Africa Unite - Torino, 02-09-2004

Il reggae degli Africa Unite continua a vibrare ininterrottamente da ventitre anni. E sempre ad alti livelli. Fino a quest'ultimo “Un’altra ora”, secondo album dal vivo del gruppo pinerolese, che include cd audio e dvd a prezzo speciale.

Si parla di questo e si ripercorrono alcune tappe fondamentali dell’attività degli Africa Unite in una sempre piacevole chiacchierata con Bunna, voce del gruppo piemontese.



Cosa vi ha spinto a pubblicare un secondo disco dal vivo?
Fondamentalmente perché era passato un sacco di tempo dall’altro, quasi dieci anni. La caratteristica del “live” è che deve rappresentare quello che è il gruppo dal vivo, e chiaramente oggi dal vivo siamo un po’ un’altra cosa rispetto al concerto di “In diretta dal sole”. Quindi il primo motivo è stato questo. Secondo, il concerto è sicuramente l’aspetto più congeniale agli Africa, nel senso che respiriamo più calore e pensiamo che il pubblico faccia altrettanto. Le cose in studio sono più precise e tutto è calcolato e freddo. Il concerto, invece, è più impreciso, ma ha più “anima”.

Quali differenze riscontrate tra i due album live?
Innanzitutto, a suo tempo eravamo meno bravi di oggi, senza voler essere presuntuosi, ma sicuramente con il tempo si migliora, per fortuna. A differenza del precedente album, registrato su multitraccia e dove qualcosa era stata rifatta e ritoccata, questo nuovo disco è stato registrato in stereo e quindi non era possibile ritoccare una cosa o l’altra. Per cui le canzoni sono state prese pari-pari, anche con degli errori e delle imprecisioni che fanno parte del concerto. Inoltre, il fatto di poter aggiungere il dvd ci sembrava un bell’omaggio e ci piaceva farlo ad un prezzo contenuto. 15 euro infatti mi sembra che sia un prezzo assolutamente popolare.

E’ una via utile e percorribile questa di offrire un nuovo cd, soprattutto così “pieno” ad un prezzo ridotto?
Sicuramente. Quando noi facciamo queste operazione di “basso costo” della musica vogliamo proprio dimostrare che è possibile farlo, nel senso che tutti fanno un gran parlare del fatto che la musica costa cara, che i dischi non si vendono, però poi di effettivo, di reale, si fa molto poco. E’ chiaro che nel momento in cui vendi un disco a prezzi più bassi del solito devi rinunciare a degli introiti, però noi siamo convinti che sia giusto che la musica non debba costare quanto sta costando, perché è veramente un’esagerazione. C’è poi il download della musica da internet, che penso non sia così negativa: alla fine l’importante è che la musica circoli. Nel nostro caso vediamo per esempio che c’è uno sproporzione incredibile tra i dischi che vendiamo ed il pubblico ai nostri concerti. Alla fine io credo che il disco diventerà sempre più una cosa che promuoverà il live e non fine a se stesso.

Ora siete in tour per promuovere un album dal vivo. Tour su tour. Non vi sembra strano? D’altronde non ci sono pezzi nuovi nel disco…
Noi siamo un gruppo che se dovesse campare con la vendita dei dischi sarebbe un po’ rovinato…. Il nostro sostentamento ci viene dal live. Suoniamo sicuramente molto, stiamo in pratica portando ancora in tour il precedente “Mentre fuori piove” e nel frattempo, visto che abbiamo avuto la possibilità di fare tutta una serie di registrazioni audio ed il dvd a prezzi contenuti, ci siamo chiesti: perché non pubblicarlo in questo momento che abbiamo la possibilità di farlo? E l’abbiamo fatto. Non abbiamo poi messo nessun pezzo inedito perché non volevamo un’operazone di marketing, come solitamente un live è, con il pezzo inedito, il video, il singolo, ecc. La nostra voleva solo essere una fotografia, una testimonianza di quello che sono gli Africa in questo momento. Andremo ancora avanti fino a metà ottobre con i concerti e poi ci fermeremo per cominciare a pensare al disco nuovo.

Nella serata “I cieli su Torino” del luglio scorso, alla quale avete partecipato voi ed altri gruppi torinesi (Subsonica, Mau Mau, Linea 77, Persiana Jones, Fratelli di Soledad), era evidente il grosso affiatamento. Sembravate un’unica band sul palco. E’ stato difficile raggiungere questo risultato?
No, perché a Torino non abbiamo mai percepito un clima da competizione, anzi... Con tutti gli gruppi torinesi abbiamo sempre avuto rapporti di collaborazione: uno fa una cosa nel disco dell’altro, ecc. Secondo me fanno molto da legante gli studi di registrazione, quello di Max Casacci a Torino, quello di Madaski a Pinerolo, dove tutta una serie di gruppi prima o poi passano. Quello che tu hai visto, questo sentimento che lega quei gruppi torinesi esiste anche nella realtà, ci si vede anche al di fuori della musica, ci si frequenta, ci si confronta…Ed è anche grazie a questo feeling tra band che Torino è così prolifica.

