Chiariamo una cosa: a Torino non c'è la nebbia. Io ci ho vissuto cinque anni e l'avrò vista sì e no tre volte. Quindi se qualcuno, ascoltando i Joybeat ha pensato "Gruppo-di-Torino-Torino-nebbia-nebbia-Inghilterra-Inghilterra-Brit pop-Gruppo di Torino-Brit pop", no, l'equazione è sbagliata. Ma, se non è la nebbia, qualcosa che accomuna la città sabauda alle cities d'oltremanica comunque c'è, ed è una certa tendenza all'introversione e all'operosa malinconia, sublimata nella vivace e sbevazzante vita notturna.
Contraddizione espressa dai Joybeat a partire dal nome: Joy come i re della tristezza Joy Division, Beat come le pulsazioni dei cuori della movida. Finanche troppo didascalico: il contenuto infatti, come da aspettative, sono storie di ragazzi in attesa che arrivi un ufo a rapirli, raccontate con studiato accento chav su ritmi da ballare, ma senza scomporsi troppo, e piacevoli alternanze di spensieratezze e ombrosità adolescenziali, citazioni ultrapop ("Lucy") e riferimenti più "alti" ("Dedalus"). Una buona partenza, prova che non sono necessarie nebbie tanto fitte per suonare del gradevole indie-pop.
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