dall'Italia, sia a livello "salgariano", come accade in "San Pietroburgo", una città dove non sono mai stato, ma su cui ho cercato di costruire una specie di viaggio mancato. In qualche modo è stata anche una risposta al primo disco, che si negava molte cose, in cui c'era una sorta di "Dogma", in cui avevo scelto di escludere certi colori, certi timbri, mentre ora non mi spaventava più l'idea, e anzi era in qualche modo un obiettivo, di cercare di incorporare ingredienti come contenuti, nomi, ma anche certe soluzioni di scrittura in alcuni casi meno popolari, più spalmate, che appartengono più a un certo tipo di mondo.

È anche un mondo che si colloca in un tempo passato, la Belle Epoque, il Primo Ottocento o il primo dopoguerra. Anche le foto sono invecchiate o sembrano tali. Perfino il titolo del disco è al passato remoto.
Tutto il disco è declinato al passato remoto: un evento che è accaduto e concluso e non ha una grande continuità col presente. È anche il modo in cui ho vissuto quella che è stata la scrittura musicale in Italia e il fatto che io stesso come persona a volte non sono riuscito a trovare una continuità tra questo mondo che man mano apprezzavo sempre di più e il mondo contemporaneo. Mi sono accorto strada facendo, anche se il disco non era partito con un'intenzione di questo tipo, che a vari livelli, sia nei contenuti che nella grafica, c'era un'effettiva e spontanea proiezione altrove, non nel presente, in un periodo "felice", da un punto di vista delle intuizioni. Per cui mi sono permesso di assecondare questa inclinazione che man mano usciva: alla fine è diventata il senso del disco. Credo faccia sempre parte di un rapporto irrisolto o comunque "altro" con la quotidianità.

So che la lavorazione è stata piuttosto lunga e travagliata: ci doveva entrare Fabio De Min, e ci sono stati dei lunghi colloqui con Marco Toffanin sui testi.
"Indossai" è nato sull'onda dell'entusiasmo del primo disco, per cui avevo finalmente ritrovato la voglia di scrivere, avevo archiviato tutto un certo tipo di mondo e avevo un mondo nuovo da esprimere. È stata molto faticosa la sua trasformazione in disco vero e proprio: la costruzione, la preproduzione, la registrazione, il miraggio, eccetera. La produzione artistica l'ho curata personalmente, però ho avuto bisogno di trovare degli interlocutori, come Enrico. A un certo punto, pochi giorni prima di entrare in studio, in ritardo a livello logistico, ho fatto sentire i provini a Fabio e s'era accarezzata l'idea di fare qualcosa insieme anche sulle registrazioni delle voci. Abbiamo anche chiacchierato sui testi, però alla fine il lavoro con lui non c'è stato. Immediatamente dopo ho coinvolto Marco Toffanin della Piccola Bottega Baltazar, perché mancavano ancora alcune voci definitive e avevo bisogno di certificare dei testi che avevo scritto con un interlocutore che non avesse mai sentito nulla e che stimassi: verso la fine eravamo tutti un po' affaticati, dato che il lavoro è durato un anno.

C'è Emidio Clementi, nel disco.
Emidio Clementi è un autore che stimavo coi Massimo Volume e di cui ho letto i libri. Non lo conoscevo direttamente, però chiacchierando con Enrico è venuto fuori che avevano fatto una cosa insieme. Nel momento in cui ho manifestato la stima che avevo per Clementi, accarezzavo già l'idea di spingere "San Pietroburgo", non propriamente una canzone, ancor più verso quella dimensione cinematografica che aveva: per cui è stato naturale a un certo punto chiedere a Emidio se poteva essere interessato. Ha sentito il materiale, gli è piaciuto, è venuto in studio e ha registrato. La scelta del testo è stata mia e fa sempre parte della famiglia di simboli del disco: è l'introduzione de "La donna di picche" di Puškin, il primo tassello della letteratura russa vera e propria. Mi piaceva mettere una cosa da cui è cominciato tutto.

Cosa ti aspetti da "Indossai"?
Spero da un lato che tutto l'impegno profuso sia ripagato, che il disco piaccia e di poterlo presentare molto in giro. Vorrei che piacesse a chi generalmente non ascolta musica italiana. E anche provare l'esperienza di uscire dall'Italia con un lavoro di questo tipo e sapere come è percepito fuori. Spero che possano essere colti certi aspetti sui cu ho investito molto e possa magari arrivare al di fuori del solito auditorio del cantautorato.

La tradizionale immagine del cantautore ti va piuttosto stretta...
Sì, esatto. E mi piacerebbe in qualche modo che arrivasse questa cosa: non tanto perché mi è stretta, ma vorrei ridefinire i confini e il modo in cui può essere percepito il mio modo di lavorare con la musica. Vorrei cercare di uscire dagli argini in cui siamo costretti io e il mio disco per il fatto che è un disco di un solista.

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L'articolo Alessandro Grazian - telefonica, 18-10-2008 di Renzo Stefanel è apparso su Rockit.it il 2008-12-09 00:00:00

COMMENTI (5)

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  • dieci57 16 anni fa Rispondi

    Complimenti ad Alessandro, la sua musica e la sua poesia sono davvero piacere per l'anima, il cuore e l'orecchio.
    Bravo. :)

  • utente0 16 anni fa Rispondi

    Ciao...mi fa piacere leggere di te!! Dopo averti ascoltato dal vivo @ Goldoni pub, a Brindisi non posso che farti ancora tanti complimenti!!! Continua cosi'!!!a presto;)

    myspace.francescaphotographer

  • utente0 16 anni fa Rispondi

    che strano sentir sbucare la voce di emidio clementi!
    bravo grazian, atmosfere veramente invernali!
    perchè la definisci una figura atipica nel panorama italiano?

  • lucadido 16 anni fa Rispondi

    Bella veramente. Complimenti a Renzo e ovviamente ad Alessandro. Non sapevo che Gabrielli abitasse a Padova!

  • faustiko 16 anni fa Rispondi

    Bellissima intervista... comprerò il disco appena possibile!


    (Messaggio editato da faustiko il 09/12/2008 16:08:58)