Vinicio Capossela - Telefonica, 21-10-2008

(Foto di Chico De Luigi)

Vinicio Capossela torna a quasi tre anni dalla pubblicazione di "Ovunque Proteggi" per dare alle stampe "Da Solo". Un album che predilige l'intimità e gli strumenti inconsistenti, i freak show, i personaggi magici e gli ampi spazi d'America. Un altro piccolo capolavoro. L'intervista di Marco Villa.



Ti lasciamo "Nel niente sotto il sole", ti ritroviamo coperto di sciarpe, cappotti e nuvole. Da dover arriva questo freddo?
Diciamo che in questo freddo mi ci sono condotto io, volontariamente. Dopo essere stato così tanto all'esposizione del sole, era necessario cercarlo e non solo da un punto di vista di temperature interne, ma di vero e proprio atteggiamento. "Nel niente sotto il sole" è un citazione dall'"Ecclesiaste", in linea con il mondo di "Ovunque proteggi", così pieno di carne e di sacrificio della carne. Dopo questa forte insistenza sulla fisicità era davvero necessario ritrovare una dimensione di maggiore intimità, meno esposta alla luce del sole.

"Da solo" è quindi una fuga da "Ovunque proteggi"?
No, non è una fuga. Sono dimensioni diverse, una è rivolta verso l'esterno, una verso l'interno. Sono immaginari diversi, distanti, ma con un punto di contatto. "Da solo" inizia infatti dove finiva l'album precedente, cioè dalla canzone "Ovunque proteggi", un brano di raccoglimento, l'unico di quel disco. Tutto ricomincia da un pezzo che parla di un gigante e di un mago, due personaggi magici, ma in realtà due persone vere, esistenti, che mi hanno aiutato a trovare e fissare sensazioni. Parte da qui, e poi prende altre strade.

Una di queste strade è l'America, segnata da spazi immensi e dipinta a tratti come in certi film di Wenders, in cui cowboy moderni diventano piccolissimi e finiscono per perdersi nel nulla.
L'America è sempre una grande scenografia, dentro la quale c'è silenzio, distanza. Trovarsi in questi spazi non può non spingere a riflettere, su di sé e su quello che si ha di fronte. In questo caso particolare, più che a un immaginario cinematografico sono vicino alle canzoni che riguardano le storie d'America: le piccole vicende, ma anche le tradizioni dell'America protestante e la Banda dell'esercito della salvezza. Sono tante americhe, ognuna con i suoi piccolo luoghi, angoli, posti, focolari, bandiere che sventolano. C'è il Midwest, anzi, c'è l'America dal Midwest al West. C'è il Missouri, Saint Louis, dove ho avuto storie mie personali, fino a Tucson, dove abbiamo registrato "La faccia della terra" con i Calexico. Sono le storie e i volti che poi ho ritrovato in "Racconti dell'Ohio" di Sherwood Anderson.

Ritorna con forza il pronome "io", pressoché bandito da "Ovunque proteggi". Com'è stato rimettersi in gioco anche a livello narrativo, abbandonando in parte il ruolo di affabulatore per tornare al centro del racconto?
Sono canzoni che mi appartengono da tempo, sono scatoloni aperti e poi messi da parte in attesa. Sono cose molto aderenti alla mia vita, che partono da me. Sono nate in modo naturale: una volta che ci si mette al pianoforte, le si porta a compimento. Quindi non sono capace di fare ragionamenti di questo tipo. Anche perché in verità credo non ci sia molto da dire su questi pezzi. Sono canzoni così evidenti che credo parlino da sole. Io non ho particolari cose da aggiungere. Come era naturale che per parlare di "Ovunque proteggi" si dovesse tirare in mezzo l'"Ecclesiaste", la Cina, o Mosca, ora è naturale parlare di me come autore e citare la ferrovia, l'America o il Mighty Wurlitzer, un organo gigantesco che si usava all'inizio del Novecento. Bellissimo, monumentale, e difficile da trovare.

