Tony Pitony è di chi lo accoglie

A Londra ha "imparato" la libertà e l'uso del proprio corpo, nella sua Sicilia ha trovato l'energia che gli serve per salire sul palco. La filosofia di un performer tra i più intriganti in circolazione, raccontata dallo stesso protagonista

Tony Pitony
Tony Pitony
22/08/2025 - 14:18 Scritto da Mattia Nesto

C’è chi lo definisce genio, chi lo liquida come provocatore. Tony Pitony, invece, preferisce restare in bilico tra le due cose, con la sua maschera da Elvis, un’ironia affilata e la capacità di trasformare ogni concerto in un rito collettivo. È un artista e performer siciliano, è stato protagonista di numerosi festival estivi sull'isola e non solo. In parecchi si sono accorti di lui ultimamente, anche alla luce del recente disco TonyPitony e di un'improbabile collaborazione con il gamer Favij. 

 Tony Pitony non è un artista nel senso tradizionale del termine, lo avete capito no? Possiamo dire sia più vicino a un movimento, un cortocircuito, un atto di resistenza. Con lui, il palco diventa un luogo di verità, dove cadono le maschere — tranne quella di Elvis — e resta solo l’energia grezza e autentica di un’arte che unisce, che provoca, che accoglie. In un tempo che impone volti perfetti e storie preconfezionate, Tony sceglie di farsi specchio dell’imperfezione collettiva, ricordandoci che è proprio lì, in quella fragilità condivisa, che nasce la vera potenza creativa.

In questa intervista ci racconta il caos creativo e lucidissimo che alimenta il suo mondo. Probabilmente tutte le vostre amiche amici “di giù” ve ne hanno parlato o forse voi stessi siete già stati conquistati da un vero e proprio fenomeno di musica pop. 

Tony Pitony penso si possa dire nasca anche e soprattutto da una maschera: cosa scegli di non mostrare?

La maschera non è un nascondiglio, ma uno strumento di rivelazione. Indossarla significa scegliere cosa mostrare, non nascondere chi si è. Dietro la maschera c’è autenticità, perché tutto ciò che mostro è scelto, non imposto. Quello che non si vede, invece, sono le fragilità più intime, la mia essenza personale che voglio proteggere dal giudizio e dalla mercificazione. Non perché me ne vergogni, ma perché hanno bisogno di restare mie, non esposte al consumo esterno. La maschera allora diventa una sorta di filtro: lascia passare ciò che deve e trattiene ciò che è sacro e personale.
Tony Pitony nasce proprio dall’equilibrio tra disvelamento e occultazione: è un gioco serio in cui la maschera non copre, ma trasforma e arricchisce. E c’è anche un lato giocoso che considero fondamentale. Tony Pitony vive di questo: a volte una rima nasce perché non esiste parola migliore di “culo” per chiudere un verso. Non è una provocazione fine a se stessa, ma la naturale conseguenza della musica e della scrittura, che si muovono in un cortocircuito tra profondità e leggerezza, dove l’importanza la prende il ritmo e la musicalità.

InSessonline il gioco linguistico diventa quasi una specie di ossessione sonora. Cosa ti interessa esplorare attraverso l’ironia e il paradosso nelle tue canzoni?

L’ironia per me è un radar. Mi permette di dire le cose come voglio e, allo stesso tempo, di capire subito chi le afferra e chi no. In questo senso mi salvaguarda: chi non coglie il gioco, chi si ferma alla superficie, non è il mio pubblico, ed è giusto così. Mi evita, il più delle volte almeno, di dovermi spiegare ai rincoglioniti. In Sessonline il linguaggio è il vero protagonista: volevo che le parole si rincorressero, si intrappolassero a vicenda, fino a creare un cortocircuito sonoro che somiglia molto al modo in cui viviamo il desiderio oggi, soprattutto online: rapido, compulsivo, buffo e, a tratti, assurdo. Il paradosso poi mi interessa perché costringe chi ascolta a non adagiarsi, a non pensare “ah, ho capito il messaggio”. No, il messaggio cambia forma, scivola, ti fa ridere e subito dopo ti mette a disagio. È lì che si apre lo spazio creativo: tra la risata e la domanda che ti rimane addosso. Tra l’altro, Sessonline è la canzone più triste che abbia mai scritto.

L’uomo cannone ha visto un video speciale  realizzato con Mario Sturniolo che sembra un piccolo corto surreale più che un semplice videoclip. Come avete costruito quell’immaginario e cosa rappresenta per te quel brano?

