Sushi - Torino, 21-12-2001

Per capire il Sushi-pensiero, quello oscuro e delizioso del secondo album “Un mondo terribilmente volgare”, mi reco direttamente nel cuore di Torino, dove abitano Ale e Otti, rispettivamente tastiere e voce della band. Insieme cerchiamo di analizzare i messaggi della musica e delle parole del loro secondo lavoro, che segue a due anni di distanza “Un leggerissimo disturbo da panico”. Trovo un Ale quasi irriconoscibile per i capelli più lunghi e soprattutto per la barba folta e assente l’ultima volta che ci eravamo visti. E trovo Otti sempre in splendida forma, carina e dolcissima, spontanea e naturale come quando canta.



Per il vostro secondo disco avete scelto un titolo forte, che contrasta con la copertina raffinata, dove traspare anche una certa sensualità. Come l’avete scelto?
Ale: Beh, tutto il disco parla della vita di oggi, delle cose che non ci piacciono, del mondo in cui viviamo e questi argomenti vengono affrontati in maniera molto cruda, tralasciando l’aspetto poetico di certe canzoni, per preferire testi più incisivi. Ci piace parlare di certe cose in maniera diretta e questo lo si percepisce dal singolo (“Fare parte del g.u.”, nda) e anche dal titolo dell’album dove l’usare la parola “volgare” dà l’idea di un impatto forte. E poi c’è il giochino delle iniziali, 1.m.t.v., soprattutto con il “t.v.”, visto che a noi non piace molto la televisione e volevamo far capire, con questo gioco, che la televisione è una delle cose più volgari del mondo. Ti fa vedere il mondo proprio come lo vuole lei, basta prendere uno qualsiasi dei telegiornali della Mediaset per accorgersi delle stronzate che dicono e che sembrano quasi tele-romanzi. Questo è un disco che vuole anche avere un obiettivo molto chiaro cercando di fare capire subito di cosa si sta parlando: è un disco nero, e lo si capisce subito, dal titolo, dalla musica, dai testi, da tutto.

Otti: E anche dalle foto che ci sono dentro, per le quali abbiamo scelto delle parti del corpo che rendono la cosa più cruda…

Sì, però quelle foto sono anche poco chiare. E’ facile fraintendere ciò che si vede e soprattutto ciò che non si vede proprio per il buio che regna sovrano…
Ale: Si, però c’è in prima persona l’essere umano che è la cosa più importante per ritrovare una dimensione ottimale e riavere innanzitutto un buon rapporto con la propria fisicità.

Anche se dai testi sembrate dare più importanza ai sentimenti che alla fisicità, con questa storia d’amore finita male… Ale: Non sono mai storie d’amore. In tutto il disco ci sono soltanto due pezzi che parlano d’amore, che sono “Sono nelle tue mani” e “Non riesco ad essere perfetta”, gli altri possono essere solo interpretati come canzoni d’amore. Tipo “Un pomeriggio di maggio” che non lo è affatto, ma che alla fine dà questa impressione per una questione di linguaggio e di praticità della canzone. Quando scriviamo ci piace riferirci a “te”, cioè parlare con una persona e non cominciare a fantasticare e ad usare frasi ermetiche alle quali poter attribuire un significato. Il risultato sembra una delusione d’amore, ma in realtà non è una delusione verso una determinata persona, ma piuttosto verso i comportamenti del prossimo, una mancanza di fiducia negli altri, non solo nelle storie d’amore, ma anche in quelle di amicizia, di vita sociale, eccetera.

Quindi è un disco da definire “concept”, che segue lo stesso discorso dall’inizio alla fine?
Otti: Beh, sì. L’argomento te lo dice il titolo ed è quello che dicevamo prima e che viene affrontato in tutti i suoi aspetti. Ci sono storie di delusione d’amore e d’amicizia con altri esseri umani, dove però piuttosto di incolpare l’altra persona mi rendo conto che la delusione è un problema mio, che ero io incapace di fidarmi di qualcuno.

