Dai palazzi alla musica, dalla musica al futuro: chi è davvero Mosé Cov

"Lottiamo soli" è il suo nuovo singolo, tra le scogliere di Monet e i palazzi di Maciachini. Nella nostra intervista parliamo dei mille e un mondo di Mosè Cov

10/07/2018 - 10:51 Scritto da Vittorio Farachi

Nel quartiere Maciachini c'è un complesso di case popolari color vaniglia. Se riesci a superare il cancello e salire all'ultimo piano puoi arrivare fino al tetto. Da lì vedi da una parte i grattacieli fare a gare con le montagne, le sedi delle banche e i cantieri delle archistar, la città che cambia, cresce e mangia tutto. Dall'altro lato vedi il Duomo di Milano, fino al Castello Sforzesco e la distesa della pianura Padana, dove è tutto fermo e non cambia nulla. Così da sempre, così per sempre.
Può capitare di nascere in un palazzo come questi, e di restarci tutta la vita, dove delle due prospettive sembra che nessuna possa davvero essere la tua. Dove sembra tutto così vicino da poterlo afferrare, ma se ti sporgi vedi il vuoto sotto. Così per andare oltre quel tetto devi scendere fino al piano meno uno, tra i garage e i cantieri, tra i condoni, gli abusi e gli appalti truccati di una zona lasciata a se stessa puoi costruire il tuo studio di registrazione se sei così fortunato da avere un paio di amici buoni, un fratello maggiore e qualcuno che sappia capire quante cazzate sei riuscito a fare con l'impianto elettrico.
Può succedere che questa sia la storia di uno come Mosè Cov. Cov come il Case, Orse e Vietta, Cov come la crew di suo fratello che dieci anni fa sputa le prime barre su una base prodotta in uno scantinato. Da quel tetto Mosè Cov vede il suo orizzonte, con il quartiere sotto i piedi. Poche tracce e una strada in salita, ma una forza espressiva rara, preziosa e importante. Mosè Cov è un nuovo rapper, ma non pensate nemmeno per un momento alle Lamborghini e agli orologi. Questo è l'educazione della strada, dai palazzi al rap e dal rap al futuro. "Lottiamo soli" è il suo nuovo singolo, qui ne parliamo con lui. 

video frame placeholder

L'ultima volta che ci siamo visti è stato al MI AMI, parliamo quindi di un paio di mesi fa. Il pezzo in che momento di questo periodo è venuto fuori?
Il pezzo di per se è stato scritto circa un mese dopo "Da Sempre", ma ho avuto una sorta di blocco legato a quello che era e doveva essere il mio futuro. Non me la sentivo di fermarmi su questa cosa, in quel periodo avevo deciso di regalare a chi già mi segue su Instagram quattro tracce che avevo pronte come demo. Avevo bisogno di questo, avevo bisogno di sentirmi libero, non volevo dire “ascoltate questo, salvate quest’altro". Volevo che la gente mi desse un feedback vero su quello che stavo facendo. Che si interessassero in maniera vera, senza farlo perché faccio parte di una moda o qualcos’altro. Insomma, non volevo aver appiccicata solo un'etichetta su di me, volevo capire la mia strada. E che fosse quello a portare gente. 

Che è più o meno quello che è successo in Parco Sempione. Durante il set di Rockit All Starz ad APE nel parco sei salito sul palco: freestyle senza base, nessuno che era venuto per te. In fondo non sapevano nemmeno ci saresti stato. Eppure è andata da Dio, quindi vuol dire che la cosa funziona. 
È stato una bomba, è stato veramente una bomba. Non sapevo come sarebbe andata, sono entrato in una sorta di trance in quel momento, quindi mi fido di te, ecco. 

In "Lottiamo soli" il suono è un po’ diverso dalle tue produzioni precedenti, e un po’ più raffinato.
Lavorando con Fulvio (Ruffert, ndr) abbiamo cambiato la base un miliardo di volte, perchè l’obiettivo finale era proprio questo. Abbiamo cercato una ricerca maggiore sullo stile, sul modo stesso di fare le cose. Volevamo fosse qualcosa di più curato. Il fatto è che in questo momento tutto quello che sento e vedo intorno non mi rappresenta, con questo pezzo mi sono costruito una realtà diversa in cui vivere. Voglio ripartire da qui. “It’s a new done, it’s a new day, it’s new life”, ce l’hai presente Nina Simone quando faceva questa? Quando la sento mi viene la pelle d'oca. Mi sono disegnato un universo parallelo tutto mio, molto simile a quello che vedi nel video. 