Con Mario ci siamo trovati subito sulla stessa lunghezza d’onda. Non volevamo fare un videoclip classico, volevamo raccontare un piccolo mondo, una parabola surreale che avesse il respiro di un cortometraggio. È stato un lavoro di contaminazione continua dopo 3 giorni passati insieme in Sicilia. Per me quel brano rappresenta la possibilità di lasciarsi sparare via: di uscire dai confini del quotidiano, di respirare a pieni polmoni un’altra dimensione e abbandonarsi al volo, senza sapere bene dove andrai a finire. È un atto ironico e liberatorio, ma contiene anche fragilità: perché ogni lancio ha in sé la possibilità di cadere, e anche in modo rovinoso magari. In fondo, “l’uomo cannone” è questo: un rito, un rischio, una possibilità e la scelta di essere liberi, di andare oltre le cose terrene.

Il tuo rapporto con la Sicilia è centrale: in che modo il Sud, con le sue contraddizioni e la sua energia, plasma la tua musica e la tua estetica?

La Sicilia per me non è solo un luogo geografico, è un modo di stare al mondo. È contraddizione pura: una terra bellissima e allo stesso tempo dura, generosa ma crudele dove sacro e profano si uniscono e si confondono nello stesso respiro. Crescere qui significa abituarsi al contrasto: la festa e il lutto, il mare e la polvere, la lentezza assoluta e l’urgenza di scappare. Tutto questo inevitabilmente entra nella mia musica. Il Sud mi ha insegnato che si può essere teatrali senza artificio, perché la vita quotidiana qui è già teatro. Mi ha dato l’ironia feroce e la capacità di ridere anche nei momenti più neri, che è una forma di resistenza. In fondo la mia estetica nasce da questo: dal bisogno di tenere insieme gli opposti, di non smussare le asperità ma di trasformarle in suono e visione. Poi c’è stata Londra, che per me è stata una svolta. Sono andato lì per fare teatro e musica, e ho trovato un ambiente dove si osa davvero: con le parole, con i corpi, con l’essere troppo diretti. Non c’era paura di sbagliare, ma anzi il rischio era parte integrante del processo creativo. Tornato in Sicilia mi sono reso conto che qui si osa poco, che spesso ci si trattiene, ci si censura da soli per paura del giudizio. Io invece ho scelto di non abbassare la voce: preferisco portarmi dietro quella libertà scoperta a Londra e mescolarla con l’energia e le contraddizioni della mia terra.

Nei live alterni teatralità e intimità. C’è un momento sul palco in cui senti che il pubblico diventa parte integrante del personaggio Tony Pitony?

Se devo essere sincero, quel momento non è sul palco. Sul palco io faccio risveglio muscolare, un riscaldamento in pratica. Il vero spettacolo, la vera connessione arriva soprattutto dopo. Tony non vuole essere un’icona distante, non mi interessa fare la rockstar tutta piena di sé che resta dietro le quinte e poi sparisce in una macchina nera. Io sono a mio agio quando scendo in mezzo alla gente: quando mi fermo a parlare, a ridere, a firmare culi, piedi e ogni tanto magliette. Lì si rompe ogni barriera tra artista e pubblico, ed è lì che capisco se chi ho davanti è sincero… allora so che Tony Pitony esiste davvero, oltre me, ma esiste come trait d’union di anime affini. Non perché ha fatto il “personaggio”, ma perché ha creato uno spazio in cui ci si riconosce davvero, senza maschere — o forse con una maschera in più, ma finalmente autentica. Per me il pubblico diventa parte integrante del mio lavoro in quel momento lì: quando la performance è finita e rimane l’incontro umano, il gioco che continua ma senza palchi, senza luci. È un rito strano: prima ci si guarda da lontano, poi ci si ritrova vicinissimi, e in quel passaggio capisco che Tony Pitony non è mai solo mio, ma di chi lo accoglie.

Il 22 ottobre suonerai al Circolo Arci Bellezza qui a Milano. Che tipo di concerto stai immaginando per quella data? 

Sarò da solo sul palco. Non per scelta artistica estrema, ma perché la mia band è rimasta fuori… sprovvista di tessera Arci. È come una maledizione: io ho fatto il bravo cittadino, mi sono messo in regola, loro no. E allora al Bellezza entrerò solo io, e dovrò portare avanti da solo tutta la baracca: voce, elettronica, teatro e soprattutto sudore. Mi piace questa dimensione più nuda, perché mi permette di giocare con i silenzi, con i contrasti, e di costruire un rapporto diretto col pubblico, senza filtri. Quanto alle sorprese… be', se le raccontassi adesso non sarebbero più sorprese. Posso solo dire che Milano avrà quello che si merita. Finalmente.

