Il dolore e la redenzione dei Turin Horse

Per il nome della propria band i torinesi Enrico e Alan hanno omaggiato un film ungherese del 2011, che come la loro musica va dritto all'essenza delle cose, alle viscere. La conferma arriva con "Unsavory Impurities", il loro nuovo disco uscito per la Reptilian Records di Baltimora

Alan ed Enrico, i Turin Horse
Alan ed Enrico, i Turin Horse

God's Country dei Chat Pile da Oklahoma City è stato uno dei debutti più esaltanti dell'infelice epoca (non solo musicale) che stiamo vivendo. Ecco, quella Reptilian Records di Baltimora che per prima li scovò e se li è accaparrò, si parla oramai di tre anni fa, ha da poco messo sotto contratto una formazione torinese, includendola nel suo catalogo. Una bella notizia e un gustoso biglietto da visita per i Turin Horses. “Il gruppo è nato a Torino", mi accolgono i ragazzi, "quindi ci siamo trovati a passeggiare per i luoghi dove si svolge la leggenda che rappresenta il punto di partenza del film di Bela Tarr del 2011 (The Turin Horse, appunto). Ci piace perché in qualche modo circoscrive il punto di partenza da cui osserviamo la realtà che ci circonda. Il cavallo inoltre è un simbolo legato alla visceralità quindi ci è sembrato perfetto”.

I due Turin Horse si sono recentemente palesati, al termine di un marzo devo dire bello pungente sotto il profilo delle bastonate, con Unsavory Impurities (Reptilian Records/Invisiple Order, 2023) dopo un EP omonimo che nel 2018 aveva sconquassato la vita dei più attenti (qualcuno li ricorderà in quella piccola follia chiamata Notte Night, nel quartiere San Lorenzo a Roma). E a proposito di bastonate, nella biografia dei Turin mi ha fatto sorridere come genere proprio l'etimo “sberle”. “È ovviamente uno scherzo", mi dice Enrico. "Fortunatamente in modo piuttosto naturale dal punto di vista creativo non siamo portati a ragionare per generi musicali. Se una musica ci piace e finisce per essere parte della nostra vita, non importa da dove viene. Dobbiamo già mediare con la società per buona parte della nostra vita quotidiana e ci piace pensare che la musica sia la nostra ora d'aria”. 

Fin da subito i Turin esprimono una potenza e un'aggressività già appurate dal fedele ascoltatore seppure restando sempre sorprendenti. Una schicchera chimica per le sinapsi come quella fetta di cetriolo all'interno del panino della famosa catena che tu sai che c'è eppure ogni volta ti stupisce. Allo stesso modo, pure l'ascoltatore abituato a un suono scarno e a ritmi sincopati che si dissolvono e risolvono in un distensivo rilascio di (diciamo) ambient-industriale troverà (ehm) pane per i suoi denti. Soprattutto i Turin Horse trasudano urgenza oltreché voglia di suonare. Che è, per loro stessa ammissione, gioia di vivere. “Un'esigenza più intima di cui la musica è solo una conseguenza”.

Al netto della veste grafica che ricorda in un certo modo il Demorgone – ma volendo anche la copertina del primo Zeus!, con i quali non hanno in comune solo la line-up ridotta, così come coi Deflore, ma anche l'umore) – e un amore neanche troppo celato per gli Unsane e Eyehategod. Le esecuzioni sono estremamente precise, chirurgiche, (ci saranno almeno due mostri sul palco) ma sembrano provenire da un folle amore per la sperimentazione e, mi prendo la responsabilità, per le jam, laddove il brano si crea da solo, non è studiato a tavolino, e dove gli sghiribizzi e le manie del singolo prendono corpo, anche attraverso l'uso di altri strumenti: per esempio il sax baritono di Alessandro Cartolari, o un arsenale di campioni, synth e cibori realizzati da loro stessi. Il tutto è generalmente modellato e guidato dal frenetico e inarrestabile lavoro di batteria di Alain Lapaglia, Lon nei Morkobot fino a Morbo (Supernaturalcat, 2011).

Nel secondo quinquennio degli anni Zero, i Morkobot per un po' diventarono una sorta di leitmotiv nelle vite di parecchia gente: il lavoro, i pranzi a casa dei genitori e i concerti dei Morkobot, in genere in posti medio-piccoli o ai free festival (personalmente anche in una stalla in disuso nelle campagne ragusane). Un incontro quasi fisso, tipo una messa della domenica ma officiata da tre brutti ceffi armati di due bassi e una batteria, dediti all'ennesima  esaltante variante di stoner e doom. E che dire della fiaba che ha visto protagonista il meno noto Enrico Tauraso, in realtà già nel culto totale Dead Elephant, il cui apice fu Lowest Shared Descent e nei quali per un breve periodo (se non erro) suonò anche Alain, diventato cantante e chitarrista con un musicista che di sicuro avrà visto sopra e sotto il palco miliardi di volte in quegli anni?

Posato, ma non posatissimo
Posato, ma non posatissimo

E non finisce qua. È doveroso aggiungere che Enrico vince in toto la sfida, anche se sfida non c'è mai stata, e contribuisce con la sua personalità, con il suo canto, fatto ora di tensione drammatica ora di urla omicide, alla creazione del marchio di fabbrica dei Turin Horse. L'abilità e la sicurezza complessiva dei due fa sì che l'intero Unsavory Impurities sia stato registrato e mixato in soli sei giorni e possa permettersi pezzi come Sixty Millions Blues (forse la migliore canzone del disco, che il gruppo potrebbe decidere di farla diventare il singolo e girarci anche un video).

La band live
La band live

Ci vedrei bene qualcosa alla Vote With A Bullet dei Corrosion Of Conformity, tutto deformato con quelle immagini tipo fisheye, con riprese dalla televisione come andava nei primi ’90 ma che oggi e con loro avrebbe tutto un altro impatto. Oppure The Regret Song e Blissed Out che sono allo stesso tempo un omaggio al sound degli artisti citati e una lettera agli amici di sempre, tanto per riaffermare il credo nell'unità tra gruppo e fan tipico di realtà come la loro.

I Turin Horse sono sempre convinti assertori di un approccio “crossover” al rock e le complicate miscellanee qui inserite ricordano a volte dei Godflesh in salsa Black Flag, forse meno politicizzati ma non meno incazzati, tesi o in battaglia, pari nel gusto e nell'incessante ricerca delle combinazioni e dei colpi giusti. “Al di là dei generi musicali", mi confida Alain, "sinceramente la sensazione di chiusura e autoreferenzialità è molto grande. I musicisti più o meno maliziosamente hanno capito che devono omologarsi, altrimenti nei club è difficile suonare. Quindi la mia impressione è che si ha paura di sbagliare ed è più conveniente il manierismo perché paga di più. Questo accade anche perché gli addetti ai lavori in buona parte per diversi anni hanno spinto musiche di dubbia qualità per interessi extra-culturali, con quell'attitudine sensazionalista che raramente è basata sui contenuti”.

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Per finire, ciò che più mi piace di gruppi come i Turin Horse è che, pezzo dopo pezzo, fino alla conclusiva, immensa Tear Off The Stiches, si ha come l'impressione che il loro fuoco non si spenga mai, che il loro armeggiare dietro gli strumenti alla ricerca del proprio personale nirvana espressivo (Necessary Pain, citandoli) sia quasi eterno, quasi simile a una condanna, o a una benedizione. Fate vobis.

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L'articolo Il dolore e la redenzione dei Turin Horse di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2023-03-24 09:40:00

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