Quindi i palazzi di Maciachini se chiudi gli occhi sono le scogliere della Liguria?
Esatto, in fondo i tetti dei miei palazzi non sono così diversi. Sei molto in alto, e qualche metro in avanti vedi il vuoto. Ho fatto finta che ci fosse il mare. Non riesco a scrivere in studio, ho bisogno di starmene in giro, e non solo per pensare ai testi, proprio mentre li scrivo. C’è un momento in cui cito “Le scogliere” di Claude Monet, l’ispirazione viene da lì. Non ho una visione struggente di questo dipingermi la realtà, non c’è disperazione, è solo un tentativo di evadere dalla realtà.

Credo che nella tua musica ci sia più che altro il passo successivo; non la disperazione, ma il riscatto, la rivincita e tutta quella storia del rialzarsi. Non che tu sia il primo a farlo, ma questo non significa che la cosa sia meno importante.
La redenzione si è sposata con le mie parole”. È questo che intendo con quella frase. 

Il momento del riscatto è anche quello in cui di solito scrivi?
No, né quando sono giù né quando mi rialzo. Lavorando alle basi parte tutto dalla musica, inizio da un beat, da un accordo, dalla bozza di una base e ci costruisco sopra il brano. Ho bisogno di avere un sottofondo, una tela. Però il foglio bianco da cui partire è sempre la traccia. 

Le basi te le produci sempre da solo?
Funziona così: parto con una struttura mia. Una volta che ho lo scheletro costruisco tutto il resto con Fulvio. Ma la prima cosa che viene in un brano è la musica. Anzi, spesso mi tengo da parte dei pensieri, non in rima eh, solo i pensieri, per aspettare la base giusta. Per me le rime sono qualcosa in più, non sono molto schematico. A volte capita che mi metta al microfono e cominci a tirare fuori un rap maccheronico, poi magari mi viene la frase in maniera spontanea. È una sorta di processo mistico.

Ora a cosa stai lavorando? 
Ho firmato con Warner da poco, si sono presi cura di questo brano, del mio progetto. Avevo bisogno di un binario come questo, per me essere indipendente a tutti i costi non è una neccessità. Mi serve avere un impianto alle spalle invece, qualcuno che mi segua in questo modo. Abbiamo il nostro studio nei palazzi, abbiamo la nostra realtà di quartiere. Ora ho qualcuno che ha riconosciuto questa cosa e mi aiuta a portarla fuori. Non è banale per uno come me firmare con loro, spesso passi a quel gioco tramite i numeri, i contatti o l’artista più grosso che ti spinge. Nel mio caso è stato un percorso di gavetta, facendo tutti i piani a piedi, con la musica al primo posto. 

Sul discorso dei numeri, avere un personaggio forte, che superi il lato musicale, aiuta a trovare un percorso come il tuo. Essere riconoscibile per come ti vesti, come parli, come usi i social può fare la differenza, più di quanto faccia la musica in sé. Nel tuo caso invece la musica viene prima, sempre, ed è l’unica chiave.
Credo che il successo sia sempre legato al modo in cui lo raggiungi. Se ti viene di botto, da un giorno all’altro, è più difficile gestirlo, e come arriva può andarsene. Diventa un castello di carte molto fragile se non hai la musica come fondamenta, perché sei un artista comunque, non un semplice personaggio pubblico, e la musica deve essere al centro. Nel mio caso è stata la musica a portarmi a questo, chi mi ha sempre cercato per propormi qualcosa, da questo contratto a un live, spesso non sapeva nemmeno che faccia avessi. 

Tra queste porte che ti sei aperto hai citato anche al MI AMI. È passato un po’ ora, guardando indietro come è stato suonare su quel palco?
Incredibile. Anche lì, questa possibilità me l’ha data la musica. Suonare al vostro festival è stata una delle occasioni più importanti che abbia avuto, ma la gente lì non mi conosceva. Insomma, mi sono dovuto guadagnare il pubblico, conquistare la fiducia di chi di quei tre palchi aveva scelto quello in cui stavo suonando io, per sentire la mia roba, per capire chi e cosa fossi. Quando sono salito non c’era nessuno davanti, si è riempito piano piano, è stata una botta emotiva pazzesca. 