Quindi è un dialogo più introspettivo che diretto ad altre persone…
Ale: E’ la decadenza del rapporto con gli altri, nella prospettiva di poter comunicare. In “Vittima della timidezza” ci prendiamo anche le nostre colpe, cioè non è sempre colpa di qualcun altro. Probabilmente non si riesce proprio a parlare, mentre bisognerebbe cercare di farlo, di capirsi.

Musicalmente si sente molto l’influenza del periodo dark-wave degli anni Ottanta. E’ stato così fondamentale per voi?
Otti: Non mi piacciono molto le cose dei giorni in cui stiamo vivendo. Sono più legata alla musica dark-wave perché le ho ascoltate da ragazzina grazie ad Ale, ci sono cresciuta e mi piacciono tuttora.

Ale: Era sicuramente un periodo in cui si sperimentava molto soprattutto nella prima new wave della fine anni Settanta. Poi, come tutti i generi musicali, è stata commercializzata fino ad arrivare ai Kajagogoo, tanto per fare un esempio. Però era sicuramente uno degli ultimi periodi dove c’è stata la sperimentazione delle nuove tecnologie, del nuovo modo di fare musica. Quelli che facevano punk si sono ritrovati ad utilizzare i primi sintetizzatori analogici e hanno creato cose molto diverse. Adesso che sono state inventate altre tecnologie, finalmente di utilizzo comune, tipo la registrazione digitale, i protools, i campionatori, eccetera, spero che vengano utilizzate con lo stesso approccio con cui si erano avvicinati agli strumenti dell’epoca quelli che facevano la new wave. In questo periodo si avvicinano a questo concetto i Radiohead, che stanno sperimentando nuovi modi di fare dischi, senza avere le solite linee da seguire.

Il disco alla fine appare molto elaborato e curato nei minimi particolari. C’è voluto molto tempo per portarlo a termine?
Ale: E’ stato più lungo il processo creativo. Le prime canzoni che avevamo scritto dopo l’uscita di “Un leggerissimo disturbo da panico” assomigliavano ancora troppo a quelle contenute in quel disco e sapevamo che non era una cosa che ci interessava. Prima di arrivare a pezzi come “La fine” o “Il cerchio” è passato un buon anno e mezzo, però la struttura e gli arrangiamenti sono venuti molto naturalmente. Soprattutto in studio c’era sempre la convinzione di “giocare” e non ci siamo accorti neanche per un secondo che stavamo facendo un disco, sembrava solo che stessimo registrando delle cose. Ci sono stati giorni in cui, per esempio, Otti non aveva voglia di cantare quando dovevamo registrare la voce ed allora ci mettavamo ad improvvisare e da lì nascevano altre cose fighissime. E questo è secondo noi il modo migliore di fare dei dischi e che qui in Italia nessuno riesce a fare. Anche tante altre persone che noi stimiamo molto e che fanno musica, quando registrano i dischi “lavorano”: se io devo essere stressato quando faccio dischi allora vado a fare un altro mestiere. Se devo fare dischi preferisco farli con un atteggiamento rock’n’roll, quello che avevano i Beatles ai tempi di Sergent Peppers, cioè giocare, sperimentare e usare qualsiasi roba per fare rumore, suoni, musica.

Bisogna comunque stare dietro a certe leggi dettate dal mercato discografico…
Ale: Certo, ma noi cerchiamo di farlo cercando sempre di mantenere una linea pop, senza rinnegare la forma canzone. Facciamo tutto in modo naturale, senza troppi schemi precisi, in modo stralunato e come ci viene in mente in quel momento. E’ importante anche ciò che ci trasmettono i testi: il nostro disco è scuro perché i testi sono scuri e non è un disco “dark” perché ci siamo affezionati a quelle sonorità.