Venendo alla produzione: sei passato da un grande nome come Marc Ribot, a due musicisti italiani giovani come Gabrielli e Asso. Perchè questa scelta?
Questo è il primo disco prodotto da solo, nel senso che per la prima volta mi sono occupato anche della produzione organizzativa, ovvero di esplorare quello avevo intorno per trovare appoggi e sostegni. Credo che Asso sia uno straordinario chitarrista e che possieda anche un eccezionale senso estetico e un grande amore per il suono. Era quindi il compagno perfetto per un viaggio come questo. Le persone con cui ho lavorato all'inizio sono anche quelle che avevo già molto vicine: non c'è stato bisogno di andare a cercare all'esterno della mie conoscenze per trovare collaboratori. Questo mi ha permesso da subito di lavorare bene e con affiatamento. Sono quindi molto contento di aver riscontrato questa vicinanza, così come sono molto contento di avere lavorato con un musicista bravo e geniale come Enrico Gabrielli. Perché fino ad ora ho parlato di rapporti, di conoscenze di vicinanza, ma di fatto il motivo principale per cui li ho scelti è un altro ed è molto semplice. Ho lavorato con loro perché sono i più bravi. Punto.

Il viaggio negli USA è stato anche un viaggio alla ricerca di strumenti. Leggendo le note che hai scritto per accompagnare ogni pezzo si intuisce che avevi le idee chiare sul trattamento da utilizzare per ogni brano.
Sono partito da vicino, da casa mia, dal mio pianoforte e dal mio giro, ma poi in realtà siamo andati molto lontani, dove non eravamo mai arrivati nella lavorazione di un disco. Siamo partiti dal mio pianoforte, che sta vicino alla Stazione Centrale di Milano, e siamo arrivati a Tucson, lontanissimi. Mentre scrivevo, ho iniziato a usare parole e atmosfere che riguardavano anche l'America, che sentivo mie ma che abitavano da un'altra parte, lontano. L'America è entrata nel disco e allora noi siamo andati là per cercare l'arca perduta, percorrendo questi spazi per trovare quello di cui avevamo bisogno. È vero, avevo le idee molto chiare. Sapevo cosa volevo, ma non sapevo dove trovarlo: in questo senso il viaggio all'interno dell'America è diventato il viaggio del disco, che rincorreva ciò di cui aveva più bisogno. Sono percorsi come questo a rendere avventurosa la creazione di un disco. In questo viaggio abbiamo trovato non solo strumenti musicali, ma anche collaboratori che si sono rivelati necessari perché tutto venisse in questo modo. Ho lavorato con JD Foster grazie a Marc Ribot, grazie a rapporti che si costruiscono con gli anni, con i dischi e con i concerti. Nel complesso sono davvero contento di avere seguito tutto da così vicino, perché adesso mi rende molto più soddisfatto poter dire che, in termini di produzione, il suono e il disco sono usciti esattamente come li cercavo. O meglio, a dire la verità non è che stessi cercando qualcosa di preciso, diciamo che sono contento che tutto abbia un suono, il suo suono.

Come sarà il live?
Il "Da solo show" è un po' come i sideshow americani, quegli spettacoli itineranti che girano insieme ai circhi e che in un certo senso li completano. Quindi anche noi avremo le nostre attrazioni, raffigurate da Davide Toffolo dei Tre allegri ragazzi morti e da un'artista americana. Poi ci sarà Christopher Wonder che farà da imbonitore e da uman pignatta, una riproduzione fedele del Mighty Wurlitzer, del maiale a due teste, del ciclope. Ci sarà una sezione di fiati, e un cantante. E il cantante farà il suo dovere dall'interno di una gabbia, costruita per lui da un King Kong dell'arte contemporanea. A livello scenico sarà molto definito, preciso, curato. Anche nel live, insomma, l'immaginario sarà quello del disco, e non potrebbe essere altrimenti. La sensazione generale sarà avere di fronte un set di strumenti e un gruppo di musicisti da epoca della costruzione della ferrovia.

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L'articolo Vinicio Capossela - Telefonica, 21-10-2008 di Marco Villa è apparso su Rockit.it il 2008-10-24 00:00:00

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