Il viaggio senza fine dei Giöbia

La band milanese suona assieme da quasi 30 anni e da parecchio ormai rappresenta uno dei progetti psichedelici più longevi, solidi e affascinanti in circolazione. Abbiamo ascoltato il loro nuovo disco, "Acid Disorder", e ci siamo ricordati di ringraziarli per questi anni di buona musica e passione

I Giöbia nella foto di Stefano Masselli
I Giöbia nella foto di Stefano Masselli

Siamo nel 2013 e c'è questa parola che è tornata molto di moda: psichedelia. La mia amica Sara la usa in continuazione, quasi fosse un intercalare. Non ho mai capito da dove nasca questa sua fissa – se dal debutto dei King Gizzard dell'anno prima o, più prosaicamente, dall'ipnotica You're Gonna Miss Me dei 13th Floor Elevator posizionata all'inizio del film Alta Fedeltà. Sta di fatto che ci apre anche una pagina Facebook che amplifica la mia percezione di quanto la retromania psichedelica di quell'anno sia soltanto una grandissima cazzata: ben lontani gli anni in cui Rockerilla si imbarcava nel Somerset per conoscere gli Ozric Tentacles, coniugati al passato onnipresente di Spacemen 3 e Loop e al trapassato di Doors e Pärson Sound, nella realtà di quel tempo è tutto psichedelico, basta sentirlo tale. Dai veri trip dei Pink Floyd al country di Ted Lucas, alla luce delle visioni cosmiche di Klaus Schulze e dello shoegaze degli Slowdive, in fila col jazz di Sun Ra, i paisley underground dei Green On Red, l'indie dei Radiohead, il folk di Nick Drake e l'electro degli Orb... e allora metteteci – che so – pure gli Smashing Pumpkins!

Infatti qualcuno li postò e me ne andai dal gruppo con una sfuriata morettiana. Vi lascio immaginare, quindi, i miei sentimenti contrastanti quando mi propose di andare a vedere i Giöbia al Circolo degli Artisti, dopo anni di Black Mountains e Dead Meadow visti senza che di lei e del suo confuso fan club ci fosse l'ombra e, soprattutto, ora che il “coglione” senza logica sembravo essere io. Perché i Giöbia, diciamolo subito, sono una band con una visione, con uno scopo e questo è già un grande punto di merito. “Il nostro intento", mi dice Stefano "oggi e alle origini del progetto, è quello di fare quello che ci appassiona, sempre a modo nostro: suonare e mettere nella musica quello che siamo e che sentiamo, senza compromessi, senza piegarci all’hype del momento, con un approccio molto personale e con la volontà di mantenere nel tempo un sound a suo modo unico e riconoscibile”.

Li avevo visti a Milano, e già allora si vedeva il progetto al di là di una dirompente presenza scenica. Il motore trainante, Stefano Basurto, sembra davvero uscito da Dig!, il documentario di Ondi Timoner sull'imprevedibilità della vita di Anton Newcombe e dei suoi Brian Jonestown Massacre. La sua è la stoica pervicacia di chi vuole rifondare la psichedelia US e krautrock della natura più varia, creando un sound pronto per San Francisco anche se va a suonare a Montebelluna. Non a caso è lui stesso a dirmi questo: “La psichedelia è uno stato della mente, una via di fuga dalla realtà con i suoi limiti, quel non-luogo in cui poterci esprimere senza vincoli e potere finalmente essere noi stessi”.

Esemplificando, già da Hard Stories (Jestrai, 2010), quando ancora la genuinità d'intenti del gruppo doveva passare da la cover di Are You Lovin' Me More (But Enjoy It Less) degli storici(zzati) Electric Prunes, questa band era un incrocio polistrumentale di tradizione neo-psichedelica alla Black Angels, raga lisergico alla Kula Shaker e il roboante impatto dei Blue Cheer al massimo livello. Ma i Giöbia sono efficaci fin dal debutto Beyond The Stars (Ethnoworld, 2004) e forse lo sono stati da sempre, fino dalla loro embrionale nascita dieci anni prima, nel 1994, perché eludono da sempre le trappole del già sentito ed è come suonassero a due livelli.

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Per capirci, mentre certe porzioni si nutrono di inscalfibile potenza heavy-psych dettata da una strumentazione canonica altre sono più cinematografiche, libere di ricamare multistrati di suoni di Farfisa e tastiere varie, prima per merito dell'atomica Saffo Fontana, e ora di Melissa Crema (con Stefano anche nei La Morte Viene dallo Spazio), e di theremin e sitar e archi... e ci siamo capiti. La struttura è sempre articolata, che non vuol dir barocca perché l'impatto e l'immediatezza dell'ascolto non vengono mai meno. Quindi se Introducing Night Sound (Sulatron Records, 2013) si fa strada con un esoterismo orientale più lisergico, diverso dalla “psichedelia occulta”, grazie all'uso del bouzouki, Plasmatic Idol (Heavy Psych Sounds, 2020) sembra imboccare la stessa strada per poi dirigersi invece, grazie alle chitarre elettriche dodici corde e organi vintage, verso i Goblin, se non altro nel richiamare una colonna sonora sognante e inquietante allo stesso tempo.

