Ominostanco - Virgin (Roma), 20-05-2004

Roberto Valicelli (in arteOminostanco) ci parla del suo secondo disco, delle sue vicissitudini e di come lui stesso intenda la musica,propriae di altri.



Qualcuno ti ha considerato la colonna sonora della cocktail generation. Trend e fenomeni di costume a parte, che ne pensi?
Dipende da cosa si intende per cocktail. La cocktail generation per me non esiste. O meglio: esiste, ed è abbastanza connotabile in una fascia d’età, più o meno inscrivibile in quella che ho io, cioè 40 anni e anche un po’ prima. La considero musica divertente e poco impegnativa, ma non mi riconosco affatto nel fenomeno lounge e cocktail. Quello che faccio è altra musica e non c’entra assolutamente nulla. Di certo, attingo dagli stessi generi da cui attinge anche la lounge: la bossa, la musica brasiliana, la musica d’intrattenimento da hotel… ma non mi sento assolutamente lounge e quindi colonna sonora di questo fenomeno!

Il tuo nuovo album è un meltin’ pot di svariate sonorità: soul, lounge, elettronica, funk, jazz, trip-hop, dub, citazioni cinematografiche, visioni infantili, collaborazioni con diversi voci e musicistiinsomma, sembra che ci sia un po’ di tutto. Puoi dirmi, allora cos’è che non c’è, o cosa il tuo album ‘non è’?
Bella domanda, mi piace. Quello che non c’è è quello che ci sarà prossimamente. Questo é un disco ‘di chiusura’, poiché con quest’album - ispirato alla mia infanzia - termino un mio cerchio personale. Nel disco sono presenti citazioni di 45 giri ascoltati quando ero piccolo: dischi dei miei genitori, cose trovate dalla mia cuginetta, piuttosto che quelli reperiti nel mercatino. Sono presenti svariati elementi: da Richard Anthony a Peppino di Capri, passando per Little Tony, i Beatles, James Brown, Elvis e cose dei primissimi ’70. All’epoca, avevo 6/7 anni e passavo pomeriggi interi in compagnia dei miei mangiadischi, ascoltando anche dieci volte di fila lo stesso vinile, imparandone ogni singola intonazione, emozionandomi ogni volta ad ogni singolo passaggio.

A mio avviso “La La La” è un disco estivo, se vuoi elegante e sicuramente melodico, soprattutto rispetto al primo album decisamente più elettronico e basato più sui campionatori. Quindi, ciò che manca qui è il tocco del ‘just-for-fun’, una ritmica semplice e scanzonata su cui ballare e non pensare. Sebbene questo disco sembri semplice, presenta molto lavoro dietro, con numerose stratificazioni interne; per farti un esempio, ho preso la voce di Marilyn e ne ho messo magari soltanto un LA... ma non è un caso che quel LA si trovi proprio in quel punto. Insomma, si tratta di un lavoro curato in maniera quasi maniacale.

A quanto pare il tuo “La la la” te lo sei sempre portato dentro, quasi fosse questo il tuo vero esordio. Perché è venuto alla luce solo ora e non prima?
Mi sarebbe piaciuto anche prima, ma gli editori non sono lì che aspettano solo te.... questo disco è ‘adesso’ perché oggi ho un percorso. Lo strumento a cui sono più affezionato è la voce - è un’espressività che ho dentro da sempre e il mio percorso è ritornare a cantare.

Il primo cd era molto più strumentale rispetto a quest’ultimo, anche se ho avuto un timido approccio vocale anche sul primo singolo, “5 seconds”. Quella voce, così da signora, ero proprio io, realizzato a casa con un piccolo campionatore.

Ti camuffi per paura di mostrarti?
Sì, forse sì. In effetti anche nel secondo album faccio solo dei cori o spesso li lascio fare ad altri; ho molta timidezza nei confronti dello strumento vocale e solo ora sto cercando di acquistare sicurezza in questo senso.

Quest’album è molto nostalgico, ad iniziare dal titolo (perfetto, dall’evidente legame ai ritornelli delle canzonette dimenticate e gioiose).

