I Tropea contro tutti: un’intervista a 40 mani e due chitarre

La band milanese ha fatto da cavia nell’esperimento della Better Days School, la nostra scuola di aspiranti reporter. Bombardati dalle domande di 20 cronisti, ci hanno raccontato il nuovo album “Serole” e di quel furgone condiviso con La Sad, hanno fatto un po’ di shitposting e suonato qualche pezzo

I Tropea - foto di Filiberto Signorello
I Tropea - foto di Filiberto Signorello

Il panico si presenta di colpo, quando il mouse alla cattedra smette di funzionare correttamente e, per un clic sbagliato, ci butta fuori dalla chiamata. Nella studio di fronte all’aula si sentono le note ovattate di una session in corso, che poi scopriremo essere di una delle cantanti in gara a Sanremo (ma non vi riveleremo chi), intervallate dalle imprecazioni a mezza voce che volano mentre si cerca di risolvere il problema. Siamo a LePark, hub milanese dove succedono tante cose legate alla musica, tra cui il nostro corso di giornalismo musicale, e manca poco perché arrivino i Tropea, il cui primo album Serole – nome preso dal paesino in Piemonte dove l’hanno registrato – è uscito da qualche settimana, e con l’esperienza di X Factor ormai bella che archiviata.

Sono loro i nostri ospiti di giornata, o meglio, le nostre cavie: con gli studenti del corso – alcuni presenti fisicamente, altri collegati da remoto – proveremo a fare una sorta di intervista collettiva, dove gli intervistatori sono una ventina e gli intervistati appena quattro. Il problema tecnico, quindi, rischia di compromettere la buona riuscita dell’esperimento. Per fortuna la prontezza di Luca, uno degli studenti, dotato di un provvidenziale mouse di riserva, salva la situazione appena prima che la band ci raggiunga in classe.

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Quella che segue è un’ora di chiacchierata in compagnia del chitarrista Domenico “Mimmo” Finizio, spalleggiato dal batterista Lorenzo “Piso” Pisoni, i due più loquaci del gruppo, con il batterista Claudio Damiano che cerca di tenerli in riga e gli interventi sporadici ma puntualissimi del cantante Pietro Selvini (con addosso la maglietta di Marco Castello, l’unico feat. di Serole nel brano Tu credi che). E, visto che i Tropea non sanno stare 5 minuti senza toccare uno strumento, c’è anche l’occasione per suonare un paio di pezzi in una speciale versione unplugged.

Il 12 gennaio è uscito Serole, il vostro primo album. Quante interviste avete fatto da allora?

Pietro: Sicuramente più di quante ne abbiamo mai fatte, diciamo almeno una trentina.

Lorenzo: Nel frattempo abbiamo imparato a parlare, ma anche a stare zitti.

Claudio: Nello specifico, io sono uno che sta sempre zitto, intervengo solo per salvare la situazione o per tagliare corto: quindi sappiate che quando parlerò è per troncare!

E chi è il più stanco di voi di queste interviste?

Claudio: Secondo me per stancarsi ci vuole ben altro…

Pietro: Ci vuole Ben Affleck… (il momento shitposting è ufficialmente iniziato, nda)

Qual è invece la domanda che non ne potete più di sentire? Vi prego, diteci che non è questa.

Tutti, in coro: “Perché vi chiamate Tropea?”.

Pietro: È una domanda legittima di per sé, ma ormai abbiamo dato diecimila risposte diverse e basterebbe aver fatto un po’ di ricerca prima per conoscere la risposta.

Claudio: Personalmente, l’anno scorso in particolare ci facevano un’altra domanda che mi faceva particolarmente incazzare: “Com’è Ambra?”. Cioè, che cosa vi dovrei rispondere?

Rimanendo sul nome: vi chiamate come una città, il vostro disco pure. Ci fate una mappa dei “luoghi dei Tropea"? Quali sono quelli più importanti per voi?

Domenico: Per me è Ventimiglia. È una città in cui in estate ho preso in affitto per un mese una casa da Marco Previdi, il fotografo che ha scattato le foto delle copertine di Tu credi che e Discoteca, proprio a Ventimiglia. Lui l’avevo conosciuto al MI AMI e gli avevo detto che stavo cercando una sistemazione per staccare da tutto e stare per un periodo da solo, al mare, per lavorare al disco, lui mi ha proposto di andare là, dove aveva un appoggio per me. E così ho fatto.