In più di un tuo pezzo emerge il corpo come immagine ricorrente — vulnerabile, ridicolo, eroico forse anche erotico. Che ruolo ha la fisicità nella tua scrittura e nella tua performance?

Il corpo ci è sempre stato raccontato come “il tempio dell’anima”, ma oggi chi crede ancora allo spirito? A me interessa il corpo in sé: sudato, fragile, goffo, desiderante. Non come custode di qualcosa di superiore, ma come luogo dove succede tutto. Nei miei pezzi il corpo diventa ridicolo ed eroico allo stesso tempo, perché lo è davvero: può inciampare in una rima, può esporsi al pubblico, può diventare ossessione o oggetto di desiderio. È un mezzo ma anche un ostacolo, ed è lì che nasce la tensione creativa. Nella performance è centrale: io non sto mai “cantando e basta”, il mio corpo diventa strumento, personaggio, a volte caricatura. Non mi interessa apparire perfetto, mi interessa che il corpo racconti — con i suoi limiti, le sue smorfie, i suoi eccessi. È lì che la gente ride, si riconosce o si imbarazza.


In Culo la provocazione sembra diventare quasi una lente per raccontare il desiderio e il grottesco insieme. Come nasce quel pezzo e cosa volevi davvero mettere a nudo con quel titolo così diretto?

Culo è probabilmente la canzone più acerba della mia carriera. L’ho scritta prima del Covid, poi l’ho lasciata lì a dormire e l’ho riesumata dopo, come se avesse bisogno di aspettare il suo momento. Difatti ho scelto il momento storico più sbagliato per farlo. All’inizio il titolo era “Cuore”, ma mi sono chiesto: con un titolo del genere qualcuno avrebbe avuto davvero la curiosità di ascoltarla fino in fondo? Considerando che il brano è diviso in due parti: la prima parla di un amore lapalissiano, dichiarato senza veli, scontato. La seconda invece entra nel crudo, nell’eccesso, nell’iperbole, nell’animalesco in quella parte di desiderio che non si può raccontare solo con rose e violini. La seconda parte è ovviamente pura immaginazione. L’abbiamo pensato tutti. VI VEDO SORRIDERE Quindi ho deciso che il titolo doveva essere semplice, vero, spiazzante, diretto, quasi brutale. Culo non è una provocazione gratuita: è un’attesa.

Hai costruito un ecosistema creativo fatto di videomaker, fumettisti, performer. Come ha influito sul tuo modo di scrivere o di salire sul palco?

Più che il progetto singolo, direi che è proprio la dimensione collettiva ad avermi arricchito. Lavorare con videomaker, fumettisti, performer significa che ogni volta il mio immaginario viene “contaminato” e rimesso in discussione. Io parto da un’idea, poi quando passa attraverso gli occhi e le mani di altri prende strade che da solo non avrei mai trovato. Il mio lavoro musicale non finisce con la canzone, ma si apre a un mondo visivo che la amplifica. Vedo tutto come un varietà, o meglio come un musical eterosessuale, finalmente aggiungerei. Sul palco questa esperienza si sente: non penso più solo in termini di “suono”, ma di immaginario totale. Ogni concerto è un piccolo rituale collettivo dove porto con me tutte le estetiche e le follie che ho incrociato. Ecco perché Tony Pitony in realtà forse non esiste: nasce e muore sempre in mezzo al pubblico.

Guardiamo alla fine in avanti: c’è un’immagine, un suono o una storia che non hai ancora raccontato e che senti come una necessità urgente per il futuro di Tony Pitony?

Sostanzialmente una barca a vela, non mia perché il fisco non gradirebbe, magari una barca che si chiama Tony Pitony? Ho smesso di pensare in maniera seriosa al mio futuro, l’ultima volta che l’ho fatto volevo fare l’attore e quando ho deciso è iniziato un virus mondiale, forse per il momento non decido completamente quello che sarà domani ma mi lascio trascinare, raccogliendo i frutti del lavoro di Tony e godendomi le collaborazioni spontanee, i live, e sopratutto le foto che mi arrivano in DM. Ho anche in cantiere un nuovo progetto, che porterà il volto di Tony sul grande schermo, nato dalla collaborazione con un regista americano che ha sposato il progetto Tony e che sta esaudendo un mio desiderio. Ma ho già detto troppo.

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L'articolo Tony Pitony è di chi lo accoglie di Mattia Nesto è apparso su Rockit.it il 2025-08-22 14:18:00

Tag: sicilia

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