Nel mezzo, Magnifier (Sulatron Records, 2015) è invece più erede degli Hawkwind; quindi lisergico, melodico, saturo di chitarre e alterazioni percettive ma in altro modo ancora. “Giöbia è la nostra essenza", mi confermano Stefano e Melissa, "una creatura che cambia forma e aspetto, ma che sotto la superficie rimane ciò che è sempre stata: la parte oscura dentro di noi che prende voce e si traduce in suono”. Dopo lo split chilometrico con i Cosmic Dead da Glasgow (Heavy Psich Sounds, 2021), è di questi giorni l'uscita del nuovo Acid Disorder (Heavy Psich Sounds, 2023) che sembra confermare la visione sia compita che temeraria di cui parlavo.

La band scattata da Stefano Masselli
La band scattata da Stefano Masselli

Una sorprendete prismaticità è la dominante del nuovo e sesto lavoro (escludendo il Live Freak del 2016, i CDr e i piccoli formati) dei milanesi. Come accadeva nei primi anni Settanta, quando un album di rock psichedelico era attraversato dalle atmosfere più diverse e ciascun brano era parzialmente differente rispetto all'altro, ma alla fine tutto si riconciliava con tutto e, nei nostri tempi frenetici, pericolosi e paranoici, ogni briciolo di quiete e costanza dovrebbe essere valorizzato al massimo in mezzo a un oceano di rumore e delirio.

Un sole acido qui cancella le ombre dei lavori precedenti dei Giöbia – ombre nel senso di parti darkeggianti e sperimentali (mentre scrivo penso a Silently Shadows piuttosto che Far Behind...). C'è in Acid Disorder una parte solare, puro sciame cosmico che corre verso l'infinito. Così com'è presente una incomprimibile presenza heavy psych, tutta da scoprire. Il punto di inizio è Queen Of Wands, una danza spaziale, fresca come un mattino su Orione, a patto che si abbia la capacità d'immaginarla; canzone che si collega alle voci di sirene della successiva The Sweetest Nightmare, con sciabordii interstellari e chitarra 70s, a dipingere gli azzurri fondali psichedelici, e fa il trittico con Consciousness Equals Energy, un opus di spirituale natura (pesantemente) psichedelica.

Tra questi flussi celesti, si inserisce la sostanza rocciosa di una Screaming Souls, con un attacco quasi motörheadiano (Paolo, fratello di Stefano e bassista, è un inguaribile rickembackeriano), pur tra tastiere fiammeggianti. Poi arriva Blood Is Gone che riporta alla mente la pezza dei Pantera quando rifacevano i Sabbath ma più sul crinale acido dei Tiamat di Wildhoney e infine quella che è già tra le favorite della raccolta, vale a dire Circo Galattico, che non vedo come un omaggio a Federico Fellini (come letto sul serio in giro con una fantasia strabordante che veramente ve lo meritate Sordi!) ma come un prolungamento di quello Space Ritual Road Show degli Hawkwind che tentava di creare un'esperienza audiovisiva completa e che molto aveva a che fare con l'idea di musica delle sfere: una prova che comprendeva ballerini, visual, spettacolo di luci di Liquid Len e tanto altro.

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Magari ci riuscissero un giorno anche loro. “Circo Galattico è un titolo stravagante" mi racconta Melissa, "sattamente com'è poi il brano a cui dà il nome: irriverente ed eclettico e fanciullesco, ma in fondo anche enigmatico e sinistro. Le sonorità tradiscono la nostra inclinazione verso il rock progressivo italiano, motivo per cui ci è sembrato appropriato mantenere il titolo in lingua originale”.

In Line fa da apripista alla canzone che dà il titolo al disco e che, come prevedibile e come in passato (“Ci piace l’idea che il titolo possa essere l’incipit dei brani in esso contenuti e che quindi possa in qualche modo riassumerne il significato. Un disco è come un libro: un titolo appropriato invoglia alla scoperta del contenuto; per noi accade lo stesso con la musica”), riassume l'ascolto complessivo in poco più di sei minuti intrisi di spiritualità distorta e psichedelia; sorretta da un groove sornione benché quasi indolente nel sui jangle spaziale, il pezzo incarna alla perfezione il Manifesto musicale dei Nostri, coniugando al lato ricercato e cinematico quello più atomico ed heavy.

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Senza reinventare il rock dalle radici, si potrebbe dire di questo nuovo album dei Giöbia, con una visione a 360 gradi della materia trattata che li fa a buon titolo ritenere da almeno dieci anni uno tra i più completi e affascinanti psychedelic-act in circolazione, che c'è ancora una possibilità per la parola “psichedelia” di significare qualcosa di concreto, reale, manifesto, seppure in un caleidoscopio di varianti ma con una propria integrità di fondo. E scusate se è poco

 

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L'articolo Il viaggio senza fine dei Giöbia di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2023-04-27 23:31:00

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