Lorenzo: Però è interessante come il Picchio (bar di fiducia dei Tropea a Milano, nda) sia stato dipinto da Domenico in Discoteca. In realtà il pezzo non parla di una discoteca vera e propria, perché non siamo gente da discoteca noi, ma parla di un luogo in cui vai tutti i giorni a fare sempre la stessa cosa, a divertirti senza divertirti davvero. Ognuno ha un po’ il suo.

Claudio: Può essere anche casa tua o tutti i caselli autostradali che attraversi in tour. Molte cose nascono in tour, e lì più che i luoghi, vivi dei momenti. Poi abbiamo luoghi fissi, principalmente a Milano. Se non stiamo suonando, siamo al Picchio. O siamo a Serole a registrare.

Domenico: Io vorrei nominare anche New York e Los Angeles. I nostri file hanno viaggiato prima dall’Italia verso Los Angeles, dove Marco Sonzini ha fatto il mixaggio. Tra l’altro, Marco Sonzini mi è venuto a trovare anche a Ventimiglia, ci siamo conosciuti lì. Lui è un ingegnere del suono strepitoso, ha lavorato all’ultimo disco dei Rolling Stones, all’ultimo di Post Malone… Si è appassionato al nostro progetto e ci ha lavorato venendoci incontro anche sul posto. E l’altra persona che ha seguito il progetto dopo che l’ho contattato su Instagram è stato Josh Bonati da New York. Lui si è occupato del mastering di Salad Days e Another One di Mac DeMarco, e anche di un paio di dischi di Sufjan Stevens, quindi per noi era un punto di riferimento. Mi piace pensare che la nostra musica abbia viaggiato in USA prima di rientrare in Italia.

 

In generale, parlate spesso di luoghi dell’anima. In che città vi sentite in questo momento?

Domenico: Pasadena. (ridono, nda). Risposta da shitposting, ma consapevole. Gallipoli non è che l’avessi scelta dopo attente valutazioni da un elenco di città in cui non ero mai stato. Quindi così come abbiamo fatto con Gallipoli, perché non scegliere anche Pasadena?

Pietro: Sarà il prossimo singolo?

Claudio: Comunque io mi sento a Milano, non so voi.

Domenico: Sei a Milano Est!

In un angolo della sala dell’intervista c’è una chitarra. “Possiamo prenderla quella?”, chiede Mimmo. Poco distante ce n’è un’altra, adocchiata da Piso. “Le suona tutt’e due Pietro!”, scherza il bassista con il suo cantante, il quale per la prima volta in questo tour suonerà anche la chitarra.

Il live set unplugged è improvvisato. Si spostano due sedie, si recupera un plettro. Piso usa a mo’ di basso la chitarra classica, Mimmo si prende l’acustica e Pietro per stavolta solo la voce; Claudio rimane nelle retrovie a osservare. L’atmosfera è rilassata ma frizzante; qualcuno chiede una vecchia ballad, Which One, e a Mimmo l’idea non sembra dispiacere affatto, a c’è il nuovo album da promuovere. Quindi first things first; o come direbbe Mimmo: “facciamo le cose fatte bene”.

In queste versioni acustiche e prive di una vera sezione ritmica, i pezzi vengono riportati all’essenziale, e perdono la pienezza del sound del disco. Ma i piedi battono, le chitarre suonano e gli sguardi sono subito complici: funziona anche così, piace a loro e piace a chi ascolta. Discoteca, secondo singolo teaser dell'album, suona anche leggermente più veloce della versione in studio. “Ogni sera la discoteca, no, non voglio proprio far niente”, Pietro misura la voce per non sovrastare gli strumenti. Ma il groove tira dritto, e il brano si chiude come in una jam. Ora si può riprendere con la chiacchiera.

In un’intervista avevate detto che tutti i featuring dei vostri sogni sono tutti morti. Marco Castello come sta? 

Domenico: Non avete visto che è sparito dai social? È rimasto chiuso fuori da Instagram per qualche giorno, a parte questo sta bene.

Quanto e quale contributo ha dato Marco a Tu credi che? Cosa gli “invidiate”?