Mi viene da chiederti: non aver vissuto abbastanza il passato o desiderarlo ancora per riviverlo? Che rapporto hai col presentee col domani?
Sono sempre stato molto legato alla mia famiglia, una cosa bellissima e allo stesso tempo anche un’àncora. Non sono andato a vivere all’estero per stare vicino alla mia famiglia e sono venuto a vivere a Roma dopo che è morta mia madre, con un grande senso di colpa verso i miei fratelli e verso mio padre. Ho un bellissimo ricordo della mia infanzia, tra boyscout e campeggi passati a suonare la chitarra, ma ricordo che stavo anche tanto male; l’adolescenza è stata angosciosa e terribile. É paradossale, ma solo ora che ho 40 anni inizio a distaccarmene, a lasciare indietro le cose, a fregarmene, a considerare la vita mia e di nessun altro. Per questo “La la la” è il disco della chiusura di un cerchio.

Per quanto mi riguarda, vivo molto il presente. D’altronde non puoi fare questo mestiere senza vivere il presente, poiché sei sempre in bilico: oggi ti va bene domani no... non sai mai cosa aspettarti. Fare musica in Italia è estremamente complicato: noto che sei trattato male un po’ da tutti il che richiede molto equilibro e consapevolezza - dalle nostre parti permane fisso il pregiudizio verso i musicisti e chi opera nel campo.

Al futuro invece ci penso con un po’ angoscia; sarà l’età, siccome dicono che a 40 anni dovresti essere nel pieno della virilità intellettiva ed espressiva, eppure tu ti senti come un bimbo. In realtà sono sempre stato un positivo di indole e non posso che aspettarmi cose piacevoli, anche perché se non lo fossi stato non avrei deciso a 33 anni di fare questo mestiere. Sette anni fa mi sono chiesto cosa volevo fare davvero da piccolo…e perché nasconderlo, io ho sempre sognato il palco, il successo. E così, ho deciso la mia strada... sarei stato uno stupido a non seguirla.

Molta della musica che hai scritto è strettamente legata ad un immaginario che potremo definire ‘cinematico’, evidente anche nelle tue collaborazioni col cinema. Continuerai a lavorare in questo mondo? Per quale regista vorresti lavorare?
Mi piacerebbe ripetere l’esperienza e magari allargarla. Con “Le fate ignoranti” è stato forse troppo rapido: ho avuto solo quattro giorni di tempo per realizzare quei brani e non ho assimilato del tutto l’esperienza, mentre per il cortometraggio avevo già quelle musiche.

Mi sono arrivati molti copioni, sceneggiature, ma la situazione del cinema in Italia è piuttosto instabile: se ti dicono che domani si inizia facilmente succede che tutto sparisce d’improvviso e non se ne fa più niente. Di certo, non rifiuto mai proposte in tal senso, ma preferisco attendere che si inizino davvero le riprese. Per quanto riguarda i registi, amo molto Terry Gilliam e - fino al primo tempo - Tim Burton (solo il primo tempo perché poi s’addormenta, diventa lirico...).

Il tuo sound si presta all’ascolto infinito. Ad esempio ho avuto una specie di trip siderale sotto “Mondobuio” (peraltro così memore di “Guerre Stellari”), un’ode alla notte e a questi tempi da blackout globale. Quale dei tuoi brani di sempre riascolteresti senza stancarti e perché?
Probabilmente tra quelli editi anche io “Mondobuio”. Il pezzo è dedicato alla notte e la base nasce per dei provini che avevo fatto per “Almost blue”; probabilmente é tra i brani che amo di più, grazie alla sua ‘apertura’. Ti confesso un aneddoto: quando avevo meno di dieci anni, mi capitava di svegliarmi intorno alle 5.30 del mattino, di uscire di casa, camminare fino in piazza, circa 3 km, passeggiando sulla linea bianca della strada. Per me la notte era un incanto, soprattutto considerando che nel ‘74 le strade erano deserte, non giravano tutte le persone di oggi ad ora tarda. Così restavo seduto in attesa che la città s’animasse: vedevo arrivare il netturbino, il fornaio, il poliziotto, i piccioni… e quando la vita ormai brulicava, io me ne tornavo a casa. Poi quest’amore per la notte l’ho sviluppato negli anni, prediligendola al giorno, lavorando per locali, restando sveglio per puro piacere della pacatezza che la notte ti infonde. Può sembrare un concetto banale, ma i giorni sono tanti, mentre la notte è una... il suo sapore è unico. Il giorno vive di ritmi più scanditi e ordinati: tutti sanno che a mezzogiorno si mangia… ma alle tre di notte, che stai facendo?