Vieni dal mondo del rap, e il rap è il tuo mondo. Oggi però i mondi sono tanti e comunicano tra loro, se forse ci sono ancora le scatole queste sono tutte aperte. Tu cosa vedi oggi nella musica, parlando proprio di generi e di cosa dev'essere oggi un album?
Oggi un album deve essere forse più vicino a quello che è una playlist. Non deve essere tutto un discorso unico, avendo per forza quel numero di brani e quella durata, può avere tutte le forme che vuoi. Guarda XXXTentacion, che risuciva a prendere e mettere insieme riferimenti completamente diversi tra loro e fare qualcosa di sempre diverso ma sempre personale, autentico e riconoscibile. Oggi è tutto veloce, tutto passa subito, quindi è importante far sì che quello che fai rimanga. Per un artista quindi il disco deve essere un prodotto importante, e deve essere preciso. Non può essere la cosa che tiri fuori a cazzo, solo perché hai bisogno di uscire. Ovviamente non dico nulla a chi lo fa, ognuno si gestisce come vuole, questo però è come la vedo io. E poi è importante anche saper essere divertenti, non stupidi o leggeri per forza, ma senza fare sempre quelli solo giù. Anche se io questa cosa non so farla. Altra cosa che un disco deve avere è la sincerità.

L'ultima parola che hai detto è sincerità, credo sia una parola importante. Personalmente penso che l'unica regola per un'artista debba essere quella di restare fedele a se stesso. Ben vengano i contenuti importanti, ma non sono una regola nel momento in cui diventano qualcosa che non appartiene a chi scrive. Se pensi solo alle fighe, devi essere libero di poter scrivere solo delle fighe. In questo momento storico però penso anche che chi comuncia qualcosa non possa non sentire una responsabilità nell'impatto che ha sugli altri. Un artista non deve salvare il paese, ovviamente, ma cosa pensi del fatto che forse, in minima parte, potrebbe?
C'è una frase di Fibra, credo fosse "Turbe Giovanili", che dice "Un conto è fare musica per stessi, un'altro è fare musica per se stessi per gli altri". Questa è una cosa che mi sono portato sempre dentro. Però non vuol dire nemmeno che se cominci a fare il Bukowski diventi Bukowski. Devi essere fedele a te stesso, sempre, e soprattutto consapevole di quello che sei in grado di fare. Non è semplice e ci vuol tempo per capirlo, ma è importante sapere cosa è alla tua portata per non fare il passo più lungo della gamba. Se prendi una posizione, se ti esponi, poi devi saper tenere il terreno, non puoi permetterti di finire le frecce al tuo arco. Ho sempre pensato che fosse una stronzata la responsabilità degli artisti. Alla fine noi facciamo musica, non siamo noi a governare il paese, è il mestiere di qualcun'altro. Però penso anche, e l'ho capito da poco, che non puoi dimenticarti che quello che fai ha un effetto su chi ti ascolta. Non puoi scordarti che dall'altra parte c'è un ragazzino incazzato chiuso in camera sua che sta imparando a memoria i tuoi testi.
Mi ricordo quando c'ero io in quel momento lì, e di come in molte situazioni i testi di Marra mi hanno salvato la vita. Io voglio fare questo, dire al me stesso di dieci anni fa chiuso in camera sua quello che ha bisogno che qualcuno gli dica. Che nessuno gli regalerà niente, che non si sveglierà una mattina con due orologi al polso e con un casa più grande. Ma che se vuole qualcosa può andarsela a prendere. Senza romanticismo, senza fare drammi. Stai male? Alza il culo e fai qualcosa. Perché puoi farlo.
Qualsiasi cosa farai devi provarci, e non è detto che andrà bene, che tutti ce la faranno, non è detto che tu ce la farai. Ma questo non vuol dire che tu non debba farlo ugualmente. 

 

 

 

---
L'articolo Dai palazzi alla musica, dalla musica al futuro: chi è davvero Mosé Cov di Vittorio Farachi è apparso su Rockit.it il 2018-07-10 10:51:00

COMMENTI

Aggiungi un commento Cita l'autore avvisami se ci sono nuovi messaggi in questa discussione Invia