Domenico: Il brano è di Pietro che lo ha scritto durante una delle sue fughe in Sicilia. La seconda strofa ci convinceva ma, per il sapore della canzone, a me e Claudio è venuta l’idea di coinvolgere Marco. Devo essere sincero, in futuro se dovessimo collaborare ancora vorrei adottare un approccio più strutturale. In questo caso lui si è ritrovato la canzone con uno spazio da dipingere che ha riempito dando così un contributo fondamentale; la prossima volta vorrei partire da zero (ride) 

Lorenzo: Marco ha un modo di concepire le melodie davvero invidiabile.

Domenico: È un grande del nostro tempo, una penna da salvaguardare e sono sicuro farà la strada che merita. Mi piace anche il fatto di avere rispettivamente delle qualità diverse che possiamo combinare musicalmente. 

Pietro: Gli invidio tutte le skill culinarie.

E, visto che siamo in zona Sanremo: con chi collaborereste tra i concorrenti in gara all’Ariston?

Pietro: Be’, noi condividevamo il van con La Sad…

Lorenzo: Il driver ci riportava le storie dei loro weekend: nottate da panico, in giro fino alle sei del mattino, un sacco di gente. Questo succedeva in hotel, dopo le nostre date con noi che a mezzanotte e mezza già rientravamo in camera. 

Pietro: …un confronto impietoso.

Domenico: In realtà, abbiamo già collaborato con i Santi Francesi. Nei miei hard disk ho un EP registrato con tutto il cast nel loft di X Factor, da cui sono uscite delle hit clamorose. Nelle prime settimane c’era un fermento culturale in cui noi, meravigliosi artisti, ogni giorno sfornavamo cose incredibilmente divertenti.

Claudio: Poi questo fermento si è affievolito con il loft che di settimana in settimana si spopolava e la pressione nella trasmissione aumentava.

 

Serole contiene album che nascono già a partire dal 2017. Cosa direbbero i Tropea del 2017 a quelli di oggi e cosa direbbero i Tropea di oggi a quelli del 2017? 

Lorenzo: “Complimenti raga”.

Claudio: Parlo per me, il Claudio del 2017 avrebbe detto a quello del 2024 tipo: “Ma che cazzo hai fatto a X -Factor?” e poi: “Yoooooo!”. E quello del 2024 direbbe a quello del 2017: “Be', mi sono divertito, è stata una figata”.

Domenico: C’è da notare già che il Claudio del 2017 è letteralmente volgare, quello del 2024 è pacato. Cioè, non gli dice: “Che cazzo dici? Sono più grande, stai zitto e porta rispetto”.

Lorenzo: Tra l’altro il Claudio del 2017 ha bypassato che abbiamo fatto un album dopo 6 anni.

Claudio: Giusto! Allora aggiungo che Claudio del 2017 direbbe: “Oh, finalmente All My Life ce l’avete fatta a farla uscire, che cazzo! È dal 2017 che dici che ti piace sta canzone e non l’avete mai suonata né registrata, finalmente!”.

Domenico: Al Mimmo del 2017 direi di godersi intanto tutto quel momento che c’è stato all’inizio, senza correre, tutta la fase in cui passi dall’essere sostanzialmente qualcosa di inesistente a qualcosa che è presente su delle piccole mappe, magari metti da parte anche delle mascherine. Non so quello del 2017 cosa potrebbe dirmi oggi, perché in realtà io mi sento ancora abbastanza lì. È qua, sta parlando adesso. Forse direbbe: “Guarda che gli esperimenti che hai fatto per esempio sulle canzoni, sulle prime canzoni in Italiano, ecco, non farli! Tienile in inglese le canzoni.” E io gli risponderei: “Però son stati necessari, perché adesso ho capito!”.

 Ora tocca a Parole, con Pietro e Mimmo che si dividono le strofe. Pietro canta tutto ad occhi chiusi, incluso il ritornello prima in italiano e poi in inglese: il pezzo funziona, il doppio idioma non lo appesantisce. C’è anche il tempo per il bridge con mini-solo acustico di Mimmo; per poi chiudere dolcemente, con un accordo sospeso.

Un giornale studentesco di Boston ha tradotto un articolo su di voi. Qual è la prima città straniera tra i vostri ascoltatori di Spotify? E quale sarebbe la Tropea straniera?

Pietro: Sta cosa di Boston non la sapevamo neanche noi.

Lorenzo: E la prima città è... Bostooonnn!

Claudio: Comunque è Berlino la prima. Berlino - Zurigo - Perugia.