E contrasta con i colori e la musica più spensierata del primo disco…
Otti: Quel disco è stato un po’ frainteso, perché era solo un modo diverso di vedere le cose e i problemi, con più spensieratezza. Crescendo nella vita inevitabilmente vediamo le cose diversamente: oggi se sono in paranoia mi ci butto e me la godo per poi uscirne, rinascere e diventare sempre più forte. E’ l’unico modo per affrontare i problemi, secondo me.

Ale: A questo discorso si riallaccia il messaggio contenuto del disco, cioè la fine = nuovo inizio ed è il motivo per il quale inizia con un pezzo che si intitola “La fine”, che sta a significare: “immergiti nella paranoia fino in fondo per poi ri-iniziare un altro capitolo della tua esistenza”. Senza divisioni a compartimenti stagni, ogni cosa che finisce ha sicuramente l’inizio di qualcos’altro, quindi non si deve far finta che non esista la tristezza, ma piuttosto prenderla fino in fondo, cercare di capire qualcosa e ricominciare.

E musicalmente quali differenze ci sono tra i due dischi?
Otti: Non lo so, il primo non l’ascolto da parecchio…Mi rendo solo conto che cantavo con tonalità molto più alte e che ora, quando eseguiamo quei pezzi dal vivo, devo abbassarle un po’.

Ale: Sicuramente non rinneghiamo nulla, sono due modi diversi di vedere la stessa cosa, sia dal punto di vista dei testi che dei suoni. Nel primo accompagnavamo un’autoironia con dei suoni autoironici (synth da videogioco, batterie finte, ecc.), mentre nel secondo abbiamo accompagnato la serietà di questo nuovo disco con dei suoni più adeguati. Abbiamo cercato, con il nuovo disco, di sorprendere chi aveva ascoltato il primo e di sorprendere anche noi.

Incuriosisce la vostra scelta del singolo (“Fare parte del g.u.”), che mi sembra un po’ diversa dalla linea musicale generale dell’album e piuttosto difficile dal lato commerciale…
Otti: Per me è quello che più rappresenta il disco per i messaggi che contiene. Abbiamo dovuto un po’ lottare perché quando arrivi alla casa discografica e dici “questo è il singolo!” ti danno del matto. A noi sembra quello che rappresenta meglio il nostro disco, e sappiamo che avremmo potuto scegliere un brano più orecchiabile per mandarlo nelle radio, ma non ci interessava molto.

Ale: Abbiamo la fortuna di avere rapporti con una etichetta indipendente, altrimenti, con una major, non avremmo potuto scegliere quel singolo. Il motivo scatenante è stata una domanda che ci siamo fatti: erano due anni che non usciva niente di nostro e se ci avessero chiesto che cosa stessimo facendo in quel momento, la risposta sarebbe stata proprio quel singolo, sicuramente. Questo singolo è molto diverso dai pezzi del primo disco, è proprio un’altra roba, è quello che sono i Sushi adesso. I prossimi singoli saranno comunque più accessibili e punteranno a promuovere maggiormente l’album.

E come mai non c’è il video di “Fare parte del g.u.”?
Ale: Avevamo intenzione di farlo in tema con il pezzo, che è ispirato da tante cose che non ci piacciono del genere umano ed una di queste è stato sicuramente il G8 di Genova. Avevamo delle immagini di quei giorni per farne un video dove noi non comparivamo ma dove si vedevano solo immagini violente. La cosa non è però stata ritenuta idonea per la televisione dopo gli attentati di New York e Washington e da quel momento le televisioni non hanno più potuto passare immagini cruente, perché se c’è la guerra bisogna che la gente se lo dimentichi e deve pensare solo a “cuore e amore”. A quel punto abbiamo ritenuto di non farlo, perché tanto non ce l’avrebbero passato. E per farne un altro dove c’eravamo noi che suonavamo con i fiori in bocca non ce ne fregava un cazzo.

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L'articolo Sushi - Torino, 21-12-2001 di Christian Amadeo è apparso su Rockit.it il 2002-01-06 00:00:00

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