“MondoBuio” è un brano aperto, ideale per uno scenario macchina-notte da soli-volume a palla-bassi incalzanti. Possiede una certa ‘gommosità’ che invade il buio e lo spazio che hai davanti. Il tutto con ritmo. E poi li dentro c’è Mina che canta!

Non ti consideri un dj. Su cosa si basa per te una buona esibizione live?
Mah... è una domanda difficile. Per cultura, siamo abituati a vedere nel live un uomo che si agita e che suona uno strumento. Purtroppo siamo in un futuro e non ce e siamo resi conto; quella che era un’immaginazione del futuro - prendi anche i prototipi delle automobiline che trovavo da piccolo su Topolino - oggi esistono davvero. Così è nella musica. Nei film che rappresentavano il futuro c’erano i musicisti che agitavano mani in aria, senza uno strumento, ed è esattamente ciò che accade ora - con gente che non fa che muovere le mani su un pc. Capisco quindi benissimo la necessità di veder succedere qualcosa sul palco.

Considero terribilmente povera la scena di chi si limita a fare live guardando un monitor. Non mi piace fare live con un mouse e personalmente non lo uso; utilizzo invece tracce messe insieme e ciò mi porta per forza a dovermi agitare. Sono sicuro di offrire poco a livello visivo, ma cerco di trasferire la mancanza di quello che succede sul palco con ciò che ti può arrivare dal punto di vista uditivo ed emozionale, che renda chiara l’idea che non ho solo spinto il tasto ‘play’. Vorrei che chi fa live smettesse di guardare il monitor - come d’altra parte vorrei che il pubblico la finisse di stare immobile con lo sguardo fisso verso un punto. Credo che in questo rientri molto la responsabilità di voi che scrivete e di chi fa musica.

Vedi il caso dei Chemical Brothers, di cui hanno scritto molto solo quattro anni fa, mentre esistevano già da un pezzo. Solo allora i giornalisti hanno scoperto la techno contaminata col rock. In Italia chi ora scrive e si trova nei punti di potere del mercato discografico, negli anni precedenti amava il rock ma non scriveva di rock perché gli altri scrivevano di cantautori... mentre ora scrivono solo di rock, cercano e vogliono le chitarre. Tutto è rimasto un po’ fermo nell’ambito dell’elettronica italiana: noto pochi artisti interessanti, ma almeno a Roma la scena è più calda rispetto alle altre città italiane. Prima, ogni volta che venivo a suonare nella Capitale, mi sembrava sempre di fare un salto indietro di un paio d’anni; ora che ci vivo credo che tutto si sia velocizzato, c’è molta più confidenza con certe sonorità e trovo sempre accoglienza in questo senso.

Cosa diresti ad un pubblico rigorosamente rock che si accosta per la prima volta alla tua musica…
Mah... mi trovi un po’ spiazzato. Principalmente c’è chi nasce rock e chi no. Anche se il mio primo strumento è stato la chitarra, la mia indole l’ho sempre sentita vicina ai suoni elettronici - semplicemente, li considero più eleganti. Credo infatti che l’eleganza sia il fattore che manca al rock… ma anche questi discorsi lasciano il tempo che trovano. Prendi ad esempio il primo brano del nuovo album (“You move me”): quella voce è così rock!

Inevitabile curiosità che il popolo di Rockit (e non solo) attende: perché Ominostanco?
E’ un termine a cui non si dovrebbe dare spiegazione... é un qualcosa di invariabile, immutabile nel tempo. Vengo chiamato Omino anche dai miei migliori amici e la cosa mi fa piacere. Ominostanco è Ominostanco, ma l’Omino è un’altra cosa.

Se fai una ricerca in rete con Omistanco saltano fuori cose che con me non c’entrano niente, gente che s’è creata un user-name con questo e quant’altro. Vorrei che il significato di Ominostanco arrivasse attraverso la musica; é uno pseudonimo che vuole racchiudere certe cose per permettermi di farne altre con altri pseudonimi. Mi piace questo termine perché suona bene, è italiano e io non volevo cadere in cose esterofile. Non ha un significato preciso: Ominostanco è un’attitudine, una condizione.

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L'articolo Ominostanco - Virgin (Roma), 20-05-2004 di Alessia De Luca è apparso su Rockit.it il 2004-06-19 00:00:00

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