Domenico: Il famoso asse… Avrebbe senso Seattle, perché è l’unico luogo di cui sappiamo dove c’è stata la trasmissione della nostra Musica in Radio, su KEXP.

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Be’, avevate detto in un’intervista che il vostro sogno sarebbe stato di suonare da KEXP. La vostra performance live preferita di quelle della radio?

Claudio: Jovanotti? (Tutti ridono, nda)

Domenico: A me è piaciuta moltissimo quella di Ty Segall ed Emotional Mugger (The Muggers, nda) se non sbaglio, in cui a un certo punto mette un cartone sulla lingua a Cheryl, la DJ... bellissimo. C’è lui con ‘sta maschera da bambino che canta e la sua band che sembrano degli scienziati pazzi da laboratorio. Sennò quella dei Growlers… Quella di Mac DeMarco pure è stata fondamentale, in cui ha Snoopy e il cappello di paglia. Senza quella lì penso non sarebbero esistiti nemmeno.

Lorenzo: Sì, fra l’altro ne ha fatte due. Ce le guardavamo nel ‘16-17 a casa vecchia di Pietro e dicevamo (e lo diciamo ancora): “Ah, sarebbe una figata andare lì.” Nel frattempo abbiamo incontrato Kevin Cole, DJ della radio, a Linecheck nel 2019. Io e Domenico lo vediamo passare. “Oh, Kevin Cole! Dobbiamo placcarlo”.

Siete riusciti a parlarci?

Domenico: Mi sono appostato a Linecheck. Lui era lì, prendeva appunti e guardava i panel. Io ero lì fuori, in attesa. A un certo punto finalmente è uscito e io gli ho attaccato la pezza dicendogli che ero un suo fan. Al che lui mi ha chiesto se ero un musicista, noi dovevamo esibirci quella sera e quindi l’ho invitato al concerto. Dopo la chiacchiera sono andato dalla nostra manager del tempo e le ho detto: “Hai un solo compito: assicurati che al concerto ci sia Kevin Cole”. Quando siamo sul palco e sitamo per iniziare a suonare lo vediamo entrare. È stato incredibile, alla fine era anche gasato si è voluto fare la foto.

Pietro: Tra l’altro ci ha sentito anche perché abbiamo iniziato un’ora in ritardo… (Tutti ridono, nda).

In Gallipoli c’è questo verso: “Ho sete di una sete che non ho”. Quanto vale questa frase applicata all’album?

Domenico: Personalmente credo che Serole abbia sfamato più che dissetato. Quindi magari la sete rimane ma almeno fame non ne abbiamo. Diciamo che siamo per un po’ a posto.

La band chiude esaudendo la richiesta del pubblico. “And realize you’re just a dream”, faceva il bridge di Which One, pezzo del 2019, e i Tropea partono da lì. È un fuori programma, le mani cercano gli accordi giusti sul manico della chitarra.

Cinque anni non sono un tempo lungo, ma lo diventano se di mezzo c’è una pandemia; e ancora di più se sei nei Tropea, passati in pochi mesi da gruppo indie rock milanese a band nazionale. “Which one is the good side, and which one is the wrong?” si chiedono nel ritornello, una domanda che magari si sono fatti spesso riguardo la loro esperienza televisiva. Le voci diventano una e le emozioni circolano, ma finisce tutto in un attimo, in levare. I Tropea ci sono riusciti, hanno talento, ci hanno fregato: alla fine l’unico lato giusto è quello dove si suona. Anche su un non-palco, dopo un’intervista collettiva.

L'intervista è stata interamente realizzata dagli studenti e dalle studentesse del corso di giornalismo musicale della Better Days School: Annalisa Napoli, Giuliana De Luca, Daniele Bianchi, Alessandro Di Rocco, Chiara Pitrola, Claudio Spagnoli, Sara Pederzoli, Simone Prandin, Giulia Salini, Rosaria Barbarotto, Luigi Bonacina, Emanuele Marrocco, Raffaele La Manna, Giuseppe Salemme, Luca Bajardi, Viviana Mastropietro, Martina Lepore, Ilaria Greppi, Caterina Provenza, Giuseppe Gualtieri

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L'articolo I Tropea contro tutti: un’intervista a 40 mani e due chitarre di La classe della Better Days School è apparso su Rockit.it il 2024-02-01 10:00:00

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