Per quanto riguarda le case discografiche, nella vostra lunga carriera avete alternato contratti con le major a quelli con le etichette indipendenti. Cosa vi ha portato a questo continuo cambio?
L’iter è stato abbastanza classico. Abbiamo cominciato con una serie di autoproduzioni, nei primi due dischi. Con “People Pie” abbiamo cominciato ad affidare la distribuzione alla New Tone Records. Poi con la Vox Pop, etichetta milanese che aveva in catalogo tanti ottimi gruppi, e via in crescendo, cercando di ottimizzare distribuzione e visibilità. Quando sei da solo hai difficoltà economiche per fare un video, per promuoverti, campagna pubblicitaria, ecc. Quando è arrivata l’offerta della Universal abbiamo raccolto altri frutti: lavorare con una grossa etichetta ti permette di attingere ad un fondo cassa sicuramente di un’altra entità rispetto a quello di un’etichetta indipendente. E poi entrare nelle rotazioni delle radio e delle televisioni. I lati negativi si sono poi fatti comunque sentire, nel senso che lavorare con un’etichetta così grande comporta il fatto che per il minimo aggiustamento, tipo il prezzo ridotto del cd, devi confrontarti con una burocrazia infinita…Questo è uno dei motivi per cui siamo tornati a lavorare con un’etichetta indipendente, per gestire meglio tutto quanto. Ed in un momento come questo, con la crisi del disco, la cosa importante per noi è la distribuzione, che il disco cioè si trovi nei negozi. Con l’Alternative, l’etichetta che ora ci distribuisce, la proposta ci sembrava molto interessante.

Qual è il tuo disco preferito degli Africa?
E’ difficile: ce ne sono diversi. “People pie” lo metterei sicuramente tra i miei preferiti….

Strano, di solito gli artisti si legano di più agli ultimi lavori, che sentono più vicini al loro stato d’animo attuale…
Si, se lo vai ad ascoltare oggi è pieno di ingenuità… Nel tempo in cui è stato fatto aveva delle belle canzoni, era un bel disco, aveva delle belle melodie. E’ chiaro che i dischi più recenti sono più curati, più arrangiati, dovuti a maturazioni artistiche e tecniche. Però ti devo dire che “People pie”, “Babilonia e poesia”, “Vibra” e “Mentre fuori piove” sono i quattro che metterei sul podio dei preferiti.

Ed “Il gioco”, un esperimento fuori dalle righe per lo stile degli Africa?
E’ un disco un po’ strano, che rappresenta il periodo che vivevamo, soprattutto per i rapporti interpersonali tra di noi. C’era un po’ di confusione a tutti i livelli, sia musicale che umana e questo traspare. Non è un disco che rinneghiamo, assolutamente, fa parte della nostra storia. E’ un disco un po’ meno di canzoni, più di atmosfere.

E forse ha dato una svolta ad un certo vostro modo di scrivere e di raffigurare le copertine. Penso al “sole” ed ai colori brillanti dei primi album contro il grigiore e l’oscurità pesante di “Mentre fuori piove”. Gli ultimi sono tempi duri?
Sono momenti più cupi e più scuri e sarebbe ipocrita far finta di niente e cantare solo di sole, mare e libertà. Tutti i dischi rappresentano il momento sia musicale che testuale. “Mentre fuori piove” è nato in un momento in cui c’era molto di cui preoccuparsi, però alla fine il reggae ha sempre una sua positività di fondo. Quindi, le cose sono sì rappresentate in modo obiettivo, però, come si dice, c’è sempre la luce in fondo al tunnel, c’è sempre la speranza di poter risolvere e cambiare. Quello che cerchiamo di fare è dare degli spunti di riflessione sul come cambiare, sul come trovare la soluzione alternativa a quello che sta succedendo.”

Sei un tipo che non ama molto parlare di se. Nei testi c’è mai nulla di autobiografico?
Tieni conto che il mio lavoro sui testi è poco perché io fondamentalmente mi occupo di più, anche se non si direbbe, della musica, delle melodie, della costruzione della canzone. Mentre per quanto riguarda i testi, mi capita di scriverne, ma rispetto a Madaski ne scrivo pochi…

E’ vero che spesso tu e Madaski siete in disaccordo su molte questioni, ma che alla fine raggiungete splendidi risultati, grazie proprio a questa diversità?
Siamo veramente uno il contrario dell’altro - a partire dall’altezza... - ma siamo riusciti negli anni ad affinare degli equilibri e delle tolleranze reciproche che ci permettono di creare quello che sono gli Africa. Nel gruppo ci sono queste due anime che vengono fuori entrambe: io sono legato al reggae più tradizionale, mentre Madaski guarda più al futuro, ai suoni moderni.”

Sono tanti anni (quasi diciassette) che porti i dreadlocks, ormai lunghissimi. Hai mai pensato di tagliarli o di cambiare look? Come sarebbe Bunna senza dreadlocks?
Ho pensato a come sarei senza, ma non ho mai pensato di tagliarli veramente. Cosa potrei fare senza dread? Potrei radermi a zero…

E ventitre anni di reggae cominciano a pesare?
A me piace molto. Poi ci sono delle valvole di sfogo dei progetti paralleli che aiutano a non stancarsi. Dedicarsi a qualcos’altro, avere a che fare con altre persone, è una cosa che dà nuovo entusiasmo per ricominciare.

Ora siete in tour, fino a metà ottobre. Poi? E’ tempo di pensare al nuovo album di inediti?
Ci prenderemo magari un po’ di vacanza e poi cominceremo a pensare al disco nuovo che teoricamente dovrebbe uscire per il 2006. Nel 2005 molta calma, riflessioni e progetti paralleli.

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L'articolo Africa Unite - Torino, 02-09-2004 di Christian Amadeo è apparso su Rockit.it il 2004-11-17 